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Un segnale di resa preciso e inconfondibile

Se qualcuno ci chiedesse di indicare, così, di primo acchito, un segnale da cui riconoscere che la "svolta" del Concilio Vaticano II, benché presentata in termini apologetici e trionfalistici dalla narrazione cattolica mainstream, è stata, a tutti gli effetti, una rottura, un punto (forse) di non ritorno, e uno snaturamento della vera Chiesa cattolica, così come essa si era configurata, attraverso il Magistero, la pastorale e la sacra liturgia, per millenovecento anni, risponderemmo che i segnali immediatamente evidenti e quasi tangibili, sono parecchi; ma, se proprio dovessimo indicarne uno, diremmo: lo smantellamento storico e dottrinale di qualsiasi ostacolo, anche al prezzo della verità, nelle "buone relazioni" con i cosiddetti fratelli maggiori (come li chiamava Giovanni Paolo II), gli ebrei. E siccome il cristianesimo non è una dottrina fra le tante, e tanto meno una dottrina politica, già da questa preoccupazione di ristabilire cordiali relazioni traspare un tradimento nei confronti di se stesso: perché qui non si fa questione di buone o cattive relazioni, qui è in ballo la verità, ossia quella che per i cristiani è la verità: l’unicità dell’Incarnazione di Cristo e della sua Passione, Morte e Resurrezione per la redenzione degli uomini. Transigere su questo punto, ammettere che gli ebrei non hanno alcun bisogno di convertirsi, perché l’Antica Alleanza di Dio con loro (quella del Vecchio Testamento) è sempre valida, equivale a svuotare di significato l’Incarnazione, la Passione e la Resurrezione di Cristo, e rendere il Vangelo un optional, rispetto al quale si può anche preferire l’ebraismo. Un cristiano non potrà mai e poi mai assumere una tale posizione; non potrà mai pensare che convertirsi al Vangelo di Gesù Cristo, o farsi circoncidere ed entrare a far parte del giudaismo, siano la stessa cosa, o siano due strade per giungere alla stessa meta. Meno ancora una simile idea potrebbe essere sostenuta da un teologo cattolico, o da un sacerdote, o da un vescovo, o anche dal papa in persona; sarebbe un tradimento inqualificabile verso il Vangelo, che è, sì, la religione dell’amore, del perdono e della riconciliazione, ma non al prezzo della verità; non al puto di acconsentire al relativismo e alla confusione dottrinale; non fino al punto di mettere il cristianesimo sullo stesso piano di verità e di efficacia salvifica di un’altra religione. E invece, questo è quanto ha incominciato ad accadere a partire dal Concilio Vaticano II e, in particolare, a partire da quando è stata approvata la dichiarazione Nostra aetate, il 28 ottobre 1965: un documento che colpisce al cuore la dottrina cattolica e che, pertanto, non può essere considerato, in alcun modo, e pur con ogni sforzo di buona volontà, una espressione dell’autentico e perenne Magistero della Chiesa. Come è noto, infatti, il Magistero non può aggiungere, né togliere, né modificare alcunché di quanto si trova nel Deposito della fede; e, a maggior ragione, non può contraddire, impugnare o anche solo discordare da ciò che il Magistero precedente ha sostenuto in maniera univoca e costante.

Ora, a questa gravissima deviazione dottrinale, che nella Nostra aetate è solo adombrata, ma ha trovato poi ulteriore sviluppo e sempre più esplicita affermazione nella pastorale e nello stesso magistero dei pontefici successivi, si aggiunge l’espunzione capillare, sistematica, implacabile, di tutto ciò che, sul piano storico e liturgico, avrebbe potuto "dispiacere" a codesti supposti fratelli maggiori, e così appare evidente che la "svolta" del Concilio nei confronti dell’ebraismo è nata da un preciso disegno politico, cui certo non fu estranea la massoneria ebraica, il B’nai B’rith, così come non vi furono estranei i ricatti pretestuosi e mirati, che fecero leva sullo specioso argomento dei cosiddetti "silenzi" di Pio XII riguardo al genocidio degli ebrei da parte del regime hitleriano, ricatto che viene ripreso e scatenato ad arte ogni qualvolta le potenti lobby ebraiche vogliono mettere la Chiesa sotto scacco e obbligarla ad assumere posizioni concilianti su tutto ciò che concerne non solo il giudaismo, ma altresì il sionismo e ogni altro aspetto politico e finanziario riguardante gli interessi di Israele e delle comunità ebraiche esistenti nel mondo (cfr. al riguardo i nostri articoli Come il B’nai B’rith ha infiltrato e condizionato il Concilio Vaticano II, pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 18/01/2018; Il mito del "silenzio" di Pio XII fu creato per fare pressioni sulla Chiesa cattolica, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 01/02/2017 e ripubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 26/01/2018; e Shoah, Concilio, Williamson: scacco in tre mosse, pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 25/12/2017). Sul piano pastorale, si trattava di minimizzare il ruolo svolto dagli ebrei nel processo e nella morte del nostro Signore Gesù Cristo: affare in verità non semplice, ma insomma nemmeno impossibile, posto che si poteva sempre scaricare ogni colpa sui romani, facendo notare – il che è solo una mezza verità – che unicamente al procuratore romano competeva l’emissione di sentenze capitali (cfr. l’articolo: Ma quante contorsioni per attenuare il ruolo dei fratelli maggiori nella morte di Gesù, pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 27/01/2018, e, nello stesso tempo, accentuando oltremisura l’ebraicità di Gesù Cristo, al punto da ridurre a poca cosa la portata della sua rottura con la tradizione giudaica e la nascita di una religione di salvezza nuova e universale, ciò che il giudaismo certamente non era, né voleva (o vuole) essere (cfr. l’articolo Gesù ebreo? No grazie, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 20/09/2010 e ripubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 29/01/2018). Ma anche questo non era ancora sufficiente; ci voleva qualcos’altro, qualcosa che esprimesse una benevolenza ancor più esplicita: bisognava cancellare, ripudiare, far sparire tutto ciò che, nella tradizione cattolica, poteva anche solo vagamente dare l’impressione di un atteggiamento meno che favorevole, in tutto e per tutto, all’ebraismo. Si spiega così sia il blocco, a tempo interminato, della proclamazione a santo di padre Léon Dehon, che avrebbe dovuto avvenire il 24/04/2005, ma che venne sospesa, prima — ufficialmente — per la morte di Giovanni Paolo II, poi per i durissimi attacchi e le accuse, se non di antisemitismo, certo di scarsa simpatia verso gli ebrei, che vennero mosse contro Benedetto XVI, ma soprattutto per una serie di documenti emersi nel corso del processo di beatificazione di padre Dehon, dai quali risultava come egli avesse espresso giudizi assai severi, non nei confronti degli ebrei in quanto tali, o della loro religione, ma del ruolo sociale svolto da alcuni di loro e specialmente dagli usurai e dai banchieri, il che fu più che sufficiente a suscitare le ire e le rimostranze degli ambienti ebrei-americani e da congelare, forse per sempre, la beatificazione di Dehon. Esempio unico al mondo di una religione che si autocensura nella maniera più umiliante, e rinuncia ad esprimere la propria posizione all’interno del proprio ambito dottrinale e disciplinare, per far piacere agli esponenti di un’atra religione, quasi che i veri padroni della prima fossero, di fatto, i secondi.

Tuttavia, nemmeno questo era ancora sufficiente. Bisognava fare qualcosa di più significativo, di più tangibile e definitivo; qualcosa che coinvolgesse anche le masse e la liturgia, perché, in fin dei conti, le questioni strettamente storiche e teologiche non riguardano che una minoranza relativamente piccola di persone colte. Ora, c’era una cosa che avrebbe potuto essere fatta, su questo piano: eliminare, un caso alla volta, il culto popolare di quei santi che, secondo la tradizione cattolica, avevano subito il martirio da parte degli ebrei, nella cornice storica delle cosiddette "accuse del sangue", vale a dire gli omicidi rituali compiuti ai danni di bambini cristiani in occasione della Pasqua ebraica. In certi casi si trattava, effettivamente, di culti che poggiavano su basi storiche assai fragili; in altri, invece, i documenti esistenti erano sufficienti a giustificarli, ma anche per essi era giunto il tempo di essere abrogati e gettati nel cestino della carta straccia, perché la loro stessa esistenza faceva ombra al B’nai B’rith e ostacolava in maniera insormontabile il ristabilimento di relazioni "amichevoli" fra Chiesa cattolica e giudaismo: dove le "relazioni amichevoli" vanno intese nel senso che una delle due parti, la cattolica, deve assumersi una serie di colpe e di responsabilità storiche, e chiederne perdono, l’altra, invece, non ha nulla di cui scusarsi (e tanto meno della crocifissione di Gesù Cristo, o la maledizione contro di Lui e contro i suoi seguaci, affidata ai versi del Talmud e perennemente rinnovata da tutti gli ebrei che pregano quel libro), ma solo da far valere il proprio vittimismo per alzare la posta e ottenere concessioni sempre più consistenti da parte della prima.

Uno dei casi più eclatanti era quello della città di Trento, ove nel 1475 ebbe luogo un celebre processo contro alcuni ebrei per l’assassinio rituale di un bambino cristiano, divenuto poi noto come San Simonino; ebbene qualcuno si accorse che i documenti storici non erano sufficienti a provare le accuse di colpevolezza, non solo, ma nemmeno a provare l’esistenza storica di San Simonino, per cui il suo culto venne abolito e venne chiesto perdono agli ebrei per quanto era successo cinque secoli prima, (cfr. l’articolo: Dove vogliono arrivare i cattolici con don Iginio Rogger?, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 27/05/2015, e ripubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 19/01/2018), il tutto in barba al fatto che i cattolici di quella città erano molto affezionati a quel santo bambino e che ogni anno si svolgeva una solenne processione in suo onore per le strade del centro. Le reliquie del santo — che, dopotutto, esistevano — vennero addirittura occultate, il 28 ottobre 1965, vale a dire con perfetto tempismo rispetto alla pubblicazione della Nostra aetate e alla "svolta" sul dialogo con le altre religioni, prima fra tutte il giudaismo, decisa dai padri conciliari, mettendosi sotto i tacchi delle scarpe secoli e secoli di tradizione e di fede.

Tutto questo ebbe luogo per decisione dell’arcivescovo di Trento, Alessandro Maria Gottardi. Un bell’esempio di chiesa postconciliare, dove sono i singoli vescovi, e non il pontefice, assistito dai cardinali, a decidere se un santo non sia, per caso, abusivo, se il suo culto non sia frutto di mera superstizione e se la processione in suo onore non meriti di scomparire, in omaggio alla razionalità, alla civiltà e alla pace, il rispetto e il dialogo fra le religioni. È pur vero che a Trento è sorto, fra i cattolici fedeli alla tradizione, un comitato avente lo scopo di ripristinare il culto soppresso e di restituire alla città le sue reliquie, ma chi se ne frega? Si tratterà, come minimo, dei soliti integralisti preconciliari, molto probabilmente pure antisemiti. Intanto, la maledizione collettiva, equivalente della scomunica (herem), che gli ebrei avevano scagliato contro la città di Trento sin dai fatto del 1475, è stata tolta, come dire che il giudaismo sentitamente ringrazia. E per completare il quadro, anche sotto il profilo psicologico e culturale, aggiungiamo solo che il principale sostenitore della non storicità di San Simonino, nonché il principale ispiratore dell’abolizione del suo culto, è stato un tipico sacerdote post-conciliare, don Iginio Rogger, al quale si deve anche l’aver messo in dubbio il più antico e più amato santo della diocesi trentina, san Vigilio (il che sarebbe un po’ come se un prete di Roma mettesse in dubbio il soggiorno di san Pietro nell’Urbe e, di conseguenza, anche la storicità del suo pontificato); il cui post-concliarismo ben si esprime nell’affermazione che, a lui, la santa Messa tridentina "faceva orrore", perché si svolgeva in latino, secondo la vecchia liturgia, con tanto di celebrante che officiava rivolto verso il Santissimo e non verso l’assemblea dei fedeli.

Una vicenda simile a quella di san Simonino riguarda un altro santo bambino, il piccolo martire spagnolo Domenico del Val di Saragozza (1243-1250, detto Dominguito, morto a soli sette anni, patrono dei chierichetti e degli scolari, la cui ricorrenza cadeva il 31 agosto; anche lui è stato espunto dal calendario ufficiale dei santi, benché nella cattedrale della città di Saragozza esista tuttora una cappella a lui dedicata.

Così lo ricorda Patrizia Fontana Roca sul sito Santi e Beati:

Di questa figura abbiamo solo la certezza del culto, leggendario tutto il resto.

Nato a Saragozza nel 1243, da una famiglia nobile – il padre, che era devoto di San Domenico, era il Notaio della Cattedrale – il bimbo cresceva in grazia e bontà e venne presto ammesso alla schiera dei chierichetti della Cattedrale. Nel Giovedì Santo del 1250 nella chiesa si celebrava la Passione di Cristo e Domenichino, finite le funzioni, si avviò per tornare a casa, ma in quel periodo lotte fratricide di religione dividevano i cristiani e i loro fratelli maggiori, gli ebrei. Un gruppo di israeliti lo rapirono e lo portarono sulle sponde dell’Ebro.

Spogliato e vituperato, egli invocava il nome di Gesù e come Gesù egli venne crocifisso su un muro e gli venne inferta anche una ferita al costato. Il piccolo martire morì lentamente e i suoi assassini, quando si accorsero che era ormai morto, lo strapparono dal muro e ne gettarono il corpo nel vicino fiume.

Intanto i genitori lo cercavano disperati ma lo trovarono solo quando un pescatore, abbagliato da una luce che splendeva sulle acque, avvicinatosi con la barca, trovò il piccolo corpo del martire.
Domenichino venne ben presto onorato in tutta la Spagna, diventando patrono degli scolari e dei chierichetti.
In altri tempi nel giorno della sua festa, i fanciulli potevano adornare la Cappella in cui era sepolto e offrire ai canonici, sopra un piatto d’argento, dei fiori, simbolo della purezza del piccolo martire; poi presentavano le sue reliquie alla venerazione e al bacio dei devoti. L’urna passava per la città portata a spalla dai chierichetti e l’arcivescovo di Saragozza accoglieva le reliquie e dopo forniva ai fanciulli un rinfresco e regalava loro 50 ducati per le spese sostenute per la festa.

Non molti anni dopo il martirio, una sera, in un angolo della Cappella del piccolo Santo, un uomo era seduto cupo, solo e piangeva ininterrottamente. Quell’uomo era uno degli ebrei che avevano ucciso il piccolo, il più feroce. Il ricordo di quella sera non lo aveva mai abbandonato e rivedeva chiaramente tutta la scena. Chiedeva grazia a quel piccolo martire con tutto il suo cuore e San Domenichino gli diede la forza di confessare apertamente la sua colpa, di convertirsi al Cristianesimo, ottenendo il perdono del suo atto inumano.

Una voce, come si vede, molto cauta; e che l’abbia ispirata lo spirito di "dialogo" conciliare, si evince, fra l’atro, dalla definizione dei giudei come "fratelli maggiori" dei cristiani, definizione che nessun cattolico si sarebbe mai sognato di adoperare prima del 1965, per la sua palese assurdità storica e teologica. Ancora e sempre, la preoccupazione del politically correct; la preoccupazione di allontanare da sé la "macchia" dell’antigiudaismo, che potrebbe facilmente venire interpretato come antisemitismo (benché la cortesia non sia affatto reciproca e nessun ebreo si sia mai sognato di espungere dal Talmud le maledizioni rituali nei confronti dei cristiani, che rimangono al loro posto, come per l’addietro); ancora e sempre, la preoccupazione di stabilire "buone relazioni" con i fratelli maggiori, all’insegna della realpolitik, e tanto peggio per quei poveri sciocchi che ancora fanno questione di verità, di dottrina, di teologia.

Se ci si vuol fare un’idea di come era recepito il culto di san Domenico del Val prima del Concilio, non c’è che da andare a sfogliare un libro stampato subito prima, anzi, addirittura durante il Concilio, ma non un libro cattolico qualsiasi, bensì un manuale di carattere ufficiale e destinato alla catechesi, per esempio la Guida catechistica per la terza classe, edita dalle Paoline e dal Centro catechistico di Roma, IV edizione, 1963 (ma l’imprimatur del vescovo di Faenza, Biagio Budelacci, è del 1953, e il visto, per la Curia generale della Pia Società san Paolo, di don Giacomo Alberione, è del 1954; dove, a pag. 146, possiamo leggere, fra gli esempi edificanti, non senza qualche ingenuità:

Nacque a Saragozza, Spagna, il 1243. I genitori, per devozione a san Domenico, gliene imposero il nome e lo chiamarono Domenichino. Il bambino cresceva buono, pio, amante della chiesa e delle funzioni sacre. Appena fu in grado di servire all’altare, fu ammesso fra i chierichetti della cattedrale. Si restava ammirati nel vederlo in sottanella rossa e cotta bianca. Tutti lo conoscevano e gli volevano bene.

Era il giovedì santo del 1250. Domenichino aveva servito le funzioni e del mattino e della sera. Terminato l’Ufficio delle tenebre, si era fermato alquanto davanti al santo sepolcro, quindi si avviava a casa che era vicina alla Cattedrale.

La Spagna era infestata allora da ebrei pieni di odio verso i cristiani che molestavano in mille maniere. Un gruppo di essi con a capo Moyse Albain, si era o appostati presso la Cattedrale. Non appena videro Domenichino, gli si gettarono sopra, lo avvolsero nei loro mantelli, perché non gridasse,e, protetti dall’oscurità, lo trascinarono fuori città, lungo l’Ebro. Qui lo spogliarono e rinnovarono sul suo gracile corpo la passione di Gesù. Gli inchiodarono le mani e i piedi a un muricciolo, lo insultarono, gli sputarono in faccia, lo schiaffeggiarono. Il caro piccino, crocifisso come il Salvatore, ripeteva continuamente: Gesù! Gesù! Moyse Albayn non poteva sentire questo none santissimo e, furente di rabbia, gli trapassò il petto con un pugnale. Il piccolo martire, prima di morire ripeté ancora: Gesù! Gesù! Per timore di essere scoperti, i tiranni staccarono Domenichino dal muro e lo gettarono nel fiume.

Alcune sere dopo, un gruppo di pescatori, tirando le loro reti, videro sulle acque una gran luce. Vi accorsero con le barche e trovarono il corpicino del martire con i fori nelle mani, nei piedi e nel costato, come Gesù. Con venerazione lo portarono in città e lo consegnarono ai Canonici della Cattedrale che lo depositarono sull’altare come un piccolo santo. Accorse una fiumana di popolo; accorsero primi i genitori che piangevano di dolore e di gioia nel vedere la luce che si sprigionava dal suo corpo martoriato.

Da allora Domenichino fu pregato come un santo e divenne il protettore dei chierichetti.

Ebbene, che dire? Una frase come questa: La Spagna era infestata allora da ebrei pieni di odio verso i cristiani che molestavano in mille maniere, dopo il 1965, non poteva più essere pronunciata, tanto meno insegnata nel clima del post Concilio. Poteva essere andata bene fino al 1964, ma dal 1965 — contrordine, compagni!; ciò vi ricorda qualcosa? – doveva essere per forza eliminata: ne andava di mezzo la credibilità della nuova chiesa"dialogante" e le buone relazioni con i "fratelli maggiori"; e tanto peggio per la verità storica, se per caso la verità era proprio quella e non altra, e cioè che gli ebrei odiavano, come avevano sempre odiato, i cristiani, nella Spagna del XIII secolo come nel resto del mondo, cominciando dalla Palestina dei tempi del nostro Signore Gesù Cristo e dei primi anni di vita della Chiesa da Lui fondata.

Eppure, a ben riflettere, forse la vera ragione della soppressione del culto di san Domenico del Val non risiede tanto nella "accusa del sangue" contro gli ebrei, quanto nell’epilogo edificante della drammatica vicenda, ossia la conversione di uno degli assassini. Un ebreo che si converte al cattolicesimo è sempre un argomento tabù, che mette terribilmente a disagio, più che gli ebrei, i cattolici progressisti e fautori di un "dialogo" inter-religioso che si risolve, né più né meno, nel relativismo, nella resa totale e nella solenne auto-castrazione…

Fonte dell'immagine in evidenza: https://www.lavoce.it/

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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