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24 Maggio 2018Ludwig Wittgenstein è stato il filosofo che ha posto maggiore attenzione al problema del linguaggio e ha meglio definito il carattere convenzionale e ideologico che esso può rivestire, con tutti i rischi che ne conseguono. Ha osservato Anthony J. P. Kenny nella sua monografia Wittgenstein (titolo originale: Wittgenstein, Londra, 1973; trad. dall’inglese di E. Moriconi, Torino, 1984, pp.28-30):
Nelle "Ricerche" Wittgenstein insiste sul fatto che le parole non possono essere comprese al di fuori del cotesto delle attività umane non linguistiche in cui è immerso l’uso del linguaggio: il gioco linguistico è costituito dalle parole più il loro contesto comportamentale. Le parole sono strumenti: a parole diverse corrispondono funzioni diverse, proprio come succede per una sega o un cacciavite. Ma questa diversità di funzioni viene occultata dal fatto che le parole, sia pronunciate sia stampate, presentano un aspetto uniforme.[…]
Lo studio dei giochi linguistici mostra che non tutte le parole sono nomi; e che anche il nominare non è poi così semplice come sembra. Per dare un nome a qualcosa non è sufficiente trovarsi di fronte a questo qualcosa ed emettere un suono: chiedere come si chiama una cosa e decidere di chiamare le cose in un ceto modo sono operazioni che possono essere compiute solo nel contesto di un gioco linguistico. […]
Supponiamo che io voglia battezzare una mia privata sensazione con il nome "S". Concentro la mia attenzione sulla sensazione per collegarla al nome. Qual è il riscontro di tutto ciò? La prossima volta che vorrò usare il nome "S", come farò a sapere se lo starò usando correttamente? Poiché abbiamo assunto che la sensazione a cui vogliamo dare un nome è una delle mie sensazioni private, nessun altro può controllare l’uso che io faccio di questo nome. Ma non posso farlo neppure io per me stesso. Infatti, prima che io possa controllare se è vero che "Questo è S", è necessario che conosca qual è il significato che attribuisco all’enunciato "Questo è S", vero o falso che sia. Ma allora, come faccio a sapere che ciò che ora intendo con "S" è la stessa cosa che avevo in mente quando battezzai "S" la prima sensazione? Posso fare ricorso alla memoria? No; per far questo, infatti, devo ricorrere alla memoria giusta: per chiamare in causa il ricordo di S devo già sapere che cosa significa "S". Non esiste, in definitiva, alcun controllo del mio uso di "S", alcuna possibilità di correggere un qualsiasi cattivo uso. Questo significa che parlare di "correttezza" è fuor di luogo, e dimostra anche che la definizione privata che io stesso ho dato non è una vera definizione.
Questa argomentazione costituisce uno dei filoni principali del famoso attacco che Wittgenstein rivolse contro i linguaggi privati. La conclusione dell’attacco è che non può esistere un linguaggio le cui parole si riferiscano a ciò che può essere conosciuto solo da chi parla il linguaggio.
Chi è intellettualmente e moralmente onesto parla, come dicevano i pellerossa, con lingua dritta: sia il vostro parlare sì, sì, e no, no, diceva anche Gesù Cristo; perché il di più viene dal diavolo. Chi è disonesto, parla con lingua biforcuta: adopera le parole con una riserva mentale: che esse valgano non nel loro significato oggettivo, ma nel significato che essi attribuiscono loro, e non importa se si tratta di un significato puramente ideologico, vale a dire lontanissimo dalla realtà, e perfino opposto ad essa. Prendiamo, per fare un esempio, la parola omosessualità. Ma quale omosessualità, bisognerebbe immediatamente insorgere, ogni volta che qualcuno si azzarda a usare questa parola; l’omosessualità non esiste. Infatti la sessualità è sempre una faccenda del sesso maschile e del sesso femminile: essa descrive l’incontro delle due sessualità complementari, atta a trasmettere la vita. Sessualità è quindi sinonimo di fecondità: è sessuale ciò che, almeno potenzialmente, trasmette la vita; quindi l’incontro di un gamete maschile e di un gamete femminile. Nell’incontro, chiamiamolo così, di due individui del medesimo sesso, non vi è fecondità, perché non vi è sessualità; vi sarà, semmai, omofilia, o, se si preferisce, omoerotismo. Ma non omosessualità: già il fatto di adoperare questa parola equivale a una indebita concessione verso l’ideologia omosessualista, il cui obiettivo, peraltro apertamente dichiarato, è di inculcare in tutti l’idea che l’orientamento omosessuale, o bisessuale o transessuale, vale tanto quanto l’orientamento eterosessuale. Quei signori ricorrono al concetto di "orientamento" proprio perché non possono appoggiare i loro ragionamenti, se così li vogliamo chiamare, sul dato, solido e certo, del genere; perché i generi sono due, c’è poco da fare: maschile e femminile; e devono essere proprio questi due affinché si possa parlare di sessualità e affinché abbia luogo la riproduzione. Tutte le altre modalità di riproduzione sono una beffa alla natura e un artificio, più o meno vergognoso, che va dalla cosiddetta fecondazione eterologa alla pratica dell’utero in affitto. Tutte si basano su un sistema ormai diffuso, ma di per sé immorale e ripugnante: quello del prelievo di embrioni già fecondati e della loro conservazione, sotto zero, nelle cosiddette banche genetiche. Questi embrioni congelati al primissimo stadio di sviluppo sono un insulto a Dio e agli uomini; ma nessuno ha mai sollevato il problema, e del resto i legislatori hanno altre cose, ben più importanti, delle quali occuparsi, per esempio la legalizzazione delle unioni omofile, oppure quella dell’eutanasia, anche nei confronti di soggetti minorenni, cioè di bambini abbandonati alla mercé degli adulti: genitori, giudici e medici ospedalieri, come si è visto, recentemente, nel caso del piccolo Alfier Evans e, prima di lui, del piccolo Charlie Gard.
Ad ogni modo, visto che la parola omosessualità è ormai da tempo penetrata nel linguaggio comune e visto, soprattutto, che essa non implica alcun giudizio di valore, positivo o negativo, continuiamo pure ad usarla, pur sapendo che si tratta di una moneta truccata: se si sa di avere nel portafogli una banconota falsa, infatti, si sta attenti a come spenderla, per non vedersela rifiutare dal negoziante o dal benzinaio. Ma ci sono molte altre parole ancor più disoneste, ancor più truffaldine, che non bisogna assolutamente accettare, perché il solo fatto di adoperarle equivarrebbe a una resa nei confronti della ideologia di cui esse sono il veicolo. Una di queste, per restare in tema, è la parola gay: parola inglese, ma non fa niente, ormai il vocabolario della lingua italiana è pieno di parole inglesi perfettamente inutili, perché esiste il loro equivalente nostrano, solo che usare quelle fa più chic, almeno per gli intellettuali pieni di complessi d’inferiorità come sono i signori del politically correct (il linguaggio della scuola e della pedagogia, per esempio, è letteralmente invaso e perfino intasato di parole inglesi che si potrebbero benissimo sostituire con le corrispondenti parole italiane, ma che sono state imposte dai signori della neolingua come atto di zelo servile nei confronti dei poteri internazionali dominanti). La parola gay è una vera e propria beffa: significa gaio, allegro, e quindi implica un giudizio di valore di segno positivo. Dire gay, quindi, invece di omosessuale, è come dire: gay è bello; equivale a una dichiarazione d’intenti e, nello stesso tempo, a un atto di propaganda. Proprio quello che sottintendono quei signori, i padroni della neolingua, i fautori della omosessualizzazione della nostra società, Chiesa cattolica compresa. Pertanto chi non è d’accordo che gay è bello, e chi nutre forti dubbi sul fatto che le persone omosessuali siano, perciò stesse, anche gaie ed allegre, o che lo sia la loro vita, non dovrebbe mai adoperare la parola gay per definire un persona omosessuale, perché, se lo fa, si mette automaticamente in una posizione di debolezza, che è anche intrinsecamente contraddittoria. Non si può sottintendere che gay è bello e poi sollevare delle obiezioni al riguardo; si farebbe una battaglia di retroguardia. Da parte nostra, riteniamo che la parla giusta da usare sia invertito, perché l’omosessuale è una persona in cui il normale richiamo verso l’altro sesso ha subito una inversione, il più delle volte per un trauma infantile che si può, a certe condizioni, risanare, purché ci sia la volontà di intraprendere un cammino di terapia ripartiva: cosa che di certo non avverrà se si parte dal presupposto, puramente ideologico, che gay è bello, ci si vanta della propria inversione e si va a sfilare mezzi nudi, baciandosi e abbracciandosi con altri individui dello stesso sesso, nelle sfilate dei Gay Pride, espressione che significa, appunto, Orgoglio omosessuale, cioè, traduciamo noi, orgoglio degli invertiti, oppure orgoglio dei sodomiti. "Sodomiti" infatti è l’altra parola che designa esattamente la condizione omosessuale, se si fa riferimento all’ambito religioso; perché così vengono definiti nella Bibbia. Vedete la differenza nell’effetto psicologico che produce l’uso di questa o quella parola? Dire orgoglio gay, fa venire subito in mente qualcosa di bello, qualcosa di fiero e nello stesso tempo di festoso; ma dire orgoglio degli invertiti, oppure orgoglio dei sodomiti, descrive la squallida realtà di un tipo umano che pretende di vantarsi di ciò di cui si dovrebbe vergognare, e che offre di sé uno spettacolo penoso, raccapricciante, grottesco. Non sono forse penosi, raccapriccianti e grotteschi due uomini villosi, tatuati e borchiati, barbuti e trucidi, che si brancicano, si avvinghiano, vestiti, o meglio spogliati, in calze trasparenti e biancheria intima femminile, e montati su un carro, oppure avvolti in una nube di palloncini colorati? Sì: è semplicemente orribile. Ma non si può dirlo, perché s’incorre in un’altra parola tabù: omofobia. E non solo non si può dirlo; per allontanare da sé ogni sospetto, bisogna sfilare, al seguito dei sindaci progressisti, ogni qualvolta quei signori organizzano una delle loro raccapriccianti sfilate. E non basta ancora: se si è cattolici, bisogna recarsi in chiesa, alla presenza del vescovo, per partecipare alle veglie "di preghiera" contro l’orribile peccato della omofobia: un undicesimo comandamento che qualcuno ha inserito accanto agli altri dieci mentre eravamo un po’ distratti, o almeno questo è quel che vien fatto di pensare, visto che nessuno di noi se n’era minimamente accorto. Ma così è: una mattina ci siamo svegliati e abbiamo appreso che esiste l’undicesimo comandamento, non opporti all’ideologia omosessualista; e che chi infrange questo nuovo comandamento dovrà vedersela con i preti e i vescovi in questa vita, e forse anche col Signore Iddio nel’altra. Anche se non ci risulta che Gesù Cristo abbia mai parlato in questi termini, e meno ancora san Paolo o gli altri autori del Nuovo Testamento; e neppure i Padri della Chiesa e i grandi teologi cattolici (i nuovi teologi sì, però, bisogna ammetterlo; a partire dal Vaticano II, un numero crescente di teologi progressisti ha cominciato a sdoganare l’inversione sessuale e a concedere una benevola attenzione nei confronti del peccato di sodomia).
E qui decisamente bisogna ribellarsi. Accettare e subire la parola omofobia significa anche accettare e subire il concetto che essa esprime: che è un concetto biforcuto, menzognero e perfido. In pratica, esso capovolge la frittata e presenta come un mostro di meschinità, chiusura e bigottismo chi osi esprimere dubbi o perplessità circa l’ideologia del gay è bello, o anche soltanto chi osi dare per scontato che un bambino, per esempio, dovrebbe avere un papà e una mamma, e non due papà, e che osi interrogare il pargoletto per sapere cosa fanno, di mestiere, il suo babbo e la sua mamma. A quel punto, i campioni dell’ideologia omosessualista scatteranno infuriati, digrignando i denti, e lanceranno una raffica di querele contro l’intollerabile atto di omofobia: come osate domandare a un innocente bambino chi sono il suo papà e la sua mamma? Volete forse insinuare che quel bambino non può avere benissimo due papà, oppure due mammine? Volete forse insinuare che gay è brutto, che gay è impresentabile? Ebbene, ne risponderete in tribunale. Il disegno di legge relativo giace da tempo in parlamento, ma non dubitiamo che, prima o poi, com’è accaduto per la legge Cirinnà, finirà per essere approvato, e allora cominceranno i tempi grami per chi oserà ragionare, e parlare, alla vecchia maniera; per chi non si sarà adeguato alla neolingua, ideologicamente orientata e strumentalizzata, piegata a servire gli scopi delle lobby omosessualiste: ben decise a rifare i cervelli, come diceva Galilei, cioè a ridisegnare la nostra mappa concettuale e perfino il nostro senso estetico e morale. E che nessuno si aspetti maggior clemenza dal clero rispetto agli amici laici del disegno di legge Scalfarotto: i neopreti della neochiesa saranno i primi a non aver pietà, a scagliarsi contro i cattolici gretti, oscurantisti e tradizionalisti (altra parola-truffa), se costoro vorranno ancora sostenere che una vera famiglia è formata da un papà, una mamma e dei bimbi. Infatti, possiamo testimoniare personalmente quanto sono misericordiosi i neopreti della neochiesa e come, per loro, querelare a raffica chiunque contrasti i loro disegni, i loro discorsi e le loro parole, sia una pratica del tutto normale ed, evidentemente, del tutto cristiana. Per il neoclero, la scorta di misericordia si esaurisce nei confronti di luterani, giudei, islamici, atei, massoni, comunisti e radicali: quando si arriva ai fratelli cattolici, è già finita da un pezzo, a meno che si tratti di cattolici progressisti, cioè di modernisti travestiti da cattolici (ecco di nuovo il discorso sulle parole: perché il modernista non è un cattolico, ma un eretico), oppure, meglio ancora, di sedicenti omosessuali cristiani, con la benedizione di qualche prete sul tipo di don Cugini a Reggio Emilia, o don Scordato a Palermo, o don Carrega a Torino, o di cento altri simili a loro, con tanto di vescovi dialoganti e misericordiosi al seguito. Facciamo perciò attenzione: che nessuno c’imbrogli colle parole al gioco del linguaggio…
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