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7 Giugno 2018Lo spettacolo miserevole di confusione e di rilassatezza che caratterizza la vita della Chiesa ai nostri giorni, con un clero sempre più temerario nel discostarsi dal Deposito della fede, e una massa di fedeli sempre più abbandonati e allo sbando, tanto sul piano dottrinale, che pastorale, e perfino morale, ci spinge a interrogarci senza sosta sulle ragioni che hanno reso possibile questa situazione, perché, fino a quando non avremo capito come ciò sia stato possibile, non troveremo nemmeno la strada per uscirne. E dobbiamo interrogarci sia su quel che vediamo accadere, purtroppo ormai quotidianamente, tutto intorno a noi, dentro la Chiesa, sia su quel che accade nella nostra stessa interiorità, dentro la nostra anima: perché nessuno di noi è una monade isolata e autosufficiente, siamo gocce nel mare e quel che si verifica nel mondo è simile a quel che accade nelle nostre più intime profondità. Se pensassimo che la fede è esclusivamente una relazione diretta e personale fra ciascun’anima e Dio, cadremmo nell’errore dei protestanti, che poi è anche l’errore dei modernisti: ridurremmo la fede, cioè, a puro e semplice sentimento, a una relazione sentimentale fra noi e Dio. Invece, anche se la fede è, innanzitutto, una relazione personale fra noi e Dio, essa è anche una relazione che si attua intorno a un contenuto di verità, che, in quanto tale, è razionalmente intelligibile, almeno fino a un certo punto; e, inoltre, si esplica in un contesto provvidenziale, che si chiama Chiesa: Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, là sono Io, ha promesso Gesù. La mediazione della Chiesa, dunque, è necessaria: se così non fosse, non si capisce perché Gesù avrebbe avuto tanta cura nell’istituirla, e perché avrebbe raccomandato a san Pietro, per tre volte, di pascere le sue pecorelle. E uno degli strumenti che la Chiesa mette a disposizione del credente, per aiutarlo, sostenerlo e incoraggiarlo nel suo cammino verso la fede, è il Magistero; il quale, a sua volta, si avvale del contributo di fede, sapienza e intelligenza che gli hanno offerto i Padri e i Dottori della Chiesa, e, in genere, tutti i teologi di buona volontà, nel corso dei secoli; nessuno dei quali, mai, ha osato anche solo immaginare di poter aggiungere o togliere un solo iota dai contenuti della Relazione stessa.
Ma poiché, a partire dal Concilio Vaticano II, il ruolo svolto dai teologi nella determinazione del Magistero è stato enormemente e, secondo alcuni, illecitamente sovrastimato, e poiché da alcuni teologi della seconda metà del Novecento sono scaturiti alcuni gravissimi errori filosofici, che si sono ripercossi in maniera drammatica sulla vita della Chiesa, è bene chiarire che la teologia è solo una scienza sussidiaria della fede; e che, se è la regina delle scienze umane, non è affatto, però, la regina della fede cattolica, non è essa che ne determina i contenuti, bensì ha la funzione di illuminarli e di renderli più chiari, procedendo per mezzo delle categorie filosofiche, che sono le categorie del pensiero razionale. Il legame tra filosofia e teologia è questo: la filosofia fornisce gli strumenti concettuali, la teologia se ne serve per chiarire e illuminare le verità della fede. Le quali verità, però, sono eterne e immutabili, e non derivano in alcun modo la loro esistenza, né la loro evidenza, dal lavoro del teologo: il teologo è, come ogni altro cristiano, solamente un onesto operaio chiamato a lavorare nella vigna del Signore: se pretende di eccedere i propri compiti, cade nell’errore, che, in casi gravi, si chiama eresia. In tal caso, la sua responsabilità è immensa, perché, invece di condurre le pecorelle verso la verità della fede, le allontana da essa, con grave pericolo per le loro anime immortali. Al teologo che, accecato dall’orgoglio umano, si lasci prendere dalla superbia e dalla vanità, e, scordandosi di essere solo un operaio della vigna, s’impanchi a rivelatore di nuovi contenuti della Verità rivelata, quasi un "correttore" del Magistero, si possono applicare le durissime parole d’ammonimento di Gesù Cristo (Luca, 17, 1-3): E’ inevitabile che avvengano scandali, ma guai a colui per cui avvengono. E’ meglio per lui che gli sia messa al collo una pietra da mulino e venga gettato nel mare, piuttosto che scandalizzare uno di questi piccoli. State attenti a voi stessi!
Il contento della fede cristiana e cattolica è formato da un insieme di verità, le quali formano la Rivelazione divina. Se la fede, dunque, nasce da un assenso della volontà, la quale presuppone l’azione della Grazia, perché, dice Gesù, Nessuno può venire al Padre se non per mezzo di me, la fede ha dei contenuti che sono razionali e che richiedono l’assenso della ragione; ma non la normale ragione logico-scientifica, non la ragione strumentale e discorsiva, bensì la ragione che viene illuminata dalla fede. Singolare circuito virtuoso: la fede ha bisogno della ragione, ma la ragione ha bisogno della fede. Non si tratta di una contraddizione, ma di una complementarità: la fede cristiana è fede in qualcosa, in una serie di verità che chiedono l’assenso della ragione; la ragione, tuttavia, per poterle comprendere e dare il suo assenso, deve innalzarsi al si sopra del suo livello ordinario, deve compiere un salto di qualità e lasciarsi illuminare da qualcosa che è ad essa superiore, la fede. Il nodo del mistero è nella fede, non nella ragione: perché la fede scende dal’alto, è un dono di Dio; e l’uomo la può chiedere, ma non la può pretendere. Abbiamo la garanzia di Gesù che, a chi la cerca sinceramente e instancabilmente, la fede verrà donata: Cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto, chiedete e vi sarà dato. Però non basta la perseveranza, ci vuole anche l’umiltà: nulla trova chi cerca con superbia e chi bussa con alterigia: sia per trovare che per ricevere, è necessario rivestirsi di umiltà e semplicità, farsi piccoli come i bambini, cioè, in altre parole, abbandonare la pretesa di sapere già, o di essere degni di capire, perché, umanamente parlando, noi non siamo degni di niente, né meritevoli di nulla. Quante anime superbe abbiamo visto rimanere deluse nella ricerca di Dio: e disïar vedeste sanza frutto / tai che sarebbe lor disio quetato, / ch’etternalmente è dato lor per lutto (Dante, Purgatorio, III, 40-42); e ciò perché si sono scordaste le chiarissime, inequivocabili parole del divino Maestro: Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te. Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare (Matteo, 11, 25-27).
Non c’è niente da fare: per trovare la fede, è necessario deporre l’orgoglio: solo a tale condizione Dio si rivela al cuore umano, ed esalta quanti si sono arresi a Lui. Chi non sa liberarsi del proprio orgoglio, non troverà Dio, perché Dio è un Signore geloso, che non vuol fare a metà con alcuno nel dominio della nostra anima: ci vuole tutti per Sé, per potersi dare a noi. Sia Gesù, sia gli Apostoli, non hanno mai cessato di fare questa raccomandazione: per seguire Cristo è necessario spogliarsi della dura corazza del proprio orgoglio. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore (Matteo, 11, 29). E san Giacomo, nella Lettera che porta il suo nome (4, 1-10), con argomentazione ancor più circostanziate: Da dove vengono le guerre e le liti che sono in mezzo a voi? Non vengono forse dalle vostre passioni che fanno guerra nelle vostre membra? Siete pieni di desideri e non riuscite a possedere; uccidete, siete invidiosi e non riuscite a ottenere; combattete e fate guerra! Non avete perché non chiedete; chiedete e non ottenete perché chiedete male, per soddisfare cioè le vostre passioni. Gente infedele! Non sapete che l’amore per il mondo è nemico di Dio? Chi dunque vuole essere amico del mondo si rende nemico di Dio. O forse pensate che invano la Scrittura dichiari: «Fino alla gelosia ci ama lo Spirito, che egli ha fatto abitare in noi»? Anzi, ci concede la grazia più grande; per questo dice: "Dio resiste ai superbi, agli umili invece dà la sua grazia". Sottomettetevi dunque a Dio; resistete al diavolo, ed egli fuggirà lontano da voi. Avvicinatevi a Dio ed egli si avvicinerà a voi. Peccatori, purificate le vostre mani; uomini dall’animo indeciso, santificate i vostri cuori. Riconoscete la vostra miseria, fate lutto e piangete; le vostre risa si cambino in lutto e la vostra allegria in tristezza. Umiliatevi davanti al Signore ed egli vi esalterà.
Dunque: la ragione chiarisce la fede, per mezzo della filosofia e della teologia, ma solo a condizione di essere illuminata dalla fede, cioè solo a condizione di riconoscere la propria impotenza e il proprio limite. Da una situazione che, umanamente parlando, è di scacco, di impossibilità, un vero e proprio circolo vizioso, si origina il circuito virtuoso che viene da Dio e che permette all’uomo di superare il proprio limite: perché l’uomo, in quanto uomo, cioè con le sue sole forze, non possiede i mezzi per elevarsi fino alla Verità: ma non eran da ciò le proprie penne: / se non che la mia mente fu percossa / da un fulgore in che sua voglia venne (Dante, Par., 139-141). La ragione umana è il più nobile attributo, che rende unica la nostra condizione nell’insieme del creato; ma, come suole accadere, se non è sorvegliata dalla volontà e se non sa inginocchiarsi umilmente davanti a ciò che la sorpassa infinitamente, ossia la Verità divina, questo ornamento si può trasformare nella nostra maledizione. Potremmo fare una similitudine con l’attributo della bellezza, che, specialmente nella donna, è un superbo ornamento e una dote impagabile, ma che diviene pietra d’inciampo in chi non la sa indossare in maniera conveniente, in chi, cioè, per dominare gli altri, se ne lascia dominare, cadendo nel narcisismo più grossolano e puerile. A quel punto, infatti, cadono tutti i veli e chiunque può vedere che la bellezza, non sostenuta da una coscienza matura, mostra da sé tutti i propri limiti e finisce per apparire qualcosa di goffo, di sgradevole, e, in definitiva, di brutto. Questo accade perché anche la bellezza è soggetta alla legge dello spirito, e non ha in se stessa forza sufficiente per imporre al mondo la propria legge: se tradisce la propria missione, rivela a tutti la sua insufficienza, la sua limitatezza e il suo stesso limite intrinseco; se non altro, per ragioni meramente fisiologiche: quanto dura e si conserva, la bellezza, se non è sostenuta da una forza spirituale? Ebbene, lo stesso ragionamento si può fare per l’intelligenza umana: è un ornamento superbo della nostra condizione, tuttavia non è un valore in se stesso, ma solo uno strumento: lo strumento per avvicinarsi alla verità. Se, da strumento, pretende di adorare se stessa, e di farsi adorare dagli altri; se pretende di stabilire da sé che cos’è la verità, uscendo dai suoi limiti e ingannando il proprio statuto ontologico, finisce per rendersi ridicola, per precipitare dalle superbe altezze ove si era spinta, e per mostrare a tutti la miseria di una pretesa tanto superba quanto ingiustificata.
Il rapporto tra fede e ragione è stato chiarito in maniera esemplare dal massimo pensatore cristiano di tutti i tempi, san Tommaso d’Aquino: la ragione è autonoma e ha le sue vie, ma non può arrivare a comprendere tutto; essa è solo una ancilla, una umile serva nei confronti della fede. E ne avessimo ancora di menti speculative come la sua, invece di tutti questi Teilhard, Rahner, De Lubac, Küng, Congar, Schillebeeckx, Kasper, seminatori d’innumerevoli errori perché dominati, dal primo all’ultimo, da una superbia tutta umana, da una pretesa tutta umana di aver capito il Vangelo più e meglio di ogni precedente generazione, e perciò di aver il dovere, e forse anche il diritto, di ri-orientare la Chiesa nel senso della "vera" comprensione della Parola di Dio. Che cosa faceva, invece, san Tommaso, quando non riusciva a trovare, nelle sue categorie razionali, le risposte ad alcuni interrogativi particolarmente ardui? Posava la penna sul foglio, correva in chiesa e si metteva a pregare e supplicare, ai piedi del Santissimo, affinché Dio gli rivelasse la sua santa Verità. Stava lì, inginocchiato, se necessario tutta la notte (a proposito, qualcuno ha visto il signor Bergoglio inginocchiarsi davanti al Santissimo, qualche volta, e con lui tutti i suoi cardinali, vescovi e preti "di strada", per non parlare dei suoi teologi e filosofi di riferimento?); abbracciava l’altare e continuava a domandare insistentemente a Dio che illuminasse la sua mente. E la sua mente, se ci è concesso questo giudizio personale, funzionava forse meglio, e sapeva pensare più in grande, di quanto non accada con i teologi della "gloriosa" stagione postconciliare. I quali, crediamo, saranno ricordati, nei secoli a venire, quando la Verità sarà stata ristabilita e questo momento di confusione e sbandamento sarà stato superato, cosa in cui crediamo fermamente, come i cattivi maestri che, ubriacatisi ai fumi della loro umana superbia, hanno svolto una pessima funzione nello spingere verso l’errore un numero incalcolabile di anime, e, quel che è più grave ancora, se possibile, nel voler spingere la Chiesa stessa fuori dal solco tracciato per lei dal Signore Gesù Cristo. Ricordiamo le severe parole d’ammonimento di san Paolo ai cristiani della Galazia (Galati, 1, 6-10): Mi meraviglio che così in fretta da colui che vi ha chiamati con la grazia di Cristo passiate ad un altro vangelo. In realtà, però, non ce n’è un altro; solo che vi sono alcuni che vi turbano e vogliono sovvertire il vangelo di Cristo. Orbene, se anche noi stessi o un angelo dal cielo vi predicasse un vangelo diverso da quello che vi abbiamo predicato, sia anàtema! L’abbiamo già detto e ora lo ripeto: se qualcuno vi predica un vangelo diverso da quello che avete ricevuto, sia anàtema! Infatti, è forse il favore degli uomini che intendo guadagnarmi, o non piuttosto quello di Dio? Oppure cerco di piacere agli uomini? Se ancora io piacessi agli uomini, non sarei più servitore di Cristo!
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