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Risuscitare la pietas per ricostruire la civiltà

Gli antichi lo sapevano, il lettore dell’Eneide lo sa bene, lo sapevano i nostri nonni quando ci insegnavano la devozione, il rispetto e la gratitudine verso Dio, verso la Patria e verso la Famiglia. Ma poi è arrivata la modernità; è partita da lontano, strisciando come una serpe, e infine è esplosa nel 1968, seminando macerie che tuttora ingombrano la nostra via: e una montagna di disprezzo si è abbattuta sulla triade Dio, Patria e Famiglia. Più in generale, il sentimento della pietas è stato ridicolizzato e praticamente distrutto; ora lo dobbiamo resuscitare, se vogliamo sopravvivere. Di fatto, non esiste civiltà senza la pietas: smarrire quest’ultima equivale a precipitare nella barbarie. Infatti, quella in cui viviamo non è una civiltà, ma una barbarie costituita.

Ecco una buona definizione del concetto latino di pietas (in: N. Flocchini-P. Guidotti Bacci, Percorsi scelti. Antologia di autori latini per il biennio, Milano, Bompiani, 2003, p 364):

Il sostantivo "pietas" è uno di quelli che continuamente ci ricordano come ogni traduzione sia sempre limitata, parziale inadeguata: comunque lo si traduca, andrà perduto buona parte del suo significato, a meno di non renderlo con una lunghissima perifrasi.

I Romani indicavamo con "pietas" la scrupolosa osservanza degli obblighi sostanziali e formali verso coloro ai quali si doveva riconoscenza e gratitudine:

– è innanzitutto sentimento di venerazione per gli dei e osservanza delle pratiche religiose;

– è accettazione degli obblighi del buon cittadino che ama in primo luogo la patria e quindi se stesso e gli altri;

– è infine scrupoloso adempimento dei doveri che ci legano ai genitori, ai parenti, agli amici e, in definitiva, all’umanità intera.

La "pietas" è dunque una virtù non individuale, ma sociale, in quanto propone un ideale di uomo che per realizzarsi deve sentirsi armonicamente inserito entro una fitta trama di rapporti, strutturati secondo una precisa gerarchia di valori (Dio, Patria, Genitori, Famiglia).

In italiano forse non esiste una parola che racchiuda in sé il medesimo complesso significato: di qui le difficoltà del traduttore costretto a scegliere, a seconda del contesto, uno soltanto dei valori che il vocabolo latino possiede. Il termine viene così reso talvolta con "religiosità", talora con "rispetto" o con "amore". Men che meno rende la ricchezza del vocabolo latino la parola italiana "pietà", che pure da esso deriva ma che definisce soltanto uno degli ambiti della "pietas" e cioè il sentimento della "compassione" suscitato in noi dalle altrui sofferenze, sentimento che in latino era reso con "misericordia".

D’altra parte, la pietas è un sentimento che non può essere resuscitato così com’era originariamente, per la semplice ragione che era l’espressione di una civiltà ben precisa, quella dei romani, e trova la sua perfetta espressione poetica nell’episodio della fuga di Enea da Troia in fiamme: il pius eroe si preoccupa, a prezzo di gravi pericoli, di portare in salvo il vecchio genitore Anchise, il figlioletto Ascanio, la moglie Creusa (che si perderà nella confusione) e le statuette degli dei Penati. Non esiste l’equivalente della pietas nella civiltà moderna, perché il rapporto dell’uomo con la divinità, con la patria e con la famiglia è profondamente cambiato, così come sono cambiate, in se stesse, le ultime due istituzioni, mentre è cambiata l’idea stessa del divino; o, per dir meglio, è stata praticamente abbandonata. Quando finì la civiltà greco-romana., nacque la civiltà cristiana e la pietas venne integrata, e in definitiva sostituita, da un nuovo sentimento, più ampio e comprensivo, più affettuoso e più attento anche alla dimensione del bene dovuto a se stessi (ama il prossimo come te stesso, raccomanda Cristo; mentre nella pietas vi è un certo stoicismo che fa passare i bisogni dell’io in secondo piano, almeno secondo la nostra mentalità): la caritas. Integrata e arricchita dalla caritas, la pietas non è scomparsa, ma si è trasformata: la rivoluzione cristiana consiste innanzitutto in una concezione più familiare e più paterna di Dio, che spinge il suo amore per gli uomini sino a farsi uomo e a soffrire e morire per essi, e insegna loro, così, la fratellanza universale, nel segno della sua paternità. Dio diventa Abba, Padre: questa è la grande novità; e gli uomini, di conseguenza, diventano tutti fratelli gli uni per gli altri: agli occhi di Dio non c’è più greco né giudeo, libero né schiavo, maschio né femmina, dice san Paolo, perché sono tutti suoi figli. Dunque, mentre la pietas ha a che fare con la città-stato del mondo greco e poi romano (perché Roma, non dimentichiamolo, nasce come polis e poi diventa impero), la caritas si estende a tutta la famiglia umana, perché il requisito che si richiede per farne parte non è l’appartenenza a una compagine specifica, ma il riconoscimento di Gesù Cristo come Figlio di Dio e l’accoglienza della sua Buona Novella. La transizione dall’una all’altra, dall’esclusivismo all’universalismo, è stata resa possibile dal fatto che il cristianesimo ha trovato il suo terreno di coltura non nella chiusa società giudaica, dove era nato, e neppure nelle comunità giudaiche della Diaspora, ma proprio nei centri vitali dell’Impero Romano e quindi si è in qualche misura adattato a una situazione nuova, peraltro esplicitamente prefigurata da Gesù Cristo nel suo invito agli Apostoli affinché andassero in tutto il mondo a battezzare e predicare il Vangelo. Le dimensioni "universali" dell’Impero Romano favorirono questa tendenza, che era presente, ma ancora allo stato embrionale, nel cristianesimo delle origini, così come la favorì, paradossalmente, il sostanziale rifiuto da parte degli ebrei. Se il giudaismo, trasformandosi, avesse riconosciuto in Gesù il Messia tanto atteso, e sia pure dopo la sua morte, forse il cristianesimo non avrebbe raggiunto quella estensione psicologica e teologica universale che, invece, lo ha caratterizzato sin dall’inizio, non appena ebbe attecchito nelle città greche dell’Asia Minore, nella Grecia stessa e, infine, a Roma e in Italia. In quel contesto storico esistevano le condizioni, anche sociali e culturali, perché il cristianesimo divenisse davvero la religione universale che oggi conosciamo; condizioni che non vi sarebbero state se Roma non avesse unificato il bacino del Mediterraneo e inglobato una buona metà dell’Europa prima che esso cominciasse ad espandersi. Dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, infatti, non solo l’espansione del cristianesimo conobbe una battuta d’arresto, ma la sua sopravvivenza fu perfino messa in forse in alcune province poco romanizzate, come la Britannia (la quale, di fatto, dovette essere evangelizzata una seconda volta). La penetrazione nei territori che non avevano mai fatto parte stabilmente dell’Impero, oltre il Reno e il Danubio, fu lenta e faticosa; oltre l’Elba e ancora più in là, oltre l’Oder e la Vistola, fu ancora più lenta e difficile: nel 1300 la resistenza dei Lituani, attaccati al loro paganesimo quanto e più dei Germani, era ancora assai forte, mentre in Russia prosperava il khanato islamico dell’Orda d’oro.

Nel corso del Medioevo il cristianesimo finì per estendersi a gran parte dell’Europa, mentre il sorgere e l’aggravarsi della minaccia islamica ebbe la funzione di pungolarlo e di costringerlo a tenersi sempre in guardia, sia militarmente che spiritualmente, perché il destino della Siria, dell’Egitto, dell’Asia Minore e, infine, della stesa Bisanzio, aveva insegnato ai cristiani che dovevano prepararsi a soccombere, qualora non fossero stati capaci di difendersi. E chi non ha capito questo, non può capire nulla delle Crociate, che furono realmente, a dispetto di quel che dice la vulgata progressista, delle guerre difensive, quelle che oggi si direbbero, in linguaggio tecnico militare, delle campagne "di alleggerimento" o di "contenimento". Una volta che il cristianesimo coincise, più o meno, con l’Europa, e una volta che esso sviluppò la consapevolezza che, per sopravvivere, doveva anche essere pronto a lottare, la caritas assunse l’abito mentale del crociato e del paladino, e si manifestò, idealmente, nei romanzi e nei poemi epico-cavallereschi di matrice feudale (dei quali l’Orlando innamorato, l’Orlando furioso e la stessa Geusalemme liberata sono solo l’imitazione tardiva, superficiale e irriverente, poiché in essi non c’è quasi nulla dell’epos, né dell’ethos originari). Gli ordini monastico-cavallereschi sintetizzano pienamente la fusione dei valori aristocratici e feudali, nonché guerreschi, con quelli religiosi, e più precisante ascetici e mistici: una sintesi che oggi ci risulta totalmente incomprensibile, perché quanto di più lontano immaginabile dalla forma mentis moderna, che vi coglie solo la contraddizione fra il pacifismo evangelico e la violenza guerriera. Tale incomprensione, però, è un problema tutto nostro, o, per essere più precisi, è originata dalla tipica ipocrisia della civiltà moderna, fondata sul totalitarismo democratico e buonista. I moderni trovano che non vi sia alcuna contraddizione fra il rispetto dei diritti dei popoli e le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki, oppure fra il sentimento umanitario e i milioni di morti innocenti causati, quali "effetti collaterali", dagli interventi militari anglo-americani in Afghanistan, in Iraq, in Libia e in Siria, ufficialmente motivati dalla sollecitudine verso le povere popolazioni locali, oppresse da regimi dittatoriali e criminali. Però, se si parla dei Cavalieri templari, o della santa Inquisizione, i moderni si scandalizzano, digrignano i denti e sibilano, con Voltaire, écrasez l’infâme!, pensando a tutto il male che la religione cristiana ha recato al genere umano e alla doppiezza della Chiesa cattolica, che predica l’amore universale e poi non esita a ricorrere al ferro e al fuoco contro i suoi nemici. La disonestà intellettuale consiste nel giudicare, e assolvere sistematicamente, se stessa, sotto l’angolo visuale dell’ideologia democratica, e, viceversa, nel giudicare, e nel condannare sistematicamente, la civiltà cristiana del Medioevo, non considerandola nella prospettiva che le è propria, ma nella sua, quella moderna. Se si guarda alla civiltà cristiana come fatto storico, e non come fatto ideale ed astratto, si vedrà che il Medioevo è stato forse l’epoca ideologicamente più coerente e meno ipocrita nella storia d’Europa, in cui gli uomini — papi, imperatori, vescovi, signori feudali, crociati, monaci, sacerdoti – avevano il coraggio di chiamare le cose con il loro nome, senza nascondersi dietro il velo dell’ipocrisia. Non diciamo che le Crociate o l’Inquisizione fossero perfettamente coerenti con il Vangelo, al contrario; nondimeno, diciamo che le Crociate e l’Inquisizione (che furono meno orrende, fatte le proporzioni, di tante istituzioni moderne e buoniste, dalle "guerre umanitarie" alla sedia elettrica) sono state pienamente coerenti con la civiltà cristiana medievale, con i suoi presupposti, con le sue prospettive, con i suoi valori. Questo, se si ha l’onestà di guardare gli esseri umani per quello che sono e se non si pretende che ogni cristiano sia anche un santo, ma si riconosce che la santità è il modello ideale del cristiano; e se si accetta di guardare anche la santità come fatto umano, perciò storico, e non come realtà disincarnata e "perfetta". I santi sono uomini, e, umanamente parlando, possono avere i limiti e anche i pregiudizi del loro tempo; e non è nemmeno detto che siano dei "pacifisti" nel senso che intendono, oggi, gli intellettuali di sinistra, o gli stessi cattolici progressisti, per il semplice fatto che il Vangelo predica l’amore, ma non è "pacifista" nel senso ideologico (e tipicamente moderno) del termine, così come non è animalista, o ecologista, o ambientalista, eccetera. San Bernardino da Siena è stato un grande santo, ma alcuni suoi sermoni, che attiravano immense folle di uditori, sicuramente dispiacerebbero alquanto alla sensibilità moderna, specie a quella progressista (e infatti non vengono mai citati), dato che si scagliano con molta energia contro la pratica del’usura attuata massimamente dagli ebrei, configgendo così frontalmente con uno dei massimi tabù odierni del politically correct.

Dunque, non possiamo resuscitare la pietas di Enea, e neppure la caritas medievale, e tuttavia, se vogliamo sperare di sopravvivere, invertendo il corso disastroso della modernità, che ci trascina verso l’abisso dell’auto-distruzione, possiamo e dobbiamo resuscitare qualcosa di equivalente ad entrambi, una sintesi ulteriore, arricchita da ciò che ci hanno insegnato, e sia pure in negativo, i secoli della modernità. La cosa più importante che ci hanno insegnato, se vogliamo far tesoro della nostra storia, è che l’uomo non può far da solo, non può farsi metro e misura di tutte le cose, ma che trova la sua giusta misura, la sua ragion d’essere e lo scopo della sua esistenza in Dio; e non in un Dio qualsiasi, ma nel solo Dio che non lo ha ingannato, non lo ha tradito e non lo ha allontanato da se stesso, ma che ha saputo valorizzare la sua parte migliore: il Dio cristiano. Ecco perché l’affermazione del signor Bergoglio, Dio non è cattolico, è doppiamente scandalosa e fuorviante: perché viene da un papa e perché vanifica la lezione di duemila anni di storia. L’uomo moderno, in particolare, ha provato ad adorare parecchi dei: la ragione, la scienza, il progresso, la tecnica, il benessere, seguendo molti falsi profeti; ma ha collezionato disastri, sofferenze e crudeltà inaudite. Solo in Gesù Cristo ha conosciuto e sperimentato il vero Dio, che non delude, non inganna e non tradisce. Tuttavia è un Dio esigente, perché pretende che ciascun uomo prenda su di sé la propria croce, come condizione indispensabile per seguirlo. Il rifiuto della croce è il tratto più tipico della falsa chiesa modernista, così come di tutta la cultura moderna: Cristo senza croce è solo un inganno.

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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