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I Promessi Sposi: un romanzo cattolico?

Tutti sanno, dicono e ripetono che il romanzo di Alessandro Manzoni, I promessi sposi, è un romanzo cristiano, anzi cattolico, nel quale egli vuole esprimere la sua visone cristiana e cattolica del mondo, e dare una risposta cristiana e cattolica al problema fondamentale, che lo ha sempre angosciato e tormentato, perfino ossessionato, fin dall’inizio del suo percorso di uomo e di scrittore: il problema, anzi, il mistero del male. E siccome lo dicono tutti, nessuno ne dubita, neanche per un solo istante. Anzi, semmai la discussione si è spostata, e quasi fin dalla pubblicazione del romanzo, sul peso negativo che la sua cattolicità porterebbe con sé, al punto da risultare incompatibile con la "vera" opera d’arte, che non può essere cattolica, o giudaica, o islamica, o reazionaria, o fascista, o monarchica, insomma non può avere una matrice o una prospettiva esplicitamente ideologiche, ma deve essere universale, cioè porsi al di sopra, o al di là, di tutte le ideologie. Strano, perché nessuno dei critici che hanno mosso quest’accusa, e sollevato tale questione, nei confronti di Manzoni, ha mai considerato un limite, un difetto o una forma d’incompatibilità con la "vera" arte, il fatto che un romanzo sia ispirato esplicitamente al progressismo, al comunismo, all’ateismo, eccetera: si vadano a vedere le loro recensioni di Gide, di Sartre, di Erenburg. Evidentemente, se l’ideologia è di sinistra, allora va tutto bene, mentre il problema sorge se non lo è; e, in particolare, se si tratta di una fede religiosa, specie quella cristiana (e infatti, si veda come l’opera di Pavese è stata passata ai raggi X dai compagni, che non potevano perdonargli la presenza del mito, abominevole residuo d’una mentalità primitiva, "spiritualista" e, in ultima analisi, incompatibile con le magnifiche sorti e progressive del marxismo e del realismo socialista).

L’accusa di avere veicolato una concezione troppo scopertamente religiosa e cattolica è stata rivolta a Manzoni soprattutto da Croce e dalla sua scuola, o meglio dal suo tribunale, che, per oltre mezzo secolo, ha emesso le sentenze di assoluzione e di condanna a destra e a manca, certo, certissimo, di avere in tasca il solo criterio giusto per distinguere, in un’opera letteraria, ciò che è poesia e ciò che non lo è, a cominciare da un’operetta minore della nostra letteratura, la Commedia di un tal Dante Alighieri, oscuro poeta vissuta a cavallo fra XIII e XIV secolo, il quale aveva il grave difetto di mescolare alla vera poesia una quantità incedibile di ciarpame erudito d’ogni sorta, di allegorie e altre stranezze tipicamente medievali (eh sì, che strana gente, quella vissuta nel Medioevo: pensate un po’, credeva perfino in Dio; non era stata ancora edotta e civilizzata dall’idealismo crociano su come stiano realmente le cose dello storicismo assoluto). Ma, tornando a Manzoni, su che cosa si basava, e si basa, l’accusa, magari inespressa — perché oggi è politicamente corretto pensarla, ma non dirla, specie da parte dei professori di sinistra — di aver scritto un romanzo troppo cattolico? Naturalmente, sul fatto della Provvidenza. Quante volte ce l’hanno detto, fin dai banchi del liceo, se non della scuola media: Eh, sì, un bel romanzo; però, ‘sta benedetta Provvidenza, che poi è la vera protagonista del romanzo, sa un tantino, come dire, di sacrestia, cioè, volevamo dire, sa di catechismo, quindi il romanzo non è laicamente corretto, è un po’ clericale…

Ma è proprio vero che la protagonista del romanzo è la Provvidenza? E, se lo è, siamo proprio sicuri che sia la Provvidenza della dottrina cattolica, della teologia cattolica, in tutto e per tutto, cioè secondo il catechismo? Questa è una di quelle cose che tutti dicono e che, a forza di sentirle dire, tutti accettano come Verità rivelata: nessuno si sogna di verificarla da sé, con la sua intelligenza e il suo spirito critico. Per dire che una personaggio, o una idea, come in questo caso, è protagonista di un’opera letteraria, bisogna mettersi d’accordo sul termine "protagonista". Il protagonista non è, necessariamente, qualcuno o qualcosa che ricorre nel maggior numero di pagine, ma la persona o la cosa attorno a cui ruota l’intera vicenda, che la impronta di sé, che la rende possibile. Allora ci si accorge che non la Provvidenza, ma, semmai, Dio, è il vero protagonista del romanzo manzoniano; e non è una distinzione da poco. La Provvidenza è solo un attributo di Dio, e, per giunta, un attributo sul quale ben pochi sono d’accordo, e perfino i teologi sostengono punti di vista anche fortemente divergenti. Tutti ne parlano come se fosse universalmente chiaro cosa essa sia, ma la verità è che difficilmente si troveranno due cattolici d’accordo nel dare una sua definizione, Figuriamoci, poi, i non cattolici, chiamati a definire un concetto che non appartiene alla loro Weltanschauung e che riesce loro, perciò, del tutto estraneo, se non anche antipatico (specie se si tratta d’intellettuali dell’area marxista o neomarxista, per i quali la religione è comunque l’oppio dei popoli, e la Provvidenza non potrà essere che un concentrato di tale droga). Armiamoci, allora, del Dizionario di Teologia Morale, quello diretto dal cardinale Francesco Roberti (1889-1977), uno dei più accreditati, almeno fino a qualche tempo fa, anche se ha il grave "difetto" — che per noi, però, è un pregio — d’essere stato concepito e realizzato prima della tanto decantata "stagione conciliare", cioè prima del caos dottrinale, pastorale e liturgico delle ultime due generazioni; e leggiamo, alla voce "Provvidenza" (Roma, Editrice Studium, 1955, p. 1196):

La provvidenza è, propriamente, l’ordine concepito dalla mente di Dio per dirigere le cose create al proprio fine. Risiede nell’intelletto divino, ma presuppone la volizione del fine. Perciò ad essa segue l’esecuzione del piano concepito nella mente di Dio, il che è poi il governo delle creature. Piano ed esecuzione sono tra loro intimamente connessi, e perciò nella pratica intendiamo per provvidenza le due cose insieme. La provvidenza divina come piano, si estende a tutte le cose, anche alle più piccole, ed immediatamente. Pure l’esecuzione si estende a tutte le cose, ma non sempre immediatamente, perché nell’esecuzione dei suoi piani Dio fa lavorare spesso le creature come cause seconde, producendo così l’effetto voluto.

Allora, se l’effetto voluto viene perseguito da Dio mediante le cause seconde, ciò significa che la ricerca dell’effetto cammina, almeno in parte, sulle gambe degli uomini, e che gli uomini sono collaboratori della divina Provvidenza. Tutto questo si vede certamente, e assai bene, nello sviluppo del romanzo e nel carattere dei personaggi, perfino quelli che sembrano più lontani da Dio: chi avrebbe immaginato, per esempio, che la liberazione della povera Lucia sarebbe giunta per un atto di bontà, il primo dopo chi sa quanti anni, e forse il primo in assoluto, da parte del terribile Innominato? Dio ha bussato al cuore di quell’uomo, attraverso le sue vie misteriose, e lo ha raggiunto, sconvolgendolo, mutandolo radicalmente (mentre già egli carezzava, si noti, l’idea del suicidio). Senza dubbio ha bussato anche al cuore di don Rodrigo, per esempio quando il padre Cristoforo gli si è presentato a casa e l’ha esortato, col massimo tatto possibile in quella circostanza, a non intralciare il matrimonio di Lucia con Renzo: in quel caso, però, il cuore dell’uomo è rimasto sordo, la porta non si è aperta. Questa è la prova a contrario del fatto che la Provvidenza, nella esecuzione dei suoi fini, cammina sulle gambe degli uomini; e che quindi può pure non camminare affatto. In tali casi, Dio si serve di altri intermediari, oppure può anche agire direttamente, come avviene nei cosiddetti miracoli, che segnano non la rottura delle leggi naturali, ma la rottura di quel che noi crediamo di sapere su di esse. Un esempio classico è, negli Atti degli Apostoli, la liberazione dal carcere di san Pietro, visitato da un Angelo che gli fa cadere le catene dalle mani e poi lo scorta fuori, attraverso i cancelli aperti, sotto il naso delle guardie addormentate, che pagheranno con la vita l’esserselo fatto scappare a quel modo.

Ora, è significativo il fatto che di tali interventi diretti, nei Promessi sposi, non c’è nemmeno l’ombra. Dio, nel romanzo, opera sempre per mezzo del cuore umano, cioè per mezzo della conversione; oppure attraverso un mutamento delle circostanze complessive, come quando, a causa della peste, i controlli alle frontiere del Ducato di Milano vengono di fatto abbandonati, e Renzo può rientrare in città alla ricerca di Lucia, pur avendo ancora, sulla testa, una taglia quale criminale comune. E quando la folla imbestialita sta per linciarlo, Renzo si salva saltando sul carro dei monatti, gente senza morale e senza Dio. È ancora la provvidenza, a salvarlo? Oppure è il caso? Esiste anche il caso, o esiste solo la Provvidenza, nella vicende umane? Manzoni non dà una risposta a simili interrogativi; forse non se li pone nemmeno. Giusto: il suo è un romanzo, non un trattato di teologia morale. D’altra parte, il romanzo di Manzoni contiene una filosofia morale e contiene anche una filosofia della storia. Le cose sono complicate dal fatto che non è sempre chiaro quale sia il punto di vista dell’autore, perché Manzoni ama far parlare i suoi personaggi, ciascuno dei quali dice la sua. Per don Abbondio, la peste è una scopa, che spazza via i malvagi, purtroppo insieme a parecchi buoni; per don Ferrante, non esiste addirittura, quindi è inutile prendere precauzioni contro di essa; per padre Cristoforo, è un mistero e una prova d’amore, cui gli uomini sono chiamati per aiutarsi fra loro; per don Rodrigo, è l’occasione per una vita di gozzoviglie ancor più sfrenata, dal sapore quasi blasfemo. Ma chi è più vicino alla verità, o, almeno, chi ne è meno lontano? Difficile dirlo: in un romanzo corale, hanno ragione un po’ tutti, e non ha ragione alcuno. E Manzoni? Manzoni fa parlare, in sua vece, ora questo, ora quello: anche se siamo ben lontani dalla dissoluzione del narratore onnisciente, tipica del romanzo novecentesco, nondimeno è arduo afferrare il vero pensiero dell’autore: sfugge come un’anguilla e, quando si crede d’averlo preso, è sgusciato via di nuovo. Nessuno dei personaggi del romanzo, neppure l’Anonimo, detengono l’imprimatur del pensiero manzoniano, neppure i più positivi, come fra Cristoforo; e il motivo è chiarissimo: per Manzoni, il cristiano perfetto non esiste; il cristianesimo è un continuo esercizio di santità, un continuo tendere al modello divino. Semmai, ci sono delle ragioni per pensare che Manzoni, quanto a sé, abbia voluto rappresentarsi piuttosto in don Abbondio che in padre Cristoforo (o nel cardinale Borromeo): cosciente com’era della sua fragilità, della sua insufficienza, della sua poca fede. L’abbiamo detta grossa; ebbene, sissignori: proprio in don Abbondio. Ma don Abbondio è un vile, un pusillanime, un egoista; vero. Però è anche un povero prete alle prese con una faccenda più grossa di lui: non è all’altezza, ma quanti lo sarebbero stati? È facile parlare con severità, criticarlo: Uh, che vergogna: un prete che abbandona le sue pecorelle nelle fauci del lupo! Già: ma quanti dei suoi censori avrebbero avuto più coraggio di lui, se avessero ricevuto un avvertimento dalla mafia? Se un paio di picciotti gli avessero ordinato di non fare (si badi: non di fare, ma di non fare) una certa cosa? E, posti davanti alla concretezza d’una tale minaccia, quanti avrebbero avuto più di coraggio della media degli uomini, ricordandosi d’essere cristiani?

Il critico letterario Rocco Montano (Stagliano, Matera, 1913-Napoli, 1999), professore in varie università degli Stati Uniti — Harvard, la Catholic University di Washington, Maryland -, dantista di notevole spessore, oggi quasi dimenticato, faceva queste interessanti osservazioni a proposito della Provvidenza (da: R. Montano, Manzoni o del lieto fine, Napoli, Ed. Conte, 1950, pp. 10-16):

Critici illustri e compilatori di testi di scuola sono in fondo concordi nel sostenere che la "filosofia del romanzo" è questa: "gli uomini operano e prevedono e la provvidenza in ultimo è quella che risolve e decide". E il Momigliano ha particolarmente insistito sulla presenza di un continuo, diretto intervento di Dio nelle vicende del romanzo. Egli ha definito , come è noto, l’opera del Manzoni come l’epopea della provvidenza, ed ha spiegato che in questa"nessuno sfugge alla sporte che si è meritato… ; per tutti il compenso giunge così spontaneo che quasi non si nota". "Un a intelligenza nascosta — è anche detto — eguaglia gli eventi alle persone"; "la prima sensazione di stranezza è cancellata da un’altra più profonda che fa intravedere sotto il viluppo una forza infallibile e semplice": "il castigo di don Rodrigo invece p rilevato, sia pure finissimamente". E il concetto è largamente diffuso nella critica manzoniana. L’accusa di "oratoria" fatta dalla scuola crociana , la considerazione dei "Promessi Sposi" come opera di persuasione morale ha almeno in parte il suo fondamento nell’idea che gli avvenimenti nel romanzo siano ordinati a un fine pedagogico e che vi sia messa in luce l’opera di "un Dio preordinatore di tutti i nostri atti". Nel romanzo è veramente don Abbondio che prospetta l’idea che la Provvidenza abbia infine regolato le cose nel miglior modo possibile, togliendo di mezzo le persone moleste e procurando a lui e ai suoi interlocutori una pace che almeno egli stesso crede meritata: "È anche stata UNA SCOPA; ha spazzato via certi soggetti… se la peste facesse sempre e per tutto le cose in questa maniera, sarebbe proprio un peccato il dirne male". Né può comprendere ovviamente che un ben meschino modo di pensare Dio è quello di credere che egli regga le cose del mondo secondo ciò che a noi appare ragionevole e comodo. Anche Renzo pretende di aver compreso la legge delle cose, si illude che le diverse sue disavventure siano dovute ai suoi piccoli errori e crede di poter dire la parola "castigo" davanti a don Rodrigo morente. Ma sono appunto costoro anime sorde e quasi in tutto incapaci di pensieri religiosi; appartengono al volgo che crede di scorgere LA MANO DI DIO nell’una o nell’altro dolorosa e fortunata vicenda Come pensare che sia il Manzoni uno di questi?

C’è anche padre Cristoforo, è vero. E non sappiamo se nel famoso suo scatto di profetica ira in cospetto di don Rodrigo non gli sia balenato il sospetto o la presunzione di una terrena ora di punizione anticipatrice della divina oltremondana giustizia. Negli "Sposi Promessi" egli aveva detto con troppa insistenza la sua fiducia nella "mano di Dio". Aveva finanche promesso: "Dio vi aiuterà, ve lo prometto io", e insistito: Dio provvederà". Non era sparita nella stessa redazione ultima del romanzo questa illusione, né naturalmente, la ingenua fiducia che lo porta a combattere nel covo della belva, il suo fare, così amorosamente ironizzato dal poeta, "di buon capitano che, sconfitto, pensa alla rivincita": ma al tempo della peste egli avrà avuto ben tempo di versare acqua sui giovanili ardori profetici, sulla sua fede eroica quanto facile all’illusione nella giustizia del mondo. L’ultima rampogna a Renzo nel lazzaretto ("Può essere gastigo, può essere misericordia") è prima di tutto il risultato di una consapevole rinunzia e di una sofferta rassegnazione. Così Renzo potrà ancora trovare alla fine della vicenda, come abbiamo detto, una logica nel viluppo delle cose. Ma Lucia, che ha ben altra sensibilità religiosa, sa bene che "i guai vengono sì spesso perché ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani". E si sa per chi l poeta si dichiara espressamente d’accordo. In effetti — vedremo – era tutta la formazione spirituale del Manzoni, il sentimento religioso in se stesso, che non concedevano che la Provvidenza potesse essere pesata e additata come giustizia riparatrice delle storture del mondo. Né occorre rilevare che nella stessa costruzione del romanzo sarebbe una ben povera provvidenza quella che dovendo intervenire nelle cose del mondo si preoccupasse di far giungere alle nozze due contadini come tanti altri e lasciasse tutta un’epoca in preda alle distruzioni e alle stragi della guerra, della carestia, della peste. La sproporzione è troppo evidente. E del resto, se c’è qualcosa — accenniamo fin da ora — che possa caratterizzare il sentimento religioso del Manzoni è la coscienza che egli ebbe della completa trascendenza del giudizio divino. "La fede include la sottomissione della ragione" ed è la ragione stessa che vi si sottomette e rinuncia: da questo muovono le "Osservazioni". E della Provvidenza, di come i suoi criteri, il suo vero fine sono destinati a sempre sfuggire il Manzoni stesso ci può dire che il suo ciclo "si compie in un ordine universalissimo il quale abbraccia la serie intera e il nesso di tutti gli effetti che sono e saranno prodotti da ogni azione e da ogni avvenimento e comprende il tempo e l’eternità" e che "quest’ordine passa immensamente la nostra cognizione e le nostre previsioni" ed è per noi "un caos di possibili". […]

Ognuno vede già da questo come sia possibile prestare al Manzoni una qualsiasi intenzione di rilevare e dimostrare in qualche fatto la presenza o l’intervento divino. Almeno per questo aspetto, diciamo, è del tutto privo di giustificazione il rilievo di una intenzione moralistica che sarebbe alla base del romanzo. Il presupposto per cui si è giunti a negare che i "Promessi Sposi"siano opera d’arte: l’esistenza di un’intenzione moralistica e il fatto che il romanzo miri a dimostrare e persuadere circa l’intervento della Provvidenza nel mondo, a favore degli umili e degli oppressi, tale presupposto si rivela in fondo, anche per queste esterne considerazioni, piuttosto inconsistente e incompatibile col vero sentire del Manzoni.

A nostro parere, quindi, ammesso che protagonista dei Promessi sposi sia la Provvidenza, e non Dio, in tutta la sua ineffabile pienezza, resta da vedere se si tratti davvero d’un romanzo cattolico. Manzoni è un illuminista che si converte direttamente al cattolicesimo liberale (con qualche spruzzata di giansenismo), il che significa che resta un illuminista e che porta l’illuminismo nella sua nuova fede, incorporandovelo. Ma il romanzo esprime la concezione cattolica? C’è, al centro di esso (come, ad esempio, nei fratelli Karamazov) Gesù Cristo, Dio che si fa uomo, muore e risorge per amor nostro? Manzoni crede nel progresso della storia, anche se riconosce dei limiti oggettivi, e nella libertà, sia dei singoli, sia dei popoli. Ma il liberalismo è stato condannato dal Sillabo, che è Magistero; e se ora è stato, di fatto, riabilitato, ciò non dimostra che Pio X avesse torto. Forse aveva visto giusto e sono i cattolici odierni a veder male. Proprio come sta accadendo con il modernismo…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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