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Grandezza (poca) e miseria (molta) dell’esistenzialismo

Nessuno sottovaluti il ruolo e il peso esercitati dall’esistenzialismo, o forse sarebbe meglio dagli esistenzialismi, negli sviluppi del pensiero contemporaneo. Da quando il grande Kierkegaard gettò il suo sasso nello stagno, di acqua ne è corsa molta e i pensatori che, in una maniera o nell’altra, hanno voluto, per lo più malamente, riallacciarsi alla sua lezione, sono diventati legione; al punto che all’esistenzialismo è accaduta la stessa cosa che era accaduta ad altre, più antiche e più gloriose correnti di pensiero, cioè diventare parte integrante del paesaggio culturale. Riteniamo che solo a Nietzsche, tra i filosofi contemporanei, sia toccato il medesimo destino: quello di essere preso, direttamente o indirettamente, quale riferimento irrinunciabile dalla quasi totalità dei pensatori successivi, i quali, invece di criticarlo o di esaltarlo, come era stato fatto, a suo tempo, per Hegel o Croce, o Gentile, lo hanno in certo qual senso promosso a nume tutelare del pensiero moderno, o magari post-moderno, ciascuno scoprendovi una nuova verità e un nuovo messaggio, talvolta da destra, talvolta sa sinistra: ma non come fecero la destra e la sinistra hegeliana, bensì arruolandolo tutto quanto, senza mezze misure, nell’uno o nell’altra area ideologica, e sforzandosi di dimostrare che egli aveva voluto dire proprio quello che ora dicono loro, che aveva portato acqua al loro mulino, che aveva spianato la via per la quale ora essi stanno gloriosamente passando. Ebbene, Kierkegard è stato un genio non meno grande, semmai più grande, di Nietzsche; dove questi ha socchiuso alcune finestre, ma anche creato numerosi ostacoli e disposto trabocchetti involontari (e anche volontari: era assai malizioso, l’uomo!), nei quali puntualmente sono caduti i suoi pretesi discepoli, rivelandosi, in sostanza, più grande nella pars destuens, cioè nel ruolo d’infaticabile picconatore, Kierkegaard, invece, genio essenzialmente costruttore, ha delineato una quantità di sentieri, tutti preziosi, tutti ugualmente ammirevoli, laddove, prima di lui, non c’erano che strade chiuse e portoni sbarrati. Per trovare un fenomeno analogo, bisogna uscire dall’ambito della filosofia per passare in quello delle arti figurative, dove il genio isolato di Vincent Van Gogh ha aperto la strada, si fa per dire, a una legione innumerevole di pittori "espressionisti", i quali, tutti, senza eccezione alcuna, hanno preteso di sviluppare le sue premesse, ma si sono rivelati i classici pigmei che pretendono di confrontarsi con un gigante, senza neppure rendersi conto della situazione penosa e imbarazzante nella quale si mettono, anche per la loro totale incapacità intellettuale di comprendere la radice dell’equivoco.

Dunque, gli esistenzialismi. Uno dei più importanti è stato quello di Karl Jaspers (1883-1969), che quasi tutti gli studenti di filosofia associano mentalmente a un esistenzialismo buono, contrapposto a quello "cattivo" del suo collega Martin Heidegger, in quanto quest’ultimo si è largamente compromesso con il nazismo, mentre lui non solo ne è rimasto immune, ma si può ascrivere al novero degli oppositori, almeno in senso ideale. Inutile dire che tutto ciò non c’entra nulla con la filosofia e che, come al solito, si fa un gran minestrone fra giudizi morali, se non addirittura moralistici, e analisi speculative, le sole che dovrebbero interessare in ambito intellettuale. Ma tant’è, anche di questi pasticci è fatta la pseudocultura dell’uomo medio, del quasi-intellettuale, o simil-intellettuale, ossia l’individualista di massa che popola (e affolla) il nostro paesaggio culturale. Il grande merito di Jaspers è quello di aver sottolineato l’unità dell’esistenza umana; e, in questo, è stato allievo sia di Kierkegaard, sia di Nietzsche (due maestri diversissimi, per non dire opposti, e tuttavia, come qui appare evidente, in certo qual senso complementari). Il suo limite è stato quello di circoscrivere tutto il discorso filosofico in termini di esistenza, asserendo chiaramente che da questa verità, ossia la verità dell’esistenza, e non dell’esistenza in generale, ma proprio della mia esistenza, non posso uscire, non posso contemplarla dall’esterno, né conoscerla. Se dovessi uscirne, cadrei nel vuoto. Posta in questi termini, la filosofia cessa, semplicemente, di esistere; se è vero che filosofare è ragionare sull’intero, cioè sull’essere, e che l’ontologia, di conseguenza, ne è lo zoccolo duro e, allo stesso tempo, la sola possibile garanzia di verità; mentre Jaspers afferma, con la massima disinvoltura, che una rappresentazione della verità dell’esistenza ritiene impossibile una conoscenza dell’essere (ontologia), e al cammino dell’unica vera fede sostituisce la chiarificazione dell’essere nell’esserci del mondo come CONTRAPPOSIZIONE DI FEDE E FEDE. Ora, se l’ontologia è impossibile e se non si dà alcuna verità assoluta, allora non si dà neppure alcuna metafisica, e tutto lo sforzo di Jaspers di costruirne una, appare fallimentare in partenza. Del resto, andando a vedere da vicino quel che egli intende per "metafisica", si scopre che egli sta parlando, né più né meno, della "trascendenza": confusione concettuale colossale, o, quanto meno, semplificazione suscettibile di provocare colossali ambiguità e infiniti equivoci. Per un esistenzialista rigoroso, come Jaspers, è chiaro che il concetto di trascendenza designa uno sforzo del pensiero, cioè qualcosa d’immanente, vale a dire tutto l’opposto di quel che da sempre, nella filosofia classica, si è convenuto di chiamare "trascendenza". E il bello è che Jaspers è un filosofo cattolico (sposato, peraltro, con una donna ebrea; ed è questo che ha segnato la sua rottura col regime nazista), e che, nella concezione cattolica, "trascendenza" non è affatto la tensione del finito verso l’infinito, ma è la realtà che trascende il finito. Vuoi vedere che si annida proprio qui la radice di una buona parte della pessima teologia della "svolta antropologica", che Karl Rahner ha mutuato soprattutto da Heidegger (e da Kant, e da Hegel), ma forse anche dal Nostro? Proviamo a vedere.

Scrive Jaspers alla fine del secondo libro, Chiarificazione dell’esistenza, della sua opera più importante, Filosofia (titolo originale: Philosophie, II, Exisistenzerhellung, 1932, Berlin, Springer Verlag; traduzione dal tedesco di Umberto Galimberti, Milano, Mondadori, 2009, pp. 903-905):

Se l’esistenza non è un essere oggettivo, né un essere soggettivo nel senso in cui è accessibile alla psicologia, ma si manifesta nelle molteplici forme in cui l’esserci si scinde in soggettività e oggettività, l’esistenza non può giungere ad una propria definitiva oggettività, né può essere sufficientemente concepita come soggettività.Se attraverso l’indagine e il sapere che orienta nel mondo, attraverso le azioni finalizzate e le esperienze vissute senza alcuna finalità, attraverso prestazioni che si sono rivelate provvidenziali e utili al lavoro, s’è messo piede nell’esserci, percorrendone tutti gli aspetti, allora s’è raggiunto anche la possibilità di un’autocoscienza dell’essere del proprio se-stesso, a cui tutto l’esserci mi rinvia, anche se solo in esso io lo trovo. Con ciò non è possibile considerare il se-stesso come l’unico essere, né affermare che qualsiasi altro essere universale sia l’essere assoluto. Il mondo e la trascendenza possono essere solidificati nella loro oggettività, ma l’esistenza possibile ritorna là dove solamente, ha la possibilità di sentire la trascendenza che si rende presente e certa solo nella forma della libertà.

La COSCIENZA DELL’ESSERE dell’esistenza possibile non è un fenomeno che possa essere osservato. È una scienza che c’è solo per QUESTA esistenza e ad essa è legata nella comunicazione. Parlarne significa irrimediabilmente oggettivarla, come se stesse lì, empiricamente, nei molti esemplari che si offrono all’osservazione, mentre l’enunciazione significa solo ricerca, appello, perché il se-stesso si renda conto dell’unicità e dell’INSOSTITUIBILITÀ della sua esistenza.

Nel mondo, i soggetti sono certamente le molteplici forme concrete in cui si manifesta l’esistenza possibile, ma l’esistenza è solo se stessa, che fa tutt’uno col proprio se-stesso a cui è legata comunicativamente. Le esistenze non possono essere considerate né come oggettività, né come soggettività; non essendo cose, non si possono contare per stabilire quante sono; a differenza dei molti esserci presenti nel mondo, esse sono L’ESSERE DELL’ESISTENZA PER LE ESISTENZE. Non si possono conoscere, ma si possono chiarire come possibilità. Si tratta di quel LEGAME DELL’ESSERE ALL’ESSERE che noi stessi siamo se crediamo d’ESSERE AUTENTICAMENTE; questo legame si realizza per noi se entriamo nel circolo esistenziale. Invece d’incontrare l’essere nell’oggettività e in una verità universalmente valida, lo incontriamo, allora, nell’origine della possibile coscienza dell’essere nel mondo, attraversando la scissione di soggettività e oggettività, nel rapporto dell’esistenza con le altre esistenze. La sua origine è la TRASCENDENTE possibilità dell’essere da cui deriva ciò che è autentico, senza chiudersi in un’unità oggettiva dell’esserci temporale e senza giungere ad un livellamento dei soggetti che li riduca ad uno stadio di assoluta uniformità. Per questo una rappresentazione della verità dell’esistenza ritiene impossibile una conoscenza dell’essere (ontologia), e al cammino dell’unica vera fede sostituisce la chiarificazione dell’essere nell’esserci del mondo come CONTRAPPOSIZIONE DI FEDE E FEDE. […]

La differenza che l’esistenza instaura tra i vari tipi di verità: la verità che conosco in termini LOGICAMENTE VINCOLANTI, la verità a cui PARTECIPO (idea) e la verità che IO STESSO SONO, le consente di realizzarsi. Solo la verità che si impone per razionalità e verifica empirica, essendo valida per la coscienza in generale, vale per tutti. Ma quando si esprime la verità dell’idea e dell’esser-io esistente in termini oggettivi e diretti, allora avverto che, nel considerarla, gli uomini intendono per verità in sé cose diverse e tra loro opposte. In questo modo non comprendo nessuna di queste verità nella loro origine, perché, nella forma oggettiva, nella forma di una molteplicità di verità credute, per me c’è solo la sua manifestazione che si rivela alla mia coscienza in generale che si orienta nel mondo. Le verità si contraddicono, chi le conosce tutte non vi partecipa, ma si identifica con una sola di esse. La MIA verità, quella che si identifica con la mia libertà nella misura in cui esisto, contrasta con un’ALTRA verità realizzata, a sua volta, esistenzialmente; la mia verità si realizza attraverso e con quest’altra verità, non, però, come verità unica e sola, ma come verità unica e insostituibile per quel tanto che sta in relazione con le altre.

Da questa verità non posso uscire, non posso contemplarla dall’esterno, né conoscerla. Se dovessi uscirne, cadrei nel vuoto.

Dicevamo del possibile, anzi, del probabile influsso di Jaspers, ovviamente non da solo, ma insieme ad altri, sugli sviluppi della teologia cattolica dopo la Seconda guerra mondiale, e particolarmente sul pensiero di Karl Rahner e sulla malaugurata "svolta antropologica", la sedicente rivoluzione copernicana che ha capovolto i termini della riflessione sul rapporto fra l’uomo e Dio, mettendo al centro il primo, e il secondo solo come termine a cui egli tende (ma forse neanche tanto, visto che, una volta postosi al "centro", l’uomo ci si trova benissimo, e non ha più una vera tensione verso qualcosa o qualcuno che sia a lui ulteriore, e superiore). Si ponga attenzione alla frase: Le verità si contraddicono, chi le conosce tutte non vi partecipa, ma si identifica con una sola di esse. La MIA verità, quella che si identifica con la mia libertà nella misura in cui esisto, contrasta con un’ALTRA verità realizzata, a sua volta, esistenzialmente; la mia verità si realizza attraverso e con quest’altra verità, non, però, come verità unica e sola, ma come verità unica e insostituibile per quel tanto che sta in relazione con le altre. Inoltre, ci permettiamo la domanda: che razza di "scienza" è quella che c’è solo per QUESTA esistenza, senza contare che non la si può comunicare, perché ciò ne tradirebbe l’autenticità? Questa è una perfetta sintesi del pensiero scettico e agnostico: nessun relativista avrebbe saputo essere tanto chiaro e conciso. Non c’è alcuna verità assoluta, le verità sono tutte relative; e nessuno può avere la pretesa di uscire dal guscio della propria verità personale. Pirandello avrebbe approvato. È strano, però, che un filosofo "cattolico" ponga questi concetti alla base della sua speculazione. Che razza di cattolicesimo, che razza di religiosità è mai la sua? Jaspers crede di uscire dal vicolo cieco affermando che l’esistenza non è un essere oggettivo, né un essere soggettivo, ma si può uscire dal solipsismo di queste monadi leibniziane perché le esistenze, e le loro relative verità, non si possono conoscere, ma si possono chiarire come possibilità. Si tratta di quel LEGAME DELL’ESSERE ALL’ESSERE che noi stessi siamo se crediamo d’ESSERE AUTENTICAMENTE; questo legame si realizza per noi se entriamo nel circolo esistenziale. Ma sono parole, non concetti. Di fatto, se ciascuno resta chiuso e intrappolato nella propria verità (ma perché essere degli esistenzialisti timidi? perché limitare la singola esistenza ad una sola verità, e non cento o centomila?), in che modo potrà entrare, poi, nel circolo esistenziale? Jaspers direbbe: non con la filosofia, ma con la vita. Benissimo; in tal caso, perché sprecare altro tempo in ragionamenti filosofici? Limitiamoci a vivere la nostra esistenza, qualunque cosa ciò significhi; e buona fortuna…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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