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Lutero, quel testone sospettoso e carico di angosce

Se, oggi, uno storico di parte cattolica si permettesse di definire Lutero una testa dura, piena di sospetti e di sinistre angosce, forse ad insorgere con maggiore veemenza contro di lui non sarebbero i suoi colleghi protestanti, ma i cattolici progressisti, i bergogliani d.o.c., quelli, per intenderci, che hanno celebrato festosamente il felice evento della cosiddetta Riforma luterana emettendo francobolli, celebrando cerimonie miste e annunciando ai fedeli sbalorditi che quel che fece il frate agostiniano fu niente meno che un dono dello Spirito Santo. Lo accuserebbero di essere fazioso, partigiano, totalmente privo di senso della misura e di prospettiva storica, e lo bollerebbero come del tutto incapace di porsi in maniera obiettiva nei confronti del "grande" riformatore tedesco, di colui che ci è stato donato, cinquecento anni fa, direttamente dallo Spirito Santo, come ha brillantemente affermato monsignor Galantino: che è, per chi non lo sapesse, o per chi se ne fosse scordato, dal 2014 il segretario generale della C.E.I. Uno strano segretario, in verità, visto che dice simili cose; ma ne ha dette di non meno scandalose, nella sua brillante — si fa per dire — carriera di esegeta della Bibbia, come quando, davanti a un pubblico di giovani esterrefatti, ha sostenuto, senza batter ciglio, ed, evidentemente, senza alcun timore di restare fulminato sull’istante, che Dio non distrusse, ma risparmiò Sodoma, la città i cui abitanti erano interamente dediti al vizio contro natura: quel vizio che Santa Caterina da Siena aveva definito così: il maledetto peccato che fa schifo persino ai demoni. Dunque, se uno studioso cattolico definisse Lutero un testone sospettoso e paranoico, sarebbero proprio i cattolici, beninteso quelli di sinistra, che ormai spadroneggiano ovunque dentro e fuori la Chiesa, a vendicare l’intollerabile affronto e a fare a pezzi il temerario: chi lo sa, per prima cosa andrebbero a spulciare il suo curriculum, lo troverebbero scarso, inadeguato, insufficiente; farebbero le pulci ai suoi titoli accademici, e sosterrebbero che deve trattarsi certamente di un incompetente, di un autodidatta, insomma di un dilettante allo sbaraglio, la cui opinione non conta nulla, perché negli ambienti accademici non sanno che farsene. E invece, sorpresa!, quella frase, indovinate un po’, non viene da uno storico italiano, e soprattutto non viene da un cattolico; viene da un professore tedesco di filologia classica, che divenne noto come uno dei maggiori filosofi del tardo XIX secolo, il figlio di un pastore luterano e che poi divenne ateo, ma alla sua maniera: un ateo estremamente intelligente, pieno di nostalgia per la bella fede cristiana, e diciamo pure per la bella fede cattolica, che era tramontata nei cieli della modernità, ma nei confronti della quale egli ebbe sempre, anche nel calor bianco della polemica, parole di stima e di rispetto, se non altro perché era un grande innamorato dell’Italia, della sua civiltà e della sua cultura. Stiamo parlando niente meno che di quel mangiapreti di Friedrich Nietzsche, che tutti conoscono, magari un po’ banalmente e superficialmente, e magari senza averlo mai letto sui testi originali, ma soltanto orecchiato su testi di seconda mano, come l’annunciatore della morte di Dio e come il cantore del Superuomo.

Sissignori: tale era il giudizio di Nietzsche sul suo connazionale Lutero; e proprio perché suo connazionale, e perché ottimo conoscitore della cultura tedesca e della psicologia tedesca – diciamo pure della Germania del Nord, quella dove si è radicato il luteranesimo – egli poteva capire Lutero assai meglio di qualsiasi storico o studiosi italiano, o, comunque, di nazionalità non tedesca; infatti, ne abbiamo già parlato in un precedente articolo, documentando tali affermazioni (cfr. Lutero? Non sapeva quel che faceva (Nietzsche), pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 22/04/2018). Nietzsche aveva esposto il suo punto di vista sul vero significato della riforma protestante ne La gaia scienza, al § 358. Ora, La gaia scienza è del 1882 e quindi precede immediatamente Così parlò Zarathustra, del quale costituisce la premessa logica e anche psicologica, che vide la luce fra il 1883 e il 1885. Ma almeno quattro anni prima, nel 1878, con Umano, troppo umano, Nietzsche aveva già espresso, motivandolo, un giudizio molto simile su Lutero, a proposito di un evento storico ben preciso: i colloqui di Ratisbona del 1541 e del 1546. Forse non sono in molti, fra il grande pubblico, a sapere che, dopo la rivolta di Lutero, ma prima della convocazione del Concilio di Trento, ebbero luogo dei febbrili contatti fra le due parti, la cattolica e la riformata, per giungere a un accordo che salvasse l’unità della Chiesa e la tranquillità della cristianità tutta; colloqui nel corso dei quali si distinse, per abilità e intelligenza, il legato papale Gasparo Contarini, un veneziano di notevole cultura (1483-1542), il quale ce la mise davvero tutta, ormai vicino alla morte, per strappare un documento che potesse essere condiviso; e fu sciagura immensa che, dall’altra parte, vi fosse una testa dura come quella di Lutero, il quale all’ostinazione e alla scarsa comprensione di quale fosse realmente la posta in gioco (non sapeva quel che faceva, ha osservato lapidariamente Nietzsche) era anche turbato e tormentato da sospetti e ansie di tipo patologico, che ne offuscavano del tutto la capacità di giudicare obiettivamente e serenamente uomini e cose. Quel che l’italiano di media cultura sa, o crede di sapere, a proposito della presunta irreparabilità della scissione dei cristiani in due campi contrapposti, proviene, forse, da qualche reminiscenza di liceo riguardo alla Istoria del Concilio Tridentino di Paolo Sarpi, un cattolico modernista e progressista ante litteram, il quale ha cercato, tendenziosamente, di far ricadere sul papato tutta la responsabilità dello scisma. Invece i colloqui di Ratisbona, e specialmente il primo, quello del 1541, ove rifulsero il genio e la buona volontà del Contarini, e, dietro di lui, del papa Paolo III, dimostrano che tale impressione è sbagliata e che, se davvero i luterani fossero stati interessati a raggiungere un compromesso, ciò sarebbe stato possibile, perché nulla avrebbe potuto impedire ai sei partecipanti, tre teologi cattolici e tre luterani, di addivenire a una ragionevole intesa, se i rappresentanti della Lega di Smalcalda non avessero esercitato fortissime pressioni affinché le trattative finissero per approdare a un nulla di fatto.

Riteniamo che valga la pena di riportare integralmente la riflessione svolta da Nietzsche, a questo proposito, in Umano, troppo umano, in un paragrafo da lui intitolato, assai eloquentemente, Tragicommedia di Ratisbona (concetto poi ribadito e rafforzato dalla ulteriore espressione: farsa raccapricciante, affinché nessuno pensi che quel titolo gli era scivolato dalla penna in un momento di malumore; vol. 1, parte I, § 226; traduzione di Sossio Giametta e Mazzino Montinari, Milano, Adelphi, 1967, e Mondadori, 1970, vol. 1, pp. 84-85):

Qua e là si può vedere con spaventosa chiarezza la farsa della Fortuna, come essa in pochi giorni, in un solo luogo, annodi alle condizioni e alle opinioni di una mente una coda, su cui vuol far danzare i secoli che verranno. Così il destino della storia moderna tedesca dipende dai giorni della disputa di Ratisbona: il pacifico esito delle cose religiose e morali, senza guerra di religione, senza Controriforma, sembrava garantito, così anche l’unità della nazione tedesca; il senno profondo e mite di Contarini aleggiò per un momento sulla gazzarra teologica, vittorioso, come rappresentante della più matura religiosità italiana, che rifletteva sulle sue ali l’aurora della libertà spirituale. Ma la dura cervice di Lutero, piena di sospetti e di sinistre angosce, si oppose: poiché la giustificazione mediante la grazia gli appariva come la SUA più grande scoperta e divisa, egli non credé a questa proposizione in bocca a Italiani: mentre questi ultimi, com’è noto, l’avevano trovata e diffusa senza il minimo fracasso in tutt’Italia, già molto tempo prima. Lutero vide in quest’apparente concordanza le malizie del diavolo e ostacolò come poté l’opera di pace: facendo in tal modo avanzare di un buon tratto le mire dei nemici dell’Impero.

Si consideri inoltre, per aver ancora più un’idea di questa farsa raccapricciante, che nessuna delle proposizioni, su cui allora si disputò a Ratisbona, né quella del peccato originale, né quella delle redenzione vicaria, né quella della giustificazione per fede, sono in un qualsiasi modo vere e hanno anche solo a che fare con la verità, che esse tutte sono oggi riconosciute come non degne di discussione: e tuttavia per esse il mondo venne messo a fuoco, cioè per opinioni a cui non corrisponde assolutamente una cosa o realtà; mentre riguardo a questioni puramente filologiche, come per esempio quella dell’interpretazione delle parole della consacrazione eucaristica, una discussione è per lo meno consentita, perché qui si può dire la verità. Ma dove non c’è niente, ivi anche la verità ha perduto il suo diritto.

Da ultimo non resta da dire altro se non che allora sono comunque sgorgate delle SORGENTI DI ENERGIA così potenti, che senza di esse tutti i mulini del mondo moderno non girerebbero con ugual forza. E innanzitutto conta l’energia e solo dopo la verità; o anche dopo per lungo tempo no — vero, miei cari contemporanei?

Non soffermiamoci, qui, sui giudizi specifici di Nietzsche a proposito delle questioni teologiche delle quali si discusse a Ratisbona, e lasciamo a lui solo la responsabilità del giudizio severissimo che esprime a proposito di esse. Così pure, vediamo bene che la sua deplorazione per il fallimento dei colloqui di Ratisbona nasce più da considerazioni di ordine politico e storico generale, che non di ordine strettamente teologico e religioso: ciò che egli lamenta è la fatale divisione, e perciò l’indebolimento, del Sacro romano impero germanico; il fatto che altri (leggi: la Francia) ne profittò a proprio vantaggio; la pace dell’Europa e l’unità della cultura e della civiltà europea, che ne soffrirono atrocemente, specie con la Guerra dei trent’anni. Resta, in ogni caso, il giudizio di fondo, così tranchant che sarebbe difficile immaginarne uno più severo: Lutero era un testone che non riusciva nemmeno a vedere tutta la portata di quel che stava facendo, e quali ne sarebbero state le disastrose conseguenze, sia per il cristianesimo, sia per la Germania ed il popolo tedesco e sia, infine, per l’intero continente europeo. La conclusione è impietosa e senza appello: Lutero non sapeva quel che faceva, la sua cosiddetta riforma nasce da una religiosità immatura e da un carattere paranoico, quasi isterico, oltre che una sorta di furore anti-italiano dai tratti quasi razzisti: qualsiasi parola in bocca a un italiano, osserva acremente Nietzsche, anche se suonava quasi eguale alle parole di Lutero, doveva per forza nascondere una qualche insidia, e perciò provenire dal diavolo. Qui c’è veramente tutto Lutero: il vero Lutero, e non quello che — paradossalmente — ha costruito l’immaginazione dei cattolici neomodernisti e filo-protestanti, che l’hanno idealizzato come si fa con un ex amante generoso ma, purtroppo, a suo tempo incompreso. Lutero era un sanguigno, un collerico e un iracondo; uno che si scaldava e s’infuriava al suono della sua stessa voce; uno che avrebbe voluto sbranare, distruggere, annientare gli avversari, ed era costituzionalmente incapace di mediare o di fare il minimo sforzo per mettersi nella prospettiva degli altri. In breve, era un malato di egotismo e perciò apparteneva a quella razza d’uomini i quali piuttosto si spezzano, ma non si piegano, non per una fedeltà a dei principi e a dei valori di ordine superiore, ma per un orgoglio smisurato e per una assoluta indisponibilità a riconoscere i propri eventuali difetti od errori. Per giunta, convinto di avere una speciale missione divina da compiere, egli era assolutamente incapace di fermarsi a riflettere, di riprendere fiato e tacere, osservando e soppesando le situazioni: una forza poderosa, compulsiva, implacabile, lo spingeva sempre più avanti, a fare gesti e a pronunciare frasi sempre più irreparabili, sempre più irreversibili, alzando continuamente la posta in gioco e, nello stesso tempo, abbandonandosi agli eccessi d’incontinenza di un piccolo despota, persuaso di essere unico e insostituibile, il solo capace di potare a termine una missione di decisiva importanza affidatagli da Dio stesso.

Certo, lo sappiamo: la storia non si può, né si deve fare coi cosa sarebbe successo se… Tuttavia, è legittimo, e anzi doveroso, studiarla con occhio critico, cioè non come se attraverso di essa parlasse lo Spirito Assoluto di hegeliana memoria (lasciamo simili divertimenti ai marxisti di tutte le tendenze e le varianti: incredibile ma vero, ce ne sono ancora in giro). E allora ecco che Lutero, guardato da vicino, appare alquanto ridimensionato rispetto alla vulgata oggi corrente anche fra i cattolici: un pover’uomo, in fondo; un superbo, un lussurioso e un egocentrico, che non ascolta nessuno, che ha rispetto solo per le proprie idee, e al quale — come a Hitler, quattro secoli dopo — non importa se, per realizzare il suo sogno, bisogna ridurre la Germania ad un cumulo di rovine, cosa che ha inizio fin da subito, cioè fin dalla rivolta dei cavalieri del 1522 e dalla guerra dei contadini del 1525. Ma non solo la Germania, anche l’Italia e l’Europa verranno messe a ferro e fuoco (il sacco di Roma è del 1527: appena dieci anni dopo le 95 tesi, e per opera di un esercito imperiale formato in gran parte da luterani arrabbiati). Per uomini di una tal natura, neanche milioni di morti possono far sorgere lo scrupolo che, forse, esiste un’altra strada da battere. No, loro non si piegano: che importano i fiumi di sangue versato, se essi riescono a far girare la ruota del destino?

Fonte dell'immagine in evidenza: Immagine di pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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