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Attenti alla Francia

Fra il 1870 e il 1942 i popoli del continente europeo dovevano fare attenzione alle mosse della Germania: era da lì, dallo Stato più dinamico e più potente, dalla società più giovane ed espansiva, che veniva il pericolo, se per pericolo s’intende un rimescolamento degli equilibri economici e degli assetti di potere complessivi. Chi aveva qualcosa da perdere — la Gran Bretagna, soprattutto; poi la Francia — doveva tenersi pronto, studiare le contromosse, stabilire un piano preventivo per non farsi scalzare. A rimanere fermi, vi era una sola certezza: quella di retrocedere, di lasciarsi porta via quote sempre maggiori di mercato interno e internazionale, di farsi superare a livello finanziario, industriale, commerciale, perfino agricolo. Di rimetterci anche pezzi dei propri imperi coloniali: le due crisi marocchine erano state un assaggio, e la Francia, alla fine, aveva lasciato una bella fetta del Congo nelle fauci del colonialismo tedesco, l’ultimo arrivato e il più vorace, forse il più aggressivo. Pur di porre un argine, la Gran Bretagna venne a un accordo sia con la Francia, la sua eterna rivale in Africa, in Asia e nel Pacifico, sia con la Russia, nonostante con quest’ultima fosse impegnata da mezzo secolo nel "grande gioco" in Asia centrale, per proteggere le frontiere settentrionali dell’India, la gemma del suo impero. Ma la Germania, ai primi del ‘900, aveva iniziato la costruzione di una flotta d’alto mare che avrebbe messo in discussione, per la prima volta dai tempi di Trafalgar, la supremazia marittima britannica: se avesse perso tale supremazia, la Gran Bretagna avrebbe perso, presto o tardi, anche il suo smisurato impero, che abbracciava più di un quarto delle terre emerse. Per la Francia la posta in gioco non era marittima, ma continentale: dopo la bruciante sconfitta del 1871 e la perdita dell’Alsazia-Lorena, essa aveva perso l’egemonia sul continente e non si sentiva più sicura nemmeno sul Reno: allearsi con la Gran Bretagna e con la Russia, per fermare la Germania, e, possibilmente, prendersi la rivincita su di essa, era per la Terza repubblica una questione di vita o di morte — o, almeno, così presentava la cosa la stampa d’indirizzo nazionalista, cioè quasi tutta (i francesi erano e sono ultranazionalisti perfino quando sono socialisti: valga per tutti il caso di Clemenceau, il leggendario "Tigre"). La Russia, da parte sua, non aveva un reale interesse ad allearsi con la Gran Bretagna, che nel 1904 aveva sostenuto il Giappone, e neanche con la Francia, che politicamente stava agli antipodi dell’autocrazia zarista, come polo mondiale del parlamentarismo massonico e anticlericale. Se lo fece, fu solo perché la diplomazia francese fu abbastanza abile da farne la sua alleata in funzione antitedesca, e la diplomazia tedesca, sotto Guglielmo II, fu così stupida da lasciarsela sfuggire; e perché i suoi stessi politici furono tanto sciocchi da non vedere che avevano tutto da perdere alleandosi con inglesi e francesi, mentre avrebbe avuto tutto da guadagnare confermando il patto dei tre imperatori dell’epoca bismarckiana, con Germania e Austria-Ungheria. La Russia era una potenza in ascesa, e non si sapeva fin dove sarebbe arrivata, nonostante la battuta d’arresto del 1905: né il Caucaso, né il Bosforo, né l’Himalaia, né l’Ussuri parevano frontiere invalicabili: le sue mete erano Costantinopoli e il Mediterraneo, la Mesopotamia, l’India e la Cina, attraverso la Manciuria. Ma la Russia puntava anche ai Balcani, si presentava come la protettrice della Serbia, e ciò la poneva inevitabilmente in contrasto con l’Austria, alleata di ferro della Germania.

Nel 1914 la Germania ebbe l’occasione, probabilmente unica, di imporre la sua egemonia sul continente europeo, ma fu talmente maldestra da provocare l’immediato intervento della Gran Bretagna, che, in effetti, non aveva creduto ci sarebbe stato (nonostante il Piano Schlieffen e la prevista invasione del Belgio neutrale: questo la dice lunga su quanto fossero stupidi i suoi governanti e come lasciassero briglia sciolta ai militari, ancor più stupidi di loro). Se i tedeschi avessero vinto la guerra, come previsto, in un paio di mesi, e se avessero evitato di offrire un pretesto per l’intervento inglese, l’Europa sarebbe caduta loro in bocca come un frutto maturo; invece non seppero fare né una cosa, né l’altra, il che fu qualcosa d’imperdonabile, dato che essi avevano i mezzi militari per vincere e i mezzi diplomatici per dilazionare (anche se non per evitare all’infinito) l’intervento britannico, che necessariamente avrebbe portato con sé, presto o tardi, anche quello americano: un’altra cosa che, incredibilmente, i capi della Germania non previdero sino all’ultimo. Ma una volta entrata in guerra la Gran Bretagna, la sconfitta della Germania era certa ed era solo questione di tempo, come quella di Napoleone un secolo prima, semplicemente perché la Gran Bretagna aveva il controllo dei mari e sarebbe stata in grado di bloccare indefinitamente le coste dell’Europa, riducendo alla fame gli Imperi centrali. Il ruolo della Francia fu puramente passivo: vincendo, "per miracolo" (come ammisero i suoi stessi storici) la battaglia della Marna, impedì alla Germania di vincere, quando questa, per vincere, doveva vincere anzitutto la guerra contro il tempo; e così diede il modo alla flotta britannica di fare il suo sporco lavoro, ridurre alla fame i suoi nemici, cioè gli abitanti dell’Europa continentale. Fino a quel momento, in Europa, le guerre si erano fatte con gli eserciti; ora si faceva la guerra alla popolazione. Ma i britannici si erano egregiamente allenati con i campi di concentramento durante la guerra boera nel Sudafrica, fra il 1899 e il 1902, quindi erano diventati degli esperti. Furono i soli che non entrarono in guerra, nel 1914, sull’onda di romantici ideali; i soli che sapevano molto bene quel che dovevano fare, e come lo avrebbero fatto: recidere la vena giugulare dell’Europa per provocarne il crollo. Tutti gli altri, francesi, russi, serbi, belgi, italiani, erano solo carne da cannone per il raggiungimento dei loro scopi di guerra: fermare l’ascesa economica, finanziaria, industriale, e soprattutto navale, della Germania.

Nel 1919 la Francia ebbe il suo ultimo, tardivo e sterile momento di "gloria". Sulle macerie dell’Europa, al prezzo di trenta milioni di morti (venti per la "spagnola") poté avvantaggiarsi della disfatta tedesca, dello smembramento dell’Austria, della guerra civile russa (con Denikin che marciava su Mosca e Kolciak che si affacciava agli Urali); ottenne, con le sue logge massoniche, la nascita di una catena di Stati in funzione anti-tedesca, a lei legati militarmente ed economicamente (la Piccola intesa): non era più accaduto dal 1870, e non sarebbe mai più accaduto, che fosse restaurata nel suo ruolo di potenza continentale egemone (sempre per quel tanto che il naval power britannico lasciava la catena allentata all’Europa, chiunque vi esercitasse l’egemonia). Ma la verità è che l’apparente supremazia francese era stata resa possibile dall’intervento americano del 1917, un copione che si sarebbe ripetuto nel 1944, stavolta con effetti permanenti. Non appena la Germania si rimise in piedi e i bolscevichi rafforzarono il loro potere in Russia, l’egemonia francese si rivelò per quello che era: un bluff. Nel 1940, i tedeschi ci misero quattro settimane a demolire l’esercito francese, con tutta l’imprendibile Linea Maginot; e da quella disfatta esso non si sarebbe più ripreso. Ma fin da prima del 1939, la Francia, di fatto, aveva cessato di essere una vera potenza mondiale: era solo la spada continentale dell’Inghilterra, e fu da questa che si lasciò trascinare al macello per Danzica, controvoglia. Gli inglesi le mostrarono la loro gratitudine a Mers el Kebir. Per Churchill, Roosevelt e Stalin, divenuti improbabili alleati dopo il giugno del 1941, la Francia era finita; fu rimessa artificialmente in sella dopo lo sbarco in Normandia e riebbe il suo rango di potenza mondiale, più che altro sulla carta e grazie all’abilità di De Gaulle, ma sulla base di una colossale menzogna storica: che la "vera" Francia fosse quella gollista e non quella di Vichy. Se il Regno d’Italia avesse avuto un De Gaulle invece di un Badoglio, forse avrebbe riavuto anch’essa il suo ruolo di grande potenza, per grazioso dono degli alleati; ma il fatto è che essa non aveva i De Gaulle, e neppure i Cavour, perché la guerra civile aveva portato al timone gli antifascisti di ferro, nessuno dei quali aveva la capacità di rappresentare sia la ritrovata concordia interna (e quindi la pacificazione), sia la volontà di difendere gli interessi italiani a livello internazionale. Quelli che l’Italia poté esibire dopo la guerra erano tutti uomini della sconfitta, perché venivano fuori, politicamente e moralmente, dall’8 settembre 1943, data che segna non la sconfitta del fascismo (già auto-liquidatosi il 25 luglio), ma la disfatta della nazione. I nuovi governanti potevano essere solo i proconsoli dei vincitori, perché, rinunciando a ereditare il programma nazionale del fascismo, dovevano per forza appoggiarsi quasi totalmente sulla forza di chi avevano piegato la nazione a suon di bombe. Così l’Italia fu trattata da Paese sconfitto, mentre la Francia, che era stata sconfitta come e più di lei, si ritrovò, ancora una volta, dalla parte giusta: quella dei vincitori.

Però la Francia del 1945 era ancora più debole, in proporzione, di quella del 1918, mentre americani e sovietici si spartivano il continente e la stessa Gran Bretagna, costretta ad andarsene dall’India, perdeva in pochi anni il suo status di potenza mondiale. Ormai la partita era fra Stati Uniti e Urss, e l’Europa era solo la posta in gioco, come lo era stata l’Italia al principio del XVI secolo. De Gaulle poteva solo sognare un’Europa dall’Atlantico agli Urali, sotto un’impossibile supremazia francese; di fatto, tutto quel che poté fare fu liquidare la guerra algerina e uscire, per dispetto, dal sistema unificato di difesa della NATO. Però, assicurandosi uno dei cinque seggi permanenti alle Nazioni Unite, la Francia si era comunque ripresa, sulla carta, lo status di grande potenza, anche se non lo era affatto; e poté costruire la sua atomica e sperimentarla, di tanto in tanto, negli atolli del Pacifico; mentre la Germania, ridivenuta tanto più forte di lei nel giro di pochi anni, non ebbe né il seggio all’ONU, né, tanto meno, la disponibilità di un proprio arsenale atomico. Così la Gran Bretagna e la Francia, ex grandi potenze, pesavano ancora un poco, a livello politico mondiale, benché il mondo fosse ormai un condominio russo-americano.

Questa era la situazione quando la caduta del Muro di Berlino e la dissoluzione dell’Unione Sovietica sono venute a scompaginare di nuovo le carte; proprio mentre la politica mondiale era fatta sempre più dalla grande finanza e dai gruppi di potere internazionali, come la massoneria o il Bilderberg, e sempre meno dai governi degli Stati sovrani. La disfatta del comunismo non ha sciolto la NATO, ne ha ridispiegato le forze e l’ha proiettata su scenari sempre più lontani dall’Europa (Afghanistan, Iraq). Ma proprio per questo fatto, i governanti della Francia, che non hanno mai deposto la nostalgia della passata grandeur, gollisti o socialisti che fossero (Pompidou, Giscard d’Estaing, Mitterrand) hanno intravisto la possibilità di ritagliarsi quello spazio autonomo, e potenzialmente egemonico, perduto con le due guerre mondiali e con la guerra fredda. È vero che la Francia, nel mondo delle superpotenze e dei BRICS, è un peso piuma fra i pesi massimi, però, nel vuoto di potere dell’Unione europea, anche un peso piuma, se è ben determinato, può dire la sua. L’asse privilegiato con Berlino è una formula che adombra queste mai sopite velleità egemoniche, ed è anche la chiave per capire la feroce pregiudiziale anti-italiana della politica estera francese dal 1945 a oggi (chi ha memoria, non scorda la posizione francese sulla questione del confine italo-jugoslavo; perfettamente analoga, del resto, a quella già tenuta da Parigi nel 1919). L’Italia deve essere tenuta nell’angolo, in una posizione d’irrilevanza: primo, perché è una grande potenza economica (superiore alla Francia), secondo, perché, se si allea con Berlino, la Francia si trova isolata. Ne discende che uno degli elementi costanti della politica estera dell’Eliseo consiste nell’indebolire l’Italia in ogni maniera possibile. La sporca guerra contro la Libia di Gheddafi (due volte sporca, perché Gheddafi aveva finanziato la campagna elettorale di Sarkozy, e bisognava far sparire le prove) aveva lo scopo principale di sottrarre all’Eni il petrolio del colonnello, quindi fu una guerra conto Roma. Se, poi, la caduta di Gheddafi avrebbe precipitato la Libia nel caos, tanto meglio: primo, perché i francesi avrebbero preso sotto la loro ala protettrice le forze dissidenti della Cirenaica, secondo, perché la ripresa del flusso migratorio attraverso i porti libici avrebbe destabilizzato la "cugina" latina e l’avrebbe rinchiusa nel Mediterraneo, obbligandola alla difensiva (fra parentesi, sapete chi era il primo partner commerciale dell’Iraq, della Siria e della Libia? Provate a immaginare: l’Italia…).

La mosse di Macron in Siria e sul fronte dei migranti, con i vergognosi attacchi alla politica estera italiana del governo Conte, rientrano in questo quadro. Macron è meno di una nullità, però lo hanno messo al potere i banchieri, cioè i poteri forti che volevano sbarrare a ogni costo la strada alla Le Pen. Queste nullità sono pericolose, perché hanno sufficiente spregiudicatezza da avventurarsi in mosse rischiose, che politici più navigati evitano accuratamente. Ad ogni modo, non solo costui non si è scusato con Conte per le frasi intollerabili contro l’Italia, ma lo ha anche ammonito a non cercare l’alleanza di Berlino, arrivando al punto di evocare il fantasma dell’alleanza italo-tedesca del 1939. È evidente che considera l’Italia una specie di protettorato francese, ma al tempo stesso è terrorizzato dalla possibilità che si formi un asse Roma-Berlino-Vienna. Non ha capito niente e non ha imparato niente. Oggi la grande politica la fanno le multinazionali, le banche centrali e le agenzie di rating. Sul piano "ideale", la Francia si pone come la patria del laicismo (massonico) e come richiamo per tutte le forze radicali (si ricordi la dottrina Mitterrand, che consentiva ai brigatisti rossi di espatriare tranquillamente in Francia, dopo aver compiuto crimini di sangue in Italia), ma queste forze cercano ben altri patroni che l’Eliseo: la Goldman Sachs, la Lehman Brothers, i Rockefeller, Soros; in Europa, la Banca centrale europea. Chi odia e teme il sovranismo e il populismo, chi odia e teme l’eventualità di una rinascita cristiana, non va a mettersi sotto l’ala protettrice di un Macron, ma cerca sponsor come Wall Street (e la City, e Gerusalemme) da una parte, o come Bruxelles, dall’altra: dollaro contro euro (la moneta forte tedesca). Non c’è spazio per le illusioni da grande potenza della Francia. I francesi in fondo lo sanno, ed è per questo che si concentrano, da anni, nel disinteresse generale, nei loro sporchi affari africani. Hanno imposto il signoraggio, cioè un regime usuraio a loro favorevole, con tanto di moneta obbligata, a diverse loro ex colonie dell’Africa occidentale, e vi mantengono una forte presenza politico-militare. Ultimamente hanno avuto la sfrontatezza di chiedere al governo italiano (di Gentiloni, altra nullità messa lì dai poteri forti per sbarrare la strada ai sovranisti) di fornire ascari per tali guerricciole dimenticate, ad esclusivo vantaggio della Francia, per il controllo di materie prime e mercati; per fortuna la nostra missione in Niger si è arenata prima di partire e probabilmente non se ne farà nulla (ci basta avere ancora un grosso contingente impantanato in Afghanistan da quindici anni, con 52 morti sul campo e una spesa di centinaia di milioni di euro). Ma il fatto la dice lunga sulla spregiudicatezza, l’arroganza e l’avventurismo dei cugini d’Oltralpe.

Se c’è uno Stato che rappresenta un pericolo per gli equilibri europei e per la pace mondiale, quello è la Francia. Troppo debole per fare la grande potenza, troppo ambizioso per ritagliarsi un ruolo di secondo piano, perciò sempre pronto a pescare nel torbido. Dove non arriva la forza, pensano da quelle parti, arriva l’intrigo. Liberista se la cosa è a suo vantaggio, ad esempio con l’acquisto di Telecom da parte di capitale francese, ma protezionista se non gli fa comodo, come quando l’Italia aveva rilevato dalla Corea i cantieri navali di Saint-Nazaire (eppure la Telecom era ben più "strategica", per l’Italia, di quanto lo fosse Saint-Nazaire per la Francia). Possiamo aspettarci di tutto: la Libia avrebbe dovuto insegnarcelo, la Siria lo ha confermato. E quanto zampino dei servizi segreti francesi c’è dietro l’ondata di attentati islamisti degli ultimi anni? Possiamo aspettarci che, dopo la nascita del governo italiano Lega-5 Stelle, e soprattutto dopo la svolta della nostra politica estera in fatto di "migranti", tali attentati colpiscano anche il nostro Paese, per dare un avvertimento e insegnare a Roma più miti consigli? Purtroppo sì: dobbiamo aspettarcelo; quei signori son capaci di tutto…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Christian Lue su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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