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24 Maggio 2018La morte è più "poetica" della vita; diceva Leopardi che pochi soggetti sono più patetici di una bella donna morta giovane; molti film e romanzi del genere fantasy sono ambientati in una civiltà al tramonto; e quando, ai primi del ‘900, divampò fra gli scienziati, e ben presto si trasferì sui mezzi d’informazione, la querelle sui cosiddetti canali di Marte, l’immaginazione di molte persone fu colpita dall’idea di una civiltà marziana che lottava disperatamente per sopravvivere, scavando giganteschi canali d’irrigazione per contrastare la desertificazione di quel pianeta. Il crepuscolo di un mondo ha un suo particolare fascino: dalla Roma del basso Impero, alla Venezia della decadenza, all’Austria felix degli ultimi anni di Francesco Giuseppe; e, d’altra parte, gli uomini si sentono interrogati in prima persona dalla domanda se la civiltà cui appartengono possa sopravvivere. Le filosofie della storia di Spengler e di Toynbee sono state costruite per tenta di rispondere a questa domanda: che, evidentemente, ha a che fare non solo col futuro,m ma anche con l’orizzonte di speranza della nostra vita presente. Fa differenza, infatti, sapere che la nostra civiltà sopravvivrà abbastanza da accogliere i nostri figli e i nostri nipoti, oppure pensare che essa è sull’orlo della dissoluzione e che le prossime generazioni vivranno nel momento più drammatico, quello della fine di un mondo, senza alcuna certezza se ne nascerà un altro. L’invenzione e il pronto uso della bomba atomica, nel 1945, di due città inermi, ha inaugurato l’era del terrore nucleare; da quel momento, nessuno può ignorare il fatto che l’intera umanità potrebbe autodistruggersi a causa di un conflitto fra le potenze atomiche, e, anche se ci si sforza di non pensarci, quella consapevolezza giace nel sub-conscio e condiziona, più di quel che non appaia, le nostre vite. Il crollo della natalità nei Paesi occidentali ha certamente a che fare con quella consapevolezza latente: molti adulti si sentono in colpa all’idea di mettere al mondo dei figli che potrebbero subire la sorte degli abitanti di Hiroshima e Nagasaki, o anche, "semplicemente", quella degli abitanti di Cernobyl o di Fukushima, cioè, anche senza che si arrivi a un vero conflitto atomico, nascere con delle gravi malformazioni o con una predisposizione alle malattie cancerogene a causa della presenza di scorie radioattive nell’atmosfera. Molte persone vivono in uno stato di depressione e di angoscia permanente, simile a quello del personaggio del film di Ingmar Bergman Luci d’inverno, Jonas Persson, un padre di famiglia ossessionato dalla bomba atomica dei cinesi e convinto che presto scoppierà una guerra nucleare, il quale finisce per suicidarsi.
Venendo alla nostra Italia, le statistiche ci informano che gli italiani detengono il primato sia nella decrescita demografica, sia nell’suo dei farmaci antidepressivi, dei quali fanno usi 11 milioni di persone, cioè più del 20% della popolazione: un dato quattro volte superiore alla media europea. Sono numeri che parlano da soli: gli italiani hanno perso la speranza e questo è il quadro desolane di una società che sta morendo. E tuttavia, prima di abbandonarsi allo sconforto, vale la pena di chiedersi se questi dati poggino su dei fatti reali, o se non siano, almeno in parte, il risultato di un gigantesco condizionamento psicologico, divenuto a sua vola un potentissimo fattore di autosuggestione: perché, se così fosse, allora la nostra fine non sarebbe un destino ma una scelta, e sul terreno delle scelte si possono sempre invertire, almeno a certe condizioni, i processi in atto. In realtà, l’idea che il mondo intero sia invecchiato e che la natura sia avviata sulla china di una incontrastabile decadenza, per l’esaurimento progressivo delle sue forze vitali, è molto antica ed è tipica delle civiltà spiritualmente e materialmente raffinate, giunte a interrogarsi sul senso della storia e sul ruolo complessivo svolto dalla natura nella vita dei popoli. Ne troviamo un riflesso nel De rerum natura di Tito Lucrezio Caro (II, 11501174, nel passo che qui riportiamo nella traduzione di Francesco Vizioli (Roma, Newton Compton, 2008, pp. 143-145):
Noi viviamo in un’epoca che si è fatta difficile
e la terra sostiene solo animali più piccoli:
lei, che ha portato nel grembo dei giganteschi bestioni.
Queste specie viventi non erano certo discese
con le funi dorate da qualche altissimo cielo
né vennero fuori dal mare o dai fiumi impetuosi
ma nacquero su questa terra quando poteva nutrirle:
essa ci reca le messi, fa crescere l’uva alla vigna,
nutre tutti i mortali in maniera spontanea,
ma oggi sembra che stenti: malgrado il grande lavoro
che fa sudare sui campi il contadino ed il bue
la lama del loro aratro si consuma più presto
ed in cambio il terreno produce sempre di meno.
Ogni vecchio colono sospira con animo triste
E scuote il capo pensando al lavoro di un tempo,
confrontando il raccolto con quello che aveva suo padre
e ritenendo che fosse un uomo assai fortunato.
Chi coltiva una vigna invecchiata ed avara
dà la colpa al terreno ed all’età delle piante
lamentando che altri, in anni assai più felici
traesse il suo nutrimento da campi molto più piccoli
ed a ciascuno bastasse soltanto un palmo di terra:
non si accorge che ovunque ogni cosa si logora
e si appresta a morire per la stanchezza di vivere.
Come adombra lo stesso Lucrezio nell’ultimo verso, il problema dell’inaridirsi della terra non ha una dimensione soltanto locale, dovuta magari all’esaurimento del suolo, ai disboscamenti selvaggi, alla pratica del pascolo estensivo, alla distruzione dell’humus per la mancata o insufficiente rotazione agricola, ma potrebbe avere una dimensione globale, addirittura cosmica: tutto ciò che esiste e che vive, dopo un certo tempo, inizia ad affaticarsi, a stancarsi, a logorarsi e ad esaurirsi. Ma si tratta di un dato reale o, appunto, di una percezione soggettiva, di una teoria filosofica non poggiante su alcuna valida base scientifica? È vero che tutte le cose, arrivate a un certo punto, sono prese da una sorta di stanchezza di esistere, e che tendono al proprio annullamento, magari affinché il ciclo di trasformazione della materia possa continuare, attraverso la distruzione degli enti, e così produrre l’esistenza di nuovi enti? Più che una ipotesi filosofica, più o meno mediata dall’atomismo di Democrito e dall’epicureismo, si direbbe una concezione poetica, indubbiamente carica di pathos, ma non dimostrata e indimostrabile. Il concetto di "vecchiaia", così come quello di "stanchezza", sono di origine umana, o, quanto meno, biologica; e, benché sia corretto parlare di un eventuale esaurimento del suolo, inteso come cessazione di fecondità della terra, nulla ci autorizza a estenderlo agli enti inanimati. E se qualcuno obiettasse che nell’universo non esistono degli enti inanimati, e che la Terra stessa è un essere vivente (vedi l’ipotesi Gaia), così come lo sono tutti i corpi celesti, stelle comprese, risponderemmo che questo, certo, in teoria è possibile, ma non si può sostenere un’ipotesi, per quanto interessante, per mezzo di un’altra ipotesi, perché ciò condurrebbe a un processo ad infinitum, assortamente inconcludente. Se si vuole arrivare da qualche parte, bisogna che le ipotesi si reggano su dei fatti acquisiti: solo così è possibile tentare di trasformarle in spiegazioni convincenti del reale. Ora, noi non abbiamo alcuna certezza sul fatto che le cose, per il fatto che esistono, invecchino e si consumino, se non l’osservazione empirica dei fenomeni fisici e le leggi dell’entropia, che si applicano sempre e solo al mondo fisico. Ma se fra le cose mettiamo gli esseri umani, sia come singoli individui, sia come popoli e civiltà, allora dobbiamo tener presente che essi non si riducono al loro mero essere biologico, ma che esiste in loro anche qualcos’altro, sulla cui natura esistono differenti scuole di pensiero, ma che, in ogni caso, non è riducibile puramente e unicamente alla dimensione materiale.
Giungiamo così alla conclusione che esistono tanto degli elementi per sostenere, quanti ve ne sono per porre in dubbio l’idea che il mondo sta invecchiando e che ha esaurito da tempo la sua energia vitale; e che dare la preferenza all’una o all’altra è in sostanza una questione di gusti personali, ovvero d’inclinazione psicologica nel segno del pessimismo o dell’ottimismo esistenziale. In altre parole, sentirsi gli abitanti d’un mondo che sta morendo, oppure di un mondo che sta attraversando una normale fase di evoluzione, per quanto — eventualmente — difficile, dipende, in ultima analisi, da ciò che si pensa di essere, dal giudizio che si tende a dare di se stessi, della propria vita e della realtà circostante. In ogni caso, non è un destino già scritto da qualche parte, ad esempio come può esserlo il destino dei passeggeri di una nave che abbia urtato contro un iceberg nel buio e nella nebbia, e che sia in procinto di affondare. E questo è vero anche per la singola società alla quale si appartiene, nel nostro caso per la società italiana, per il popolo italiano e per la nazione italiana, economia e cultura comprese. Possiamo appartenere ad un mondo morente, oppure no, ma quel che è certo è che il fatto di crederlo, o meno, esercita un peso decisivo nel determinare il nostro destino. Esperimenti molto precisi hanno dimostrato che fra dei pazienti d’ospedale sostenuti da una forte volontà di guarigione, e altri che non possiedono una tale volontà, esiste una differenza ben documentabile nella percentuale delle guarigioni: il decorso della malattia tende a essere più favorevole fra quanti sono decisi a guarire, mentre tende a rivelarsi infausto fra quanti sono scoraggiati, depressi o privi di ogni fede e di ogni riferimento positivo. Applicando questo schema al caso italiano, ricaviamo che le possibilità di una ripresa e quelle di un tracollo irreparabile sono affidate, almeno in una certa misura, al tipo di prospettiva che gli italiani, come comunità, tendono ad adottare, perché le società possono essere paragonate, in una certa misura, a dei super-organismi, un po’ come il formicaio o l’alveare. E, come abbiamo visto, l’incidenza dei casi di depressione, unita ai livelli del calo demografico, starebbero a indicare che gli italiani, come comunità, non hanno più fiducia nel futuro e hanno perso ogni speranza.
A questo punto bisogna domandarsi in base a quali fattori i membri di una comunità nazionale tendono a percepire se stessi, la propria situazione complessiva e le proprie speranze circa il futuro. Specialmente nelle società moderne, un ruolo decisivo è esercitato dai cosiddetti persuasori occulti, dai mass media, i quali hanno il potere di forgiare e, in parte, addirittura di creare gli stati d’animo collettivi, primo fra tutti il sentimento del proprio destino. Ora, esistono ragioni oggettive per pensare che la stampa, la televisione, il cinema, la letteratura, lo spettacolo, siano pesantemente influenzati, per non dire determinati, dalla strategia del potere finanziario, che si serve di una classe dirigente caratterizzata dall’aver scelto di servire gli interessi di quest’ultimo (cioè delle banche di Bruxelles e New York) e non i propri interessi nazionali: quelli del popolo italiano, dell’economia italiana e dello Stato italiano. Esiste, perciò, una convergenza fra la "narrazione" della realtà che la classe politica fa al popolo italiano, e quella che fanno i mass–media: ed entrambe non sono finalizzate a servire gli interessi dell’Italia, ma quelli del capitale finanziario internazionale. Per esempio, sia sul tema dell’euro, che su quello dei cosiddetti migranti, tanto la classe politica, quanto la stampa e la televisione raccontano i fatti in una versione tendenziosa, mirante a far digerire agli italiani delle scelte suicide dal punto di vista dell’interesse nazionale: l’assenso alla rinuncia alla sovranità monetaria in favore d’una moneta ‘europea’ che è essenzialmente tedesca, e l’inevitabilità di una continua invasione e sostituzione di popolazione, presentata come un fatto naturale e inarrestabile, dal quale, semmai, si possono ricavare perfino dei vantaggi. E siccome il disagio e l’insofferenza degli italiani stanno crescendo, e si rafforzano quelle forze politiche nelle quali si esprime la contrarierà alle scelte suicide degli ultimi governi, la stampa e la televisione, come pure la vecchia classe politica, moltiplicano gli sforzi per delegittimarle e rappresentarle come populiste, avventuriste e irresponsabili, e far credere che nel caso andassero al governo, l’Europa e il mondo non perdonerebbero l’Italia, responsabile di una tale "infedeltà" (rispetto a quali interessi?). Ecco allora che il presidente Mattarella, in teoria il supremo garante della sovranità nazionale, si permette di dichiarare, quando ancora sono in corso le consultazioni per formare un nuovo governo e dopo che gli italiani hanno sonoramente bocciato, col voto del 4 marzo 2018, i vecchi partiti, che nulla si può fare senza l’Europa. E invece l’Italia può farcela: purché si liberi dai servi di interessi estranei…
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