
Se la Chiesa è per il mondo, non è per la fede
14 Maggio 2018
Un Angelo accompagnerà i nostri passi
16 Maggio 2018Abbiamo sostenuto, ripetutamente, che Dietrich Bonhoeffer ha svolto un ruolo fortemente negativo nello sviluppo della teologia del XX secolo, e che continua a s volgerlo, sia pure indirettamente; che è stato uno dei maestri del nichilismo e che la sua concezione di un cristianesimo areligioso e amorale, di un cristianesimo senza religione, è stata fin troppo benevolmente recepita dalle frange più spinte del’ala riformista cattolica al Concilio Vaticano II, e che il suo ruolo storico è stato quello di fare da trait-d’union fra Martin Heidegger e Karl Rahner, di saldare, cioè, il nichilismo filosofico con il nichilismo teologico, chiudendo il cerchio del nichilismo novecentesco e creando le premesse perché questo divenisse l’abito mentale, esplicito o implicito di gran parte del pensiero della tarda modernità, fino ai giorni nostri e chi sa ancora per quanto tempo.
Naturalmente, abbiamo innanzitutto il dove, cime sempre in una discussione filosofica, di dare una definizione del concetto di cui stiamo parlando. Definiamo allora il nichilismo come: A) un atteggiamento del pensiero che rifiuta tutte le categorie e tutti i contenuti accettati dalla tradizione, specie in ambito conoscitivo e morale; B) un indirizzo di pensiero che rifiuta l’esistenza di una realtà oggettiva, definibile e riconoscibile, perché rifiuta il suo fondamento, l’essere; e quindi, C) una tendenza filosofica la quale, in maniera aperta o implicita, sostiene la nullità di ogni conoscere al di fuori dell’ambito più strettamente soggettivo, nonché la nullità dell’esistente, la totale mancanza di fini o scopi nel reale, l’assoluta inconoscibilità del senso ultimo delle cose, o dichiara la sua assenza, il tutto nella prospettiva di una consapevolezza "nuova", di una capacità di guardare in faccia le cose che gli uomini i della tradizione non hanno mai avuto. Da quest’ultimo aspetto deriva un atteggiamento psicologico piuttosto caratteristico di quasi tutti gli esponenti del pensiero nichilista, i quali, lungi dal considerarsi filosofi del crepuscolo, si sentono, generalmente, gli iniziatori di un mondo nuovo, coloro i quali tengono a battesimo una maniera del tutto nuova di porsi d fronte al reale e di fronte al fatto stesso del pensare. Nella presente riflessione, noi terreno presenti tutti e tre questi motivi presenti nel concetto di nichilismo, i quali ci appaiono non solo strettamente collegati, ma pressoché inseparabili. C’è poi un quarto livello di significato, che deriva dal terzo punto, ma richiede un discorso più specifico, e che affronteremo un po’ più avanti.
Dicevamo che Bonhoeffer rientra, di diritto, fra i maggiori esponenti del nichilismo ed è uno di quelli che più hanno influenzato il complessivo orientamento nichilista della filosofia (e della teologia) dell’ultimo secolo. Ci proponiamo di mostrare che non si tratta affatto d’una esagerazione, di un giudizio affrettato e perciò ingiusto; e, per farlo, partiamo da ciò che scrive Federico Vercellone nella sua monografia Introduzione al nichilismo (Bari, Laterza, 2001, pp. 163-166):
Le opere di Bonhoeffer, e fra queste in particolare "resistenza e resa", segnano una svolta decisiva nella vicenda della secolarizzazione; essa viene accolta in termini così radicali da condurre a conseguenze che hanno a che fare da vicino con il nichilismo. È infatti il mondo nel quale la religiosità è giunta al suo compiuto declino quello che viene affrontato e discusso nelle lettere dell’epoca della prigionia; ci troviamo dunque in un luogo dove il Dio della religione tradizionale non ha più autorità, e dove l’incontro con il divino si fa più faticoso ma anche più degno dell’uomo. Agli occhi di Bonhoeffer — come dimostra il suo intero cammino speculativo — la questione è indissolubilmente storica e teologica insieme. Infatti, la secolarizzazione non costituisce soltanto una difficoltà per la religione, un problema da dirimere nella sua estrema rischiosità. Esso è anche il luogo in cui il fondamento si dà nell’oggi. La fede, il messaggio, cristiano, vive, da questo punto di vista, nella prospettiva della decisione (un tema pervasivo nel panorama filosofico tedesco di quegli anni). Si tratta, in quest’ottica, di andar oltre la religiosità tradizionale, e cioè di andare oltre la nozione di Dio come ipostasi teologica, come "in sé". La decisione della fede — come si rivela già in uno dei primi testi di Bonhoeffer, "Sanctorum Communio" — coincide con l’entrare a far parte della comunità che si realizza in Cristo. È proprio questa centralità di Cristo a costituire quello che si potrebbe definire il filo rosso della riflessione di Bonhoeffer — è un filo rosso che conduce al di là del Dio religioso — come ci rivelano soprattutto le lettere di "Resistenza e resa" che costituiscono l’ultimo e coraggioso esito di questo itinerario di pensiero. Qui si profila una presa di posizione che accoglie pienamente il paradosso della "kénosis". Il Cristo che si è fatto uomo e che per l’uomo muore, indica la peculiarità della condizione umana, di QUESTA condizione umana, e, con ciò, la peculiarità storica della fede. Una fede che viene a coincidere non con il distacco al mondo, ma con l’amore per la vita. Si tratta di mettere da parte quegli elementi di "ressentiment" insiti nel cristianesimo e nel Dio metafisici, di mettere da parte la religiosità consolatoria denunciata da Nietzsche e riproposta in forma surrogatoria nel mondo secolarizzato dalla psicanalisi e dall’esistenzialismo. È necessario, per Bonhoeffer, "tenere il passo di Dio", non volerlo oltrepassare, e accogliere quindi la contingenza in quanto tale. Abbiamo così’ a che fare con una posizione che non svalorizza il mondo, non lo pone da parte come una sorta di "alter ego" rispetto a Dio; quello che potrebbe definirsi come il bonhoefferiano "dire di sì" alla vita conduce piuttosto ad accettarla anche nel suo volto pieno e gioioso.
Non finiremo mai di stupirci nel vedere come gli intellettuali moderni siano bravi ad arrampicarsi sugli specchi per sostenere l’insostenibile, cioè che i campioni del nichilismo sono, in realtà, degli innamorati della vita. Da Leopardi con la sua "protesta" (giusta l’interpretazione di Walter Binni) in avanti, è sempre la stessa musica. In realtà, non si può dire che siano molto originali: Vercellone, per esempio, non si fa scrupolo di mettere su due versanti contrapposti il distacco dal mondo e l’amore per la vita, suggerendo che chi ama la vita, come Bonhoeffer, non può approvare il distacco dal mondo. Spiacenti, ma chi ragiona così, oltre a essere in ritardo di qualche secolo, non ha capito niente del Vangelo. Il vero cristiano è, nello stesso tempo, distaccato dal mondo e innamorato della vita: ma bisogna vedere cosa s’intende per "vita". Se si intende l’edonismo, allora è vero che il cristiano non ama la vita; se s’intende la vita vera, cioè la vita eterna, di cui la vita terrena è solo il preambolo e la preparazione, allora è falsissimo. Ma è chiaro dove una tale contrapposizione vuole arrivare: a dichiarare i Vangeli, e specialmente il quarto Vangelo – ove più esplicita è la condanna del "mondo" – come un frutto del ressentiment: pur di dare ragione a Nietzsche, e, indirettamente, a Bonhoefer, Vercellone preferisce dare torto a san Giovanni e a tutta la tradizione spirituale, ascetica e mistica del cristianesimo, vale a dire a quanto di più bello ha prodotto la fede cristiana nell’arco di duemila anni, compresi san Francesco e Meister Eckhart. E quali contorsioni per arrivare a sostenere che il "vero" cristianesimo è quello di Bonhoeffer, erede di Nietzsche (e di Heidegger), cioè del nichilismo e dell’esistenzialismo: due fra le correnti più anticristiane che il pensiero europeo abbia prodotto nel corso del Novecento. E che pena veder parlare con tanta leggerezza e con tanta supponenza del "Dio metafisico", come se Dio non fosse, per definizione, l’Essere, e quindi l’ente primo della metafisica, benché questo Dio si sia incarnato e fatto uomo, senza però cessare di essere Dio e senza nulla perdere della sua divinità. E poi, dove sta scritto che "tenere il passo di Dio" equivale ad accettare come un dato di fatto irreversibile la secolarizzazione? E chi lo sa, poi, quale è il passo di Dio? Il passo della storia è il passo di Dio? Se così fosse, la storia sarebbe Dio e Dio sarebbe la storia: ma questo va bene per Hegel, non si accorda, però, per nulla, con il Vangelo di Gesù Cristo, il quale è entrato, sì, nella storia, ma per dominarla, non per subirla. Vogliamo fare di Dio il patrono di tutte le bestialità e di tutte le infedeltà dell’uomo moderno? Infine: perché parlare del volto pieno e gioioso della vita, e tacere il suo volto buio e tormentoso? Perché far finta che la morte non esista? Perché dare a intendere che si possa "dire di sì" alla vita, senza fare i conti con il grande esame di coscienza della morte, né con la sofferenza e la malattia? Questo cristianesimo "nietzschiano" ci sembra alquanto improbabile. E la croce? Niente, nemmeno una parola. Pare che il cristianesimo sia solo la religione del "sì alla vita". Ma un cristianesimo senza la croce è come un cristianesimo senza Gesù Cristo: una contraddizione in termini, una impossibilitò logica. Questo è inseguire il moderno per la smania di essere sempre all’avanguardia: svalutare duemila anni di storia per dar ragione agli ultimi quaranta, cinquant’anni; in altre parole, svalutare Aristotele, sant’Agostino e san Tommaso d’Aquino per dar ragione a Heidegger, a Karl Rahner con la sua "svolta antropologica", al Concilio e al neomodernismo rinato con esso e oggi trionfante.
Il punto di partenza della riflessione di Bonhoeffer, dunque, è che il processo della secolarizzazione è giunto così avanti, da rendere impossibile pensare la religione nei termini nei quali veniva pensata prima di essa. Questo è il tipico abito mentale delle avanguardie radicali e rivoluzionarie: la società è talmente cambiata che nulla potrà mai essere come prima; tanto vale cavalcare la tigre e, prendendo atto di questo cambiamento, cercare nuove strade per dire ciò che si vuole dire. La secolarizzazione, quindi, non viene analizzata nei suoi sviluppi storici e tanto meno nella sua essenza speculativa: è presa in carico come la "verità effettuale della cosa", direbbe Machiavelli, vale a dire come un dato definitivo e irreversibile, che sarebbe "irrealistico" non accettare pienamente, con tutte le sue conseguenze. Questo, però, non è un atteggiamento filosofico: fare filosofia è domandarsi sempre perché, cercar di capire, non prendere le cose in carico: per questo, basta una macchina fotografica. Se il compito del pensatore si limitasse a prendere atto delle cose così come stanno, la filosofia si risolverebbe in una adorazione dell’esistente, in un inno di gloria al potere di turno. Certo, Bonhoeffer, come del resto Heidegger, dice che prendere atto della realtà serve a cercare nuove strade, nuove soluzioni: serve a far vedere che le vecchie strade non vanno più bene, che non conducono da nessuna parte, perché sono ormai dei "sentieri interrotti". Ma non c’è il pericolo che queste nuove strade siano solo una resa e un tradimento dell’idea? Non rischia di essere un esercizio retorico, una semplice declamazione d’intenti, mentre, in realtà, ci si limita a subire un’agenda che viene dettata dall’esterno? Questo pericolo è insito nel modo di porsi del pensiero nichilista rispetto al reale. Per Heidegger, l’essere si spiega a partire dal tempo e dalla quotidianità; allo stesso modo, per Bonhoeffer, si arriva a Dio attraverso la situazione concreta, storica, della comunità dei fedeli, della Chiesa. E anche se la Chiesa viene descritta come un Cristo vivente, la realtà è che egli ha operato una inversione della giusta prospettiva: perché la lezione di Gesù agli uomini non è nella sua umanizzazione, non è nel suo insegnarci ad essere uomini, ma nel suo essere Dio che si è fatto uomo, e che mostra agli uomini la via del Cielo, ossia del ritorno al Padre.Non si arriva a Dio attraverso l’uomo, ma è vero il contrario, che si arriva all’uomo attraverso Dio. Allo stesso modo, non si spiega l’essere con il tempo e con la quotidianità, ma si spiegano il tempo e la quotidianità per mezzo dell’essere.
E ora torniamo al quarto significato del concetto di "nichilismo". Da Nietzsche in poi, che è considerato il padre nobile del nichilismo moderno, "nichilista" è sia chi distrugge i vecchi valori, ritenuti ormai superati, sia chi fonda i valori nuovi; anche se, in pratica, in tutti i nichilisti, compresi Nietzsche, Heidegger e Bonhoeffer, la pars destruens finisce per prevalere di gran lunga sulla pars construens. Nel caso di Bonhoeffer, egli ritiene che il cristianesimo, in seguito ai processi della secolarizzazione, sia entrato nella fase non religiosa; e si chiede come si possa ancora parlare di Dio, e di Cristo, ad una umanità che non è più religiosa. Ma egli forse ha troppo fretta di prendere per buona la premessa: è proprio vero che l’umanità moderna non è più religiosa? Chi lo dice? E se fosse solo un luogo comune? Dopotutto, siamo certi che esista una entità definibile uomo moderno? L’uomo tedesco del 1940 è equiparabile all’uomo cinese del 2018? Il contadino è un uomo moderno quanto lo è l’abitante delle metropoli? L’arabo, l’islamico del XX secolo, e anche quelli dei nostri giorni, sono uomini moderni? Sono moderni i giapponesi, con tutti i loro grattacieli e transistor, ma anche con il loro profondo attaccamento alle radici, al mito, alla tradizione nazionale? E se si scopre che moderno è un contenitore vuoto, è una frase fatta, allora ne consegue che anche parlare di secolarizzazione è vago, è generico. Bisognerebbe parlare solo delle società occidentali, e anche in esse con delle profonde differenze. Il polacco dei nostri giorni non è così secolarizzato come il parigino o il londinese: questo è un fatto. L’abitante dell’Ungheria crede ai valori della tradizione, religione compresa, ben più di quanto non ci credano i filosofi che lavorano e scrivono stando all’interno delle città universitarie dell’Europa occidentale. Perfino in Italia ci sono, anche oggi, delle differenze abissali fra gli abitanti di un villaggio della Basilicata e quelli di un quartiere centrale di Milano o di Torino; e la fede religiosa di una povera donna del Gargano non si esprime di certo attraverso le stesse categorie di pensiero, o le stesse azioni pratiche, di un prete di Genova che decide di sopprimere la santa Messa di Natale per "rispetto verso i migranti", o di un altro prete di Reggio Emilia che fa le veglie di preghiera contro l’omofobia, cioè, in pratica, per legittimare pienamente, e con la benedizione di Gesù Cristo, il vizio impuro contro natura. Evidentemente, si è dato per scontato ciò che scontato non è: che esiste un uomo moderno e che quest’uomo moderno non sia più religioso. Ma la religiosità nasce dal bisogno di Dio, e il bisogno di Dio è nel cuore dell’uomo di ieri, di oggi e di sempre: se di questo non è convinto un teologo cattolico, chi ma dovrà esserne convinto? Perciò riteniamo che l’approccio di Bonhoeffer sia sbagliato e pericoloso. Sbagliato, perché accetta come un dato di fatto ciò che è soltanto un’ipotesi, indimostrata e indimostrabile; pericoloso, perché afferma che ormai si può parlare di Dio solo in un certo modo, ossia accettando le categorie non religiose della società odierna, e, addirittura, accettando il fatto che il cristianesimo, nella sua essenza, non sia né religioso, né morale.
Cominciamo così a vedere la radice del doppio errore di Bonhoefffer e di tutti quei teologi, anche cattolici, i quali, ai nostri giorni, partono dall’assunto che Dio è morto e che per annunciare Cristo bisogna ripartire da zero, ma adottando delle strategie pastorali completamente diverse da quelle del passato, cioè, in parole semplici, rincorrendo la modernità sul suo stesso terreno. Così facendo, però, il cattolicesimo si spoglia della sua autentica essenza, che è quella di costituire un messaggio radicalmente alternativo a quello del "mondo", e specialmente a quello del mondo moderno, che nasce, per sua natura, come un progetto post-cristiano e anti-cristiano. E il doppio errore è questo: primo, di aver accettato l’idea che il mondo moderno non sia più religioso; secondo, di aver immaginato che, per tornare a parlare di Dio e di Cristo, bisogna farlo a partire dal fatto che l’uomo si è abituato a fare da solo, e che è capace di compiere responsabilmente le sue scelte anche in assenza di Dio. Se ciò fosse vero, allora non ci sarebbe più posto per il cristianesimo, cioè non ci sarebbe più posto per Cristo: che senso ha annunciare al mondo un Cristo, del quale il mondo può benissimo far a meno, anzi, del quale si è abituato a fare a meno? E che senso ha credere in un Dio il quale vuole, secondo l’idea di Bonhoffer, che noi facciamo come se lui non ci fosse, perché si è stancato di essere un Dio tappabuchi? Evidentemente, non avrebbe senso: si parlerà ancora di Dio e di Cristo, ma non sarà più veramente Dio, non sarà più veramente Cristo. Esattamente quel che sta succedendo oggi, nella "chiesa di Francesco". Si parla di Dio, si parla di Cristo (non molto, in verità; si parla assai più di Francesco, come se la Chiesa fosse cosa sua e come se la fede, fosse la fede in lui, nelle sue parole e nei suoi gesti): ma il Dio di cui si parla è solo una parola, e il Cristo di cui si parla non è il vero Cristo del Vangelo, non è il Verbo incarnato, morto e risorto per noi: è solo una proiezione dei nostri desideri e delle nostre aspettative: infatti, non c’è la croce, di essa nemmeno l’ombra. Oppure, peggio ancora, è solo un Cristo permissivo e tollerante, che scusa e giustifica i nostri peccati, e acconsente che noi li chiamiamo virtù, e perfino che ce ne vantiamo pubblicamente: come ha fatto quel sacerdote americano, il quale, nel bel mezzo della santa Messa, ha annunciato ai suoi parrocchiani di essere omosessuale, di essere fiero di essere omosessuale, e di voler continuare a fare il prete cattolico. Si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi, dice san Paolo, nella Lettera ai Romani. E aggiunge: essi ricevono già in sé stessi il giusto castigo del loro traviamento…
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