Se non diventerete come i bambini…
8 Giugno 2018
Come si costruisce l’opinione delle masse
10 Giugno 2018
Se non diventerete come i bambini…
8 Giugno 2018
Come si costruisce l’opinione delle masse
10 Giugno 2018
Mostra tutto

Ma perché è tanto difficile diventare bambini?

Gesù dice che, per convertirsi al vangelo bisogna diventare simili ai bambini; ci siamo chiesti che significato abbia esattamente l’espressione diventare come i bambini, e ci è sembrato che voglia dire acquistare la stessa fede assoluta che i bambini hanno nei confronti di ciò in cui credono (cfr. il nostro precedente articolo: Se non diventerete come i bambini, pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 08/06/2018). Inoltre, ci è sembrato di poter concludere che il maggiore ostacolo al ritornare fanciulli, così come pretende il divino Maestro, è rappresentato dalla superbia intellettuale, dall’orgoglio di non voler rinunciare alla propria intelligenza umana, e dalla pretesa, anzi, di poter usare quest’ultima proprio per poter scoprire e lumeggiare aspetti della verità cristiana che sono ignorati dalla maggior parte delle persone. Però, come suole accadere (Ma sì com’elli avvien, s’un cibo sazia / e d’un altro rimane ancor la gola, / che quel chi chere e di quel si ringrazia: Dante, Paradiso, III, 91-93), questa rima spiegazione ci ha fatto sorgere un ulteriore interrogativo: ci siamo chiesti quale sua la radice di quella superbia, di quell’orgoglio, che inducono tanti esseri umani, e anche tanti sedicenti cristiani, a ignorare e disprezzare il preciso e severo ammonimento di Gesù stesso.

Ci siamo perciò domandati: questa superbia, quest’orgoglio, sono connaturati all’essere umano, e da che cosa, precisamente, traggono, a loro volta, origine? Per quale motivo la natura umana è cosiffatta, da non riuscire a liberarsi, senza una grandissima difficoltà, da quella superbia che p, poi, il principale ostacolo ad osservare l’insegnamento di Gesù circa la necessità, per potersi convertire, di divenire come i bambini? E la risposta, riflettendo bene, ci è sembrato che risieda in un ambito diverso da quello della superbia intellettuale, che è un semplice effetto, una "risposta", e cioè in un ambito esistenziale, e più precisamente affettivo. La stragrande maggioranza delle persone, passando dall’infanzia all’età adulta, subisce un apprendistato, una formazione, che è anche, per un altro verso, una dolorosa disillusione, una caduta di certezze e una mortificazione di aspettative. L’arroganza intellettuale è, pertanto, la risposta che esse danno alla loro delusione e alla loro amarezza, al fine di occultarle il più possibile, non solo agli altri, ma anche e soprattutto a se medesime. In altre parole, le persone non vogliono far sapere a nessuno, e neanche a se stesse, quanto sono rimaste ferite dalla scoperta che la vita non è quel che esse credevano nell’infanzia: non vogliono confessare di essere rimaste terribilmente deluse e ferite, perché a nessuno piace mostrare le proprie debolezze o le proprie ferite, specie se non c’è niente da guadagnarci, tranne la fama di povero sciocco che non sa stare al mondo. Tutti, insomma, avrebbero voglia di gridare quanto sono rimaste deluse, vorrebbero mostrare le loro cicatrice e accusare il colpevole; ma poiché non c’è un colpevole, bensì la vita in generale, allora la cosa diverrebbe patetica, assurda o ridicola; e nulla spaventa più della possibilità di apparire ridicoli. Meglio essere odiati, e perfino disprezzati, che essere compatiti; meglio sopportare sentimenti di aperta ostilità, piuttosto che immaginare gli altri che scuotono la testa con commiserazione, e dicono: Eh, guarda quel poveretto! Guarda come è rimasto ferito dalla vita! Che vuoi farci, lui non sapeva, non immaginava: c’è della gente che non si sa proprio cosa venga a fare al mondo, tanto è ingenua e puerile!

Gli eroi di Dostoevskij — è una osservazione di Tkačëv — si possono distinguere in umiliati, inaspriti e ideologi. Ne I fratelli Karamazov, per esempio, Smerdiakov è un "umiliato", Dimitrij è un "inasprito" e Ivan un "ideologo", come lo è, a suo modo, e cioè in senso opposto al suo, il giovane Alësa. Ebbene — l’osservazione è nostra – possiamo anche considerare questi tre tipi, o caratteri, come tre facce di uno stesso volto dell’umanità, come tre momenti di passaggio di una medesima personalità. La fase dell’adolescenza è quella della "umiliazione", nella quale la caduta delle illusioni fa emergere, per contrasto, la goffaggine di fronte alla vita. Non è stato solo Dostoevskij a essere colpito da questo fatto, anche se lui gli ha rivolto una speciale attenzione, al punto da dedicargli un romanzo intero, L’adolescente; si pensi anche alle Illusioni perdute di Balzac, e al malinconico apprendistato alla vita di Lucien Chardon; oppure a Meaulnes, il protagonista de Il grande amico di Alain-Fournier; e si pensi al David Copperfield e ad Oliver Twist di Dickens, per non parlare de I dolori del giovane Werther di Goethe. Ma è soprattutto nella letteratura americana che la figura del "ragazzo" disilluso dalla vita adulta tocca vertici di alta drammaticità, fino al suicidio, come nel caso di Martin Eden di Jack London, o una fine che equivale a un suicidio, come Il grande Gatsby di Scott Fitzgerald; o, ancora, fino a una sorta di suicidio spirituale, come nel caso di Newland Archer, il protagonista de L’età dell’innocenza di Edith Wharton, che ricorda molto il Frédéric Moreau dell’Educazione sentimentale di Flaubert. Se poi si passa dalla figura dell’umiliato a quella dell’inasprito, possiamo vedere in quest’ultima la naturale reazione alla prima, non necessariamente in un altro tipo umano, ma anche nella stessa persona: l’effetto della delusione/umiliazione diviene così l’inasprimento, l’indurimento e il cinismo. L’importante è non far vedere, on far sapere quanto si è rimasto feriti: in un mondo di lupi, chi lascia scorgere il proprio sangue rischia di essere assalito e sbranato da tutti gli altri. L’inasprito è l’uomo in rivolta, l’homme révolté di Camus, il grande ribelle, il lottatore che ce l’ha col mondo, perché il mondo lo ha trattato male, e ha imparato, a sue spese, che non deve aspettarsi nulla di buono da nessuno. L’inasprito è l’uomo in collera: un po’ come avviene al protagonista del Viaggio in Sicilia di Vittorini, coi suoi "astratti furori" (vaga reminiscenza degli eroici furori di Giordano Bruno); e, naturalmente, non è difficile costruirsi una qualche giustificazione sociale, politica o economica della propria collera, per quanto essa nasca come esperienza assolutamente privata e individuale. Quando ciò avviene, si passa dall’inasprito all’ideologo, cioè a colui che ha razionalizzato la propria umiliazione e il proprio inasprimento, mediante la convinzione razionale, o almeno ragionata, che quanto di male capita al singolo, in fondo altro non è che il riflesso di rapporti ingiusti a livello sociale, politico, economico. Marx, Bakunin, Proudhon, Lenin, Gramsci, Che Guevara, e, perché no, Hitler e Mussolini appartengono alla categoria degli ideologi, così intesi, pur essendo tanto diversi fra di loro; i loro padri nobili (o ignobili, secondo i punti di vista) sono i philosophes illuministi, sono i Diderot e i D’Alembert, i Voltaire e i Rousseau; e, se si vuole risalire ancora più indietro, non si farà fatica a trovarli anche fra i Tommaso Campanella, i Thomas Müntzer, i Gioacchino da Fiore, e qualche altro capopopolo "cristiano" cui il Vangelo ha dato alla testa e fatto nascere idee balzane di palingenesi universale, qualche volta cruenta e qualche volta no.

Ora, quando una persona entra nella fase "ideologica" (e non è detto che si tratti di un intellettuale; può anche essere un uomo o una donna qualsiasi, niente affatto amante dei libri e della filosofia), ciò significa che ha deciso di inscrivere la sua personale delusione in un quadro esistenziale universale, nel quale ciò che è accaduto a lui non è che il riflesso di una condizione generale e inevitabile dell’umanità. Giacomo Leopardi appartiene senz’altro a questa tipologia umana: è il perfetto ideologo, che, dopo aver individuato un nemico capitale, cioè, secondo lui, la natura, responsabile di ogni miseria e sofferenza, addita agli uomini una via gloriosa per lottare contro di esso, sublimando l’umiliazione sfogando la rabbia, attraverso il piacere "superiore" di aver capito come stanno in realtà le cose, aver strappato i veli dell’ignoranza e dell’ipocrisia, e aver additato ai suoi simili la sola strada degna per puntare al riscatto. Anche Schopenhauer appartiene a questa tipologia umana, per la quale la cosa più bella che si possa dire agli altri è di abolire ogni speranza e imparare a vivere come se la vita fosse una faccenda che, in realtà, non ci riguarda minimamente. È chiaro che, se le cose stanno a quel modo per tutti, allora anche la delusione individuale diventa più sopportabile, o, se non altro, meno mortificante e meno ingiusta: che è quanto serve per uscire dalle due fasi precedenti, quella dell’umiliazione e quella dell’amarezza e della collera impotente, entrambe, per ragioni diverse, assai spiacevoli. Infatti se questa è la legge generale, se questo è il destino riservato a tutti, allora ciascuno si sentirà un po’ meno depresso, nella misura in cui la depressione esistenziale viene vissuta, non come un fallimento individuale, ma come un dato storico e sociale. Dare la colpa di ogni male, e quindi di ogni infelicità, al capitalismo, o al cristianesimo, o alla famiglia "tradizionale", autoritaria e repressiva, o magari all’inconscio, a dei meccanismi che sfuggono alla nostra volontà, tutto questo è l’alibi ideale per la moltitudine di mezzi uomini che amano pensare a quali sublimi altezze avrebbero potuto raggiungere, nell’arte, o nel pensiero, o negli affari, o nello sport, se non avessero avuto la terribile sfortuna di vivere in un certo momento storico e di avere due genitori di un certo tipo. Ma, soprattutto, c’è il vantaggio di potersi prendere ogni merito per le cose buone che si vorrebbero fare, anche se non le si è fatte e mai le si farà, e per scaricare su qualcun altro o su qualcos’altro la colpa di tutte le cose cattive della propria vita, e specialmente di quelle che sicuramente dipendono dalla nostra volontà. A ciò si aggiunga che l’uomo moderno è il prodotto di una civiltà che ha allontanato e infine escluso Dio dal proprio orizzonte, per sostituirlo con la Grande Promessa: la promessa del benessere, della felicità, del paradiso in terra, che però non si è mai realizzata e che pare decisamente allontanarsi, con l’aumento delle disuguaglianze sociali, i disastri dell’inquinamento, la minaccia di un conflitto nucleare. Perciò l’uomo moderno è particolarmente deluso e inasprito: perché grandi, grandissime erano state le sue aspettative. I suoi maestri ideali gli avevano perfino insegnato che esiste un diritto alla felicità, questa cosa assurda, che nessuno ha mai visto in natura e che rappresenta la fase finale, ipertrofica e paranoica, dell’ideologia.

Ora, se questa è la diagnosi, si tratta di individuare una terapia. L’uomo moderno è particolarmente deluso e amareggiato perché non trova, nella vita concreta, quelle cose meravigliose che le sue premesse ideologiche, cioè le lenti colorate che è poste davanti agli occhi, gli avevano fatto sperare, e perfino considerare come sicure. Il cristiano moderno non fa eccezione e, nella misura in cui ha accolto e fatto sua la Weltaschauung moderna, è anche lui un cristiano deluso e mareggiato, pur se non ha il coraggio di dirlo neanche a se stesso: vale a dire che non è affatto un cristiano, ma semplicemente crede di esserlo. Crede di essere cristiano, però la Croce gli pesa; vuole dichiararsi cristiano, specialmente se cattolico progressista, e specialmente se ammiratore del signor Bergoglio e di tutti i vescovi "di strada", e seguace di tutte le teologie della "liberazione" (si badi: non della libertà, il che sarebbe troppo poco): ma guai a parlargli del peccato, della morte, del giudizio e dell’inferno. Allora tutto il suo ressentiment, troppo a lungo covato e represso, finirebbe per esplodere sgangheratamente: cristiano del terzo millennio, e va bene, ma per carità, niente a che spartire con la Chiesa di una volta, con il cattolicesimo di prima del Concilio. Se proprio bisogna dirsi cristiani, cerchiamo almeno di essere dei cristiani aperti ed emancipati, dei cristiani che non giudicano nessuno, né la donna che abortisce, né due uomini che si vogliono sposare (in chiesa, ovvio; altrimenti, che gusto ci sarebbe?). Insomma, dei cristiani adulti, che non credono più alle favole. Quali favole? Ma sì, le vecchie favole, quelle che conosciamo tutti: l’Angelo custode, la Vergine Maria che intercede per noi, il Sacro Cuore che ci redime, i miracoli, il soprannaturale, la vita eterna… In definitiva, per esse cristiani adulti bisogna essere dei cristiani delusi e amareggiati, che non credono più in Dio, ma, semmai, nell’umanità che si auto-divinizza. Come ha detto quel prete di Torino, don Fredo Olivero: non vi faccio recitare il Credo, perché tanto io non ci credo. E lo ha detto durante la santa Messa di Natale. Ecco: questo, precisamente, è l’atteggiamento di chi non potrà mai convertirsi; perché per convertirsi bisogna diventare come i bambini, cioè ritrovare una grande fede nella Parola di Dio, mentre codesti cristiani moderni non ci credono affatto. Credono in un sacco di cose, loro, dai diritti civili alla difesa dell’ambiente, e dalla democrazia alla Costituzione: sono i concetti recentemente espressi dal cardinale Gualtiero Bassetti, all’assemblea della C.E.I. Lavoro. Costituzione, centralità della persona (non di Dio: della persona), democrazia. Non ha citato Gesù Cristo; non ha citato il Vangelo, né lo ha messo fra i "paletti irrinunciabili" per il cristiano. E se questo è il punto di vista dei cardinali e dei vescovi, come aspettarsi qualcosa di diverso dai semplici fedeli? Manca solo che si mettano a berciare, pure loro, e in ritardo di tre secoli, sul diritto alla felicità proclamato dagli illuministi. Ma se anche non lo dicono, tuttavia lo pensano; per i cristiani moderni, per i cattolici progressisti, la felicità è un diritto, e nessuno venga a intralciarlo; nessun rompiscatole si azzardi a parlare della Croce. Non vogliono più sentirle, le cose tristi del cristianesimo pre-conciliare; non le sopportano proprio: per loro, il cristianesimo è nato, o almeno rinato, nel 1962, con la convocazione del Concilio. Prima, c’erano solo tristezza e noia. Ma se oggi, per merito loro, abbiamo ritrovato la gioia e la pienezza, come mai nessuno se n’è accorto?

Fonte dell'immagine in evidenza: sconosciuta, contattare gli amministratori per chiedere l'attribuzione

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
Hai notato degli errori in questo articolo?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.