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Fare il punto, per riprendere la rotta

Fare il punto, nel linguaggio marinaresco, ha un significato ben preciso: significa determinare, sulla carta nautica, la posizione esatta della propria nave in quel dato moneto, in modo da verificare con certezza se stia seguendo la giusta rotta o se ne sia allontanata per cause accidentali. Oggi, con il radar, il radiogoniometro e ogni sorta di trovato tecnologico, la cosa è piuttosto semplice; non lo era affatto al tempo della navigazione a vela, di notte, o col cielo coperto, e specialmente con la nebbia, perché, in assenza del sole o delle stelle, era difficilissimo, per non dire impossibile, stabilire con sufficiente precisione dove ci si trovasse a un dato momento, tenendo anche conto delle correnti marine che tendevano a portare fuori rotta anche la nave che si atteneva alle regole della navigazione nel modo più scrupoloso. Se, poi, l’ago della bussola veniva manipolato, o subiva un incidente, o veniva comunque smagnetizzato, o se andava perduto il sestante, ecco l’equipaggio, dal più giovane mozzo fino al capitano più esperto e più prudente, con anni e anni di navigazione sulle spalle, veniva a trovarsi in una situazione molto simile a quella di un uomo che venga condotto, con gli occhi bendati, in un luogo sconosciuto, e poi abbandonato a se stesso, a brancolare tentoni, senza potersi levare la benda e senza avere la minima idea di dove si trovi e quali ostacoli possano trovarsi davanti ai suoi passi. Ebbene, la nostra situazione di uomini del terzo millennio somiglia terribilmente a quella di un tale, ipotetico equipaggio. Anche noi stiamo andando alla deriva, a bordo di una nave della quale abbiamo perso il controllo; anche noi siamo come ciechi in un ambiente sconosciuto, e andiamo a casaccio, tastando qua e là, e rischiando continuamente di fare la fine del Titanic: urtare contro un grosso ostacolo e andare a picco. Tale è la cosiddetta civiltà moderna, alla quale ci siamo affidati, convinti della sua inaffondabilità: un mito di cartapesta, che a nulla ci giova, ora che possiamo misurare tutta l’angoscia, il pericolo e la disperazione di essere trascinati alla deriva, impotenti e prigionieri di circostanze che sfuggono al nostro volere, su mari sconosciuti, con la prospettiva sempre più probabile di andare incontro a un naufragio disastroso, dal quale nessuno, forse, riuscirà a salvarsi.

E dunque, proviamo a fare il punto: dobbiamo cercar di capire, ad ogni costo, dove ci troviamo; ne va della nostra vita e di ogni eventuale speranza di salvezza. Invano ci sporgiamo dalle murate per scandagliare, con lo sguardo, la profonda oscurità che ci avvolge, e che è scesa su di noi come un sudario: è impossibile trovare qualche indizio che possa rivelarci la nostra vera posizione. Siamo in un puto sperduto nell’immensità del mare. Tutto quel che credevamo di sapere, tutto ciò che i nostri genitori e i nostri nonni ci hanno insegnato, con le parole e soprattutto con l’esempio, sembra essere scivolato via, nella nebbia, come se un vortice misterioso l’avesse risucchiato chissà dove, lasciandoci nudi e abbandonati alle nostre sole risorse individuali. Sentiamo di non avere più alle spalle una tradizione, una cultura, una civiltà; constatiamo che i puntelli della morale sono crollati, e che una gran quantità di persone se ne fanno apertamente beffa; cerchiamo le risposte nel nostro bagaglio concettuale, nel nostro codice morale, nell’insegnamento che abbiamo ricevuto, dai genitori, dalle maestre, dai sacerdoti, e non riusciamo a trovare nulla che faccia al caso nostro. Ci sentiamo soli, avvolti da una solitudine innaturale, che ha qualcosa di surreale, come la scomparsa subitanea del sole nel corso di una eclissi, a mezzogiorno di una bella giornata d’estate. Un’ombra è calata sulle cose, uno strano silenzio si è disteso sul cinguettio degli uccelli, sullo stormir delle foglie nei giardini: pare che la natura trattenga il fiato. E così noi, il nostro mondo, il nostro orizzonte: pare che sia subentrato un fenomeno inspiegabile, che ha messo fuori uso la bussola e gli altri strumenti di bordo. Quel che fino a ieri era certo ed evidente, ora non lo è più; al contrario, ora si è capovolto, ora è diventato sbagliato ciò che fino a ieri era giusto, e giusto quel che era sbagliato. Quel che era universalmente considerato brutto, ora viene esaltato e celebrato come se fosse bello; e ciò che è bello, viene disprezzato e denigrato come se fosse brutto. Ciò che pareva giusto, ora è divenuto ingiusto, e viceversa; e così pure su ciò che era vero, su ciò che tutti accettavano come vero, ora si direbbe che tutti quanti abbiamo cambiato opinione in maniera radicale, e asseriscono essere vero ciò che, fino a ieri, era falso, palesemente e innegabilmente falso.

La cosa più stupefacente, più sconcertante, è che a farsi promotori di questa trasformazione non solo tanto i giovani, quanto le persone di mezza età, e anche parecchi anziani: cioè proprio gli stessi i quali, fino a ieri, parlavano e agivano in maniera diametralmente opposta a quel che dicono e fanno ora. Si direbbe che sia avvenuta una mutazione antropologica, non solo culturale. È cambiato il paradigma, certo, e anche in maniera alquanto brusca; ma non è cambiato solo quello: è cambiato tutto l’insieme dei modi di parlare, di ragionare, di pensare, e perfino di sentire. In qualunque ambito ci si muova, dalla famiglia alla scuola, dall’azienda alla politica, dall’informazione allo sport, sempre si constata lo stesso fenomeno: il legame col passato, anche con il passato più recente, si è spezzato; nessuno guarda più indietro, nessuno si rifà alla tradizione: tutti sono proiettati in avanti, tutti si affannano a precedere gli altri, anche a gomitate, sulla via del cambiamento. Ma verso che cosa stiamo andando tutti quanti, pare che nessuno lo sappia. Le risposte di un tempo, anche le risposte della cultura positivista – la scienza, il progresso, il benessere — vengono ancora balbettate, qua e là, ma non convincono più nessuno, nemmeno quelli che le pronunciano. La verità è che la frenesia del correre avanti ha contagiato tutti, ma in questa folla di corridori non c’è praticamente nessuno che si chieda dove stiamo andando, e che cosa ci attenda nel futuro immediato, per non parlare del futuro di più ampio respiro. Intanto, però, si balla e si cerca di stare allegri: come a bordo del Titanic, la notte fatale in cui la sua rotta incrociò quella del grande iceberg. Si è sparsa la voce che esiste un diritto alla felicità, riconosciuto e garantito per legge, e nessuno vuol restare indietro; tutti quanti lo vogliono afferrare, lo vogliono sfruttare, ne vogliono godere i benefici. Tutti si affrettano a metter le mani su quel che sembra a portata, ad arraffare quante più cose possibile: come la folla di quel teatro di Mosca che si getta con avidità sui doni illusori del mago Woland (ne Il Maestro e Margherita di Bulgakov) e poi si ritrova nuda, ridicola e coperta di vergogna, e fugge coprendosi alla bell’e meglio. Così siamo noi: arraffiamo, arraffiamo a più non posso, e ci ritroviamo con un pugno di mosche in mano: nudi, consegnati alla nostra miseria e alla nostra meschinità, grotteschi e penosi al tempo stesso.

La situazione è ancor più drammatica per i credenti. Ad essi è capitato il destino peggiore: erano i soli che poggiassero i piedi sul terreno solido, cioè su una radicata tradizione, anzi, sulla Tradizione divina; avevano ricevuto una sana educazione e una giusta prospettiva esistenziale; erano i soli che sapessero bene come la vita terrena è solo un breve sogno e che il nostro destino non è di vivere e sparire in questo mondo, ma di andare incontro all’eternità. Potevano anche contare su un clero che avrebbe dovuto prendersi cura di loro, delle loro necessità spirituali, e sostenerli nel cammino, e ricordar sempre loro la vera meta del viaggio; un clero nel quale trovare ristoro, conforto, sicurezza, ogni qual volta i passi del viaggio terreno si fanno particolarmente difficili. Ma proprio quel clero, a un certo punto, ha tradito. Ha perso la fede, ma non ha avuto il coraggio di trarne le conseguenze. Forse era troppo comodo continuare la commedia, e proseguire come se nulla fosse stato; solo, si trattava di cambiare, un poco alla volta, le parole d’ordine. Non potevano dire ai fedeli: Cari fratelli, vi abbiamo preso in giro per duemila anni, era tutta una favola; sappiate che la vita vera è questa, la vita della carne, e che, finita questa, non ce n’è alcun’altra. Non hanno osato farlo, ma si sono industriati, lentamente, quasi impercettibilmente, a modificare la liturgia, la pastorale, e da ultimo anche la dottrina: un po’ alla volta hanno smesso di parlare di Dio e dell’anima, della grazia e del peccato, dell’inferno e del paradiso, e hanno cominciato a parlare, sempre più spesso, e alla fine quasi esclusivamente, di cose terrene, di giustizia, di diritti, di solidarietà, d’inclusione, di accoglienza, del dovere di lasciarsi invadere da milioni di africani islamici. Il tutto con grandi sorrisi e con grandissime affettazioni di umiltà. L’ultimo esempio di questa ipocrisia è stato offerto, l’altro giorno, dal cardinale Ravasi, il quale, inorridito perché il governo italiano, per la prima volta dopo decenni, ha osato rifiutare l’approdo a una nave carica di finti profughi, con più giornalisti che migranti a bordo, si è affrettato a twittare — perché i cardinalii, ai tempi della rete, non predicano più, twittano: Ero straniero, e non mi avete accolto. Intanto, silenzio di tomba su divorzio, aborto, eutanasia, droga, unioni di fatto e cosiddetti matrimoni omosessuali. Oppure, peggio del silenzio: dialogo, apertura, proposte di inclusione, veglie di preghiera… contro l’omofobia. E inviti calorosi alla signora Bonino, e lodi sperticate al defunto Pannella. E affreschi blasfemi sui muri delle chiese, voluti e finanziati da vescovi di questa nuova ondata: gli stessi che, fino a qualche anno fa, parlavano in tutt’altro modo. Ora, però, hanno scoperto che la misericordia di Gesù è talmente grande, da accogliere tutti: perfino i peccatori impenitenti: Questo non va molto d’accordo col Vangelo, ma tant’è; il neoclero non bada a tali sottigliezze. Lo dice lui, e tanto basta; se proprio c’è bisogno di invocare una garanzia superiore, basta ripetere: Lo dice anche Francesco, e così sia. Non si dice più: lo dice Gesù Cristo; no: ma si dice: Lo ha detto anche Francesco, non occorre dire "papa Francesco", Francesco basta e avanza, perché Francesco è democratico, è uno di noi, si lascia anche soffiare la sedia dai bambini, si lascia scattare i selfie con il naso da pagliaccio, ride, ride sempre, è il campione dell’allegria e del buon umore. Anche questa è una rivoluzione: i cattolici hanno scoperto di essersi afflitti per millenovecento anni senza costrutto, hanno scoperto che la Croce è un optional, anzi, è pure un po’ iellata, meglio farsi una risata tutte le volte che si può, anche nei conventi di clausura, la parola d’ordine è: stai allegro, ridi e spassatela più che puoi, è questo il cattolicesimo del terzo millennio. Che bellezza. Aggiungeremo un versetto al Vangelo, forse gli evangelisti si erano dimenticato di riportarlo (non c’erano mica i registratori, allora, osserva con sagacia padre Sosa Abascal): ero triste e mi avete fatto ridere; avevo il morale a terra e mi avete raccontato tante barzellette; pensavo alla Croce, volevo imitare il nostro Signore, che ha tanto sofferto per amor nostro, e voi mi avete insegnato che non è questo che Dio vuole, al contrario, vuole che ci diamo al buon tempo, che divorziamo se siamo stanchi della nostra moglie o del nostro marito, che ci mettiamo con una nuova compagna o un nuovo compagno, e che poi andiamo tranquillamente a far la santa Comunione, se la nostra coscienza ci assolve e ci dice che è tutto a posto, che abbiamo agito nel modo più onesto e più sincero possibile (vedi il capitolo ottavo di Amoris laetitia, e, in particolare, il § 303).

Dunque: il punto è questo. Non sappiamo dove ci troviamo, né dove siamo diretti; sappiamo solo di non poter contare su quelli che avrebbero dovuto assisterci: le famiglie, i genitori, i sacerdoti, le maestre, i professori. Non possiamo credere a quel che scrivono i giornali, né a quel che dicono le reti televisive, perché la narrazione che ci fanno quotidianamente non ha nulla a che fare con la realtà vera. Non possiamo aver fiducia dei magistrati, tutti impegnati e proteggere i delinquenti e a inguaiare i cittadini perbene; né negli economisti, tutti presi dalla febbre di favorire sempre più le banche, e svuotare sempre più le tasche ai cittadini; né nei politici, che non contano più nulla, sono solo attendenti del potere finanziario, e pensano solo a se stessi (pur con qualche lodevole eccezione). Meno di tutti possiamo fare affidamento sui cosiddetti intellettuali, dai quali è partita la lebbra della dissoluzione. Perché la nostra crisi attuale, prima di essere economica, o demografica, è una crisi morale e spirituale: è la crisi di una civiltà che sta morendo, perché era nata in odio a Dio e, quindi (anche se non sembrava, o non fin dall’inizio), anche in odio all’uomo. L’uomo che rifiuta Dio non si vuol bene, perché solo in Lui egli trova la sua meta e la sua pace. Una civiltà, come quella moderna, che si fonda su presupposti laicisti e irreligiosi, è una anti-civiltà, inumana, distruttiva e autodistruttiva. Le culle vuote, gli aborti, il dilagare della sodomia sempre più ostentata e le leggi sull’eutanasia, estese anche ai bambini, hanno tutte la stessa radice: l’odio di sé dell’uomo moderno. Anche la sostituzione di popolazione in atto, eufemisticamente chiamata migrazioni, o accoglienza, in realtà un suicidio biologico collettivo, nasce dal disamore di sé. E se le cose stanno così, ciò significa che dobbiamo ripartire da zero. È tutto da ricostruire; e, per poterlo fare, bisogna abbattere gli ultimi brandelli di muro, le ultime rovine cadenti, per evitare che ci crollino sul capo. Sarebbe una vera ironia morire sotto il peso di cose morte, che non hanno più ragione di esserci. Dobbiamo bonificare il paesaggio, rinnovare l’aria ammorbata: non ci servono più i cattivi maestri del nulla, i nichilisti travestiti da buonisti, i finti misericordiosi che odiano se stessi e le loro radici. Al contrario: abbiamo bisogno di tornare a casa, ritrovare la nostra identità. Dobbiamo rimboccarci le maniche. Da che parte andare? Da qualsiasi parte, purché torniamo a prenderci la responsabilità di noi stessi. Abbiamo dei doveri da rispettare: se non per noi, facciamolo almeno per i nostri figli…

Fonte dell'immagine in evidenza: Francescoch - iStock

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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