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La filosofia è ricerca del vero, e il vero è uno

Dicevamo, nel precedente articolo È l’essere che ci fa esistere (pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 23/706/2018) che le filosofie moderne si sono rivelate tutte fallimentari, perché hanno rinunciato a porre la domanda centrale della vera filosofia, che cosa è l’essere?, per limitarsi a domande settoriali, circoscritte, limitate; o perché impostate su una prospettiva completamente sbagliata, che ignora la dimensione della trascendenza e capovolge il giusto rapporto dialettico che si dà fra l’essere e il pensiero, mettendo il pensiero all’origine dell’essere e non viceversa; oppure, ancora, concentrando la propria attenzione sul fatto dell’esistenza, laddove il compito della filosofia non può e non deve essere quello di spiegare i fatti — a ciò bastano le scienze — bensì quello di chiarire in che modo si dia l’essere da cui scaturiscono i fatti, e che li rende possibili: poiché i fatti sono l’accidente, mentre l’essere è la sostanza, e la filosofia deve occuparsi di ciò che è sostanziale e non di quel che è accidentale. A quel punto ci eravamo fermati, essendoci proposti di non oltrepassare, per quanto possibile, una certa misura di spazio; ma con l’intenzione di riprendere e terminare il ragionamento (terminare, per modo di dire: questo è uno di quei ragionamenti che non ha mai termine, nel senso proprio della parola), giacché da molto tempo stiamo portando avanti un discorso articolato e di ampio respiro, nel quale i singoli articoli possono esser eletti come singoli capitoli di un unico libro, o, se si preferisce, come le tessere, solo apparentemente sparse, di un ampio mosaico, la cui struttura d’insieme appare chiaramente solo se ci si pone a qualche distanza da esso, in modo da poter cogliere il disegno complessivo. E il disegno complessivo verte proprio intorno a questo tema, sia che lo affrontiamo partendo da una questione di storia, o di estetica, o di letteratura o di psicologia, o di scienze naturali: la realtà dell’essere, e il modo in cui l’essere dona e conferisce una parte di sé agli enti, in modo da condurli all’esistenza autonoma: non già perché gli enti esauriscano la loro realtà nella dimensione accidentale, e poi si disperdano nel nulla, ma perché riflettano, nella loro parabola esistenziale, lo splendore e la sapienza dell’essere che li ha generati. E poiché la creatura umana è caratterizzata dall’intelligenza e dalla volontà, essa è l’unico ente che gode del privilegio di poter scegliere se aderire liberamente a tale disegno, mettendosi in perfetta sintonia con esso, oppure se fare resistenza, tentare di sottrarsi o addirittura opporvisi: realizzandosi pienamente nel primo caso, vanificando la propria esistenza nel secondo. Infatti, il senso dell’esistenza di una creatura libera e intelligente non può consistere che nel farsi una cosa sola con la volontà dell’essere dal quale lei, come ogni altro ente, ha ricevuto l’esistenza. Da ciò deriva che ogni qual volta gli uomini, con i loro comportamenti individuali, così come con gli atti collettivi, o di portata collettiva — politica, economia, finanza, azioni militari, ecc. — vanno contro la volontà dell’essere, vanno anche contro se stessi, bruciano le loro potenzialità migliori, distruggono la loro felicità e preparano a se stessi un avvenire d’inferno.

Ma c’è un altro indizio suscettibile di rivelarci l’essenza sterile e anti-umana delle filosofie moderne, oltre alla incapacità di porre a fuoco la domanda essenziale, cos’è l’essere?, o di mettersi nella giusta prospettiva nel rapporto fra gli enti e l’essere, o di assolutizzare l’esistenza, che invece è un fatto contingente. Si tratta di un indizio inequivocabile e semplicissimo: la pluralità delle filosofie moderne. La modernità si caratterizza per il fatto che ha sostituito la filosofia con le filosofie, e, più in generale, il sapere con i saperi: conseguenza dell’aver rinunciato alla metafisica, giudicandola indimostrabile (con Kant), e di aver capovolto il giusto rapporto fra essere e pensiero (con Hegel e, poi, Croce e Gentile). Ciò equivale ad aver introdotto la pazzia nella ricerca speculativa, e, cosa ancor più grave, ad averla perfettamente normalizzata, innalzandola al livello di un dogma. Non ci vuole un grandissimo sforzo del pensiero per capire che se la filosofia è la ricerca del vero, non ci possono essere le filosofie, al plurale, perché sarebbe come dire che ci sono tante verità. Ora, quest’ultimo concetto è penetrato talmente in profondità nella cultura moderna, che un po’ tutti, a forza di sentirselo battere e ribattere in testa, hanno finito per trovarlo normale e "naturale", e hanno quasi perduto la capacità di vederlo e considerarlo per quel che realmente è: un’assurdità bella e buona, una palese contraddizione in termini. Dire che esistono parecchie verità è la stessa cosa che dire che esistono parecchie giustizie, tutte ugualmente legittime: ma questo non può essere. Certo, storicamente ed empiricamente, constatiamo che si sono formate diverse idee e diverse pratiche riguardo alla giustizia, ma tutte si basano sull’idea che la giustizia in sé esista, anche se la giustizia umana sarà sempre una approssimazione ad essa. Nessuna, per esempio, assume l’idea che l’assassinio freddamente premeditato sia qualcosa di diverso da un crimine; nessuna lo giustifica, a meno che intervengano circostanze particolari, tali da modificare la norma generale (lo stato di guerra, per esempio), che l’omicidio premeditato è male e deve essere sanzionato dalla legge.

Analogamente, nessuna cultura — prima della modernità, beninteso — ha mai accolto l’idea che esistano contemporaneamente diverse verità, perché una tale idea sarebbe apparsa quale effettivamente è, del tutto aberrante. Ma la modernità, che detta da se stessa le proprie regole, e crea da se stessa la propria mitologia e la propria tavola dei valori, o piuttosto disvalori, ha ripetuto con tale insistenza che la verità non è mai una sola, ma che ce ne sono parecchie, da aver reso assiomatica questa affermazione pazzesca, facendo sì che non venga percepita per quel che realmente è. Del resto, la relativizzazione del vero è funzionale alla relativizzazione di ogni altro punto di riferimento esistenziale: oltre al giusto, anche il buono, il bello, eccetera. Che altro è la cosiddetta arte moderna, se non la ricerca del brutto, con la motivazione ideologica che esistono tante idee del bello? Ma anche questa è un’affermazione assurda: si potrà dire, semmai, che esistono diverse idee su come realizzare il bello, come ci sono diverse prospettive da cui realizzare una fotografia, o diverse tecniche per dipingere un quadro; ma non ci sono, né ci potrebbero essere, diverse idee su ciò che è bello, perché, se così fosse, chi dicesse che un barattolo pieno di escrementi è bello quanto la Vergine delle rocce di Leonardo o la Primavera di Botticelli, e magari anche più bello, avrebbe ogni ragione di dirlo, e nessuno gli potrebbe obiettare alcunché. Suvvia, siamo coerenti, sono queste le conseguenze del relativismo. E se non piacciono, allora bisogna avere l’onestà di dire che il relativismo è una pazzia, perché nega e contraddice frontalmente qualcosa che è insito nelle profondità dell’anima umana. Il senso della bellezza è insito in ogni essere umano, al di là delle differenze di età, di cultura, eccetera; anche se è chiaro che un’anima educata al bello sa riconoscere le cose belle con istinto più sicuro. Per negare questa semplice verità, bisogna fare appello all’istinto anormale di alcune persone: infatti, solo una persona anormale può trovare belle le cose disgustose, e magari viceversa, disgustose le cose belle; e ciò la dice lunga sul grado di anormalità generalizzata e complessiva cui è giunta la società moderna, e di cui è imbevuta tutta la cultura moderna. Così pure, se si assume il relativismo come criterio di giudizio estetico, nessuno potrà contestare la preferenza accordata a Mmh ha ha ha bla bla di un genio musicale come Young Signorino, rispetto a banali e soporifere melodie come la Quinta sinfonia di Beethoven o La Passione secondo Matteo di Bach. Inutile dire come il relativismo abbia creato il terreno ideale affinché prosperino tutti quei piccoli narcisisti che non hanno alcun talento, ma sufficiente faccia tosta per farsi avanti in cerca di applausi: complice una critica sempre più lontana dal sentire comune, molti di loro hanno fatto, e fanno, splendide carriere, nonostante la loro mediocrità o la loro nullità, in tutti gli ambiti possibili e immaginabili, da quello artistico e musicale a quello letterario, filosofico e persino teologico. L’importante è che siamo moderni*: formula magica che significa, press’a poco: l’importante è che siano strani, incomprensibili, cervellotici e con qualche generosa spruzzata di bruttezza o di sgradevolezza. È logico: ai moderni piace ciò che li riflette, essendo la cultura moderna un sottoprodotto dell’ego ipertrofico, cioè del narcisismo; e mentre in una società sana viene onorata una cultura sana, e a un artista si chiede di celebrare la bellezza, a un pensatore di cercare la verità, in una società malata, invece, viene diffusa e ammirata una cultura malata, ove gli artisti celebrano il deforme, l’anormale, il brutto, il disgustoso, il perverso, e i pensatori rendono omaggio all’assurdo, al grottesco, al demenziale, al paranoico, al demoniaco (e spesso, quest’ultimo, in un senso molto più reale di quel che non si creda).

Naturalmente, i critici moderni hanno messo a punto le loro contromosse davanti a questa semplice obiezione, creando una artificiosa distinzione fra il soggettivismo, che è cattivo, e il relativismo, in se stesso buono, o, quanto meno, perfettamente legittimo. E sempre facendosi forti di una altrui debolezza (psicologica e morale, più che intellettuale): la pura di essere accusati di totalitarismo. Il pensatore che dichiari assurda la compresenza di diverse verità, viene infatti tacciato di totalitarismo; l’artista che dica di credere nella bellezza, al singolare, si vedrà appioppare, anch’egli, l’epiteto di totalitario; figuriamoci il credente che si azzardi a definire assurda l’idea che vi siano più religioni, perché, se "religione" è la forma che prende la relazione veritiera fra l’uomo e Dio, non possono esistere diverse forme, che si escludono e si condannano a vicenda, ma una sola, mentre le altre saranno delle false religioni. E qui la modernità tocca il suo punto più avanzato e, nello stesso tempo, più intransigente, perché dal relativismo religioso dipende tutto il resto: nessuna meraviglia, pertanto, che qui, e proprio qui, la cultura moderna abbia concentrato i suoi sforzi, al fine di etichettare come odiosa, sbagliata e pericolosissima l’idea della verità di una sola religione, cioè la propria, che il cristianesimo — perché la modernità, non dimentichiamolo mai, è un prodotto dell’Occidente, non della Cina, dell’India o dell’Africa. Non ci possono essere due o più "religioni", tutte ugualmente valide e vere, più di quanto non ci possono essere due o più dei, tutti ugualmente veri e degni di essere adorati, anche se si manifestano agli uomini con messaggi radicalmente differenti, gli uni — ad esempio – di odio e di vendetta, gli altri di amore e di perdono. Ed ecco perché il Concilio Vaticano II, un giorno, verrà riconosciuto come il punto di svolta della civiltà moderna: perché in esso la Chiesa cattolica si è inchinata, di fatto, al principio del pluralismo religioso e ha, con ciò, sottoscritto quel relativismo radicale il quale, fino a quel momento, era rimasto limitato alla società laica e alla cultura profana. Dal 1965, il relativismo è divenuto l’ideologia ufficiale dell’Occidente: perché l’ultima ad arrendersi è stata la Chiesa, che, fino allora, aveva resistito gagliardamente, portando avanti una sua concezione della vita, ben diversa dalla concezione laicista e secolarizzata, ma a quella data ha ceduto a sua volta, e pressoché di schianto. Anzi, in quella occasione è venuta fuori una carica di rancore e di auto-disprezzo, da parte di molti teologi e di molti membri del clero, anche non più giovani, quale a stento si sarebbe potuta immaginare. Evidentemente, sotto la superficie, da tempo, nella Chiesa, covavano i germi della dissoluzione, di cui il modernismo non era che la manifestazione ideologica. Pio X li aveva visti e a aveva reagito prontamente, con forza e decisione, nel 1907, mediante l’enciclica Pascendi contro il modernismo. Ma tutte le istanze del modernismo, e sia pure con nomi e formule diversi, con il Concilio sono tornate alla ribalta, con forza decuplicata e, per così dire, nobilitate e rese rispettabili dal parere di "illustri" teologi: gli stessi che sono riusciti a prendere, con un colpo di mano, la direzione delle commissioni conciliari, e ad imprimere, così, l’indirizzo desiderato all’insieme dei lavori. Il risultato, come è ben noto, è stata la cosiddetta "svolta" antropologica in teologia, tenuta a battesimo dal gesuita Karl Rahner e dai suoi seguaci. Da quel momento, nella società occidentale ha cessato di esistere qualunque forza organizzata capace di contrastare l’ideologia dilagante del relativismo. Tranne qualche voce isolata, d’altronde messa subito all’indice della cultura politically correct, tutti gli intellettuali occidentali e tutti gli esponenti del mondo dello spettacolo hanno fatto a gara nel professare e nel dare l’esempio concreto di un credo relativista, in ogni ambito possibile e immaginabile, dalla filosofia alla musica leggera, dalla televisione allo sport. Il relativismo ha conquistato innanzitutto le classi dirigenti; la maggioranza della popolazione, per il momento, ha conservato, o cercato di conservare, i valori tradizionali; ma poi, sottoposta a un bombardamento incessante, ha finito per introiettare il nuovo modo di sentire, quanto meno negli Stati Uniti e nell’Europa occidentale (un discorso diverso andrebbe fatto per l’Europa orientale e, in qualche misura, per quella meridionale, Italia del Sud compresa). Qualche sacca di resistenza si è conservata più a lungo nel modo cattolico e anche nel clero, ma in posizione sempre più marginale.

Eppure, verrà il tempo del risveglio. La filosofia è ricerca della verità (sofia, per i greci, era la sapienza, intesa come conoscenza del vero), e la verità è una, o non è tale. La cultura dominante, imposta dal potere finanziario, sta mostrando la corda. La gente sta incominciando a stancarsene, perché col relativismo non si va lontano. La vita ha bisogno di certezze, quindi ha sete della verità…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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