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La Chiesa ha bisogno di Santi, non di teologi

Cercasi Santi disperatamente. Potremo riassumere così l’emergenza, sempre più drammatica, che sta vivendo la Chiesa cattolica in questa fase storica.

La Chiesa può fare a meno, almeno per un certo periodo, di studiosi, di biblisti, di filologi, di eruditi, e soprattutto di teologi: i quali, se non sono ispirati dalla retta fede, servono solo a mettere le anime in confusione e a portare lo scompiglio nella Chiesa stessa, divenendo pietre d’inciampo anziché elementi di coesione. Se, poi, si tratta di "teologi" come Enzo Bianchi, assertori di una religiosità di tipo gnostico, tendente al panteismo e all’ateismo, non averli, per la Chiesa, sarebbe più che un vantaggio: una necessità, perché a causa loro l’irreligiosità pratica si sta diffondendo sempre più negli ambienti cattolici.

Dopo gli eruditi e i teologi, la Chiesa può anche fare a meno dei faccendieri, degli intrallazzatori e soprattutto dei banchieri, questa mala razza di lupi travestiti da agnelli, i quali belano, lamentosamente: Eppure la Chiesa ha bisogno di noi! Perché ce l’hanno tutti con noi? Noi facciamo solo gli interessi della Chiesa, bisogna pure che qualcuno faccia il nostro lavoro! Così diceva, facendo la vittima, il non mai abbastanza esecrato cardinale Paul Marcinkus, l’uomo dello I.O.R., negli anni in cui la sua spregiudicatezza condusse la Sposa di Cristo a intessere rapporti inconfessabili con i peggiori elementi della finanza, con massoni e mafiosi che agivano come dei veri e propri criminali, pronti a consumare qualsiasi delitto per raggiungere i loro sordidi scopi, e lui non era molto migliore di loro, a parte la veste sacerdotale che indegnamente indossava. Ma quei tempi sono veramente finiti, sono davvero appartenenti al passato? Del resto, lo spirito di avidità, di usura, di profitto, che ha generato uomini come Marcinkus, non si è spento per nulla: è stato anzi coltivato come una pianta rigogliosa all’ombra dei palazzi vaticani, e ora è più fiorente che mai, con l’aggravante di una estrema ipocrisia e una capacità di dissimulazione che ha del demoniaco. Che dire, per esempio, di quel tale cardinale Oscar Rodriguez Maradiaga, uomo di fiducia di Bergoglio, il quale, in nome della tante volte sbandierata "chiesa dei poveri", intascava uno stipendio da 35.000 euro al mese?

E dopo i teologi fasulli e i banchieri senza scrupoli, la Chiesa può tranquillamente fare a meno, anzi, dovrebbe senz’altro farne a meno, dei giornalisti cortigiani, laici ed ecclesiastici, in tutte le loro specialità e varianti, dai direttori di giornale che alzano la bandiera del pontefice di turno, del tutto incuranti della continuità del Magistero e della perennità e immutabilità della Parola di Cristo, ai singoli giornalisti che inondano le colonne delle riviste e le vetrine delle librerie "cattoliche" (fra virgolette) con i loro sproloqui modernisti e con i più abietti panegirici del vertice che al momento si è insediato, con l’aria di volerci restare in eterno e con la pretesa, di per sé eretica e blasfema, di "cambiare tutto", in una frenesia di rinnovamento che è solo la maschera di una feroce volontà di autodemolizione, di deliberata distruzione della propria tradizione e della propria identità, di sistematica adulterazione dell’eterno Vangelo di Gesù, che non muta per il mutare dei tempi e al quale gli uomini devono conformarsi, e non già pretendere di adattarlo a sé. Di giornalisti come Marco Tarquinio, o come Andrea Tornielli, la Chiesa può ben fare a meno: essi hanno fatto la loro scelta, quella di puntare tutto sul papa, su questo papa, e non su Cristo; sul papa anziché su Cristo; sul papa e contro Cristo: i loro atti li giudicano. Per costoro, non esistono altre voci autorevoli che quella del papa, e quelle di coloro che il papa decide d’innalzare al rango di profeti: i don Milani, gl’irrequieti, gli scontenti, i ribelli, gl’impertinenti, i confusionari, i narcisisti, gli egocentrici, i velleitari, i contestatori.

Vedere sempre la foto di Bergoglio in copertina, sentir citare sempre le sue parole, specialmente dai sacerdoti meno fedeli alla Chiesa, dai vescovi più incuranti della dottrina e della Tradizione, quelli — per intenderci — che non vogliono neanche sentir parlare di esorcisti nelle loro diocesi, quelli che concordano con padre Sosa quando afferma che il diavolo non esiste, e con Bergoglio quando dice che neppure l’inferno esiste; quelli che hanno parlano poco e niente della Vergine Maria e dei Santi, perché in fondo ne hanno fastidio, dato che si sentono assai più vicini alla dottrina protestante; quelli che hanno in bocca sempre e solo i "poveri", ma quei poveri, guarda caso, sono sempre e solo i "migranti", che poi non sono migranti e neanche poveri, tanto meno profughi, sono invasori africani ed islamici dal reddito medio-alto (nei loro Paesi di provenienza); quelli che amano definirsi "vescovi di strada" e benedicono le unioni gay, e organizzano corsi di "accompagnamento" per fidanzati gay (accompagnamento verso cosa, per fare cosa?), restano muti come pesci mentre negli ospedali di tutto il mondi si pratica apertamente l’eutanasia, e più muti ancora se si sfiora l’argomento "aborto": ebbene, anche di simili giornalisti e di simili vescovi, che son degni gli uni degli altri, la Chiesa può fare benissimo a meno, anzi, facendone a meno ne avrebbe un immenso giovamento. La loro presenza è malefica, inquina l’atmosfera, ammorba il clima spirituale, annebbia le intelligenze, confonde le anime, mescola il bene con il male, sovverte ogni certezza, capovolge non solo la legge di Dio, ma anche la stessa legge naturale. Si pensi al cardinale arcivescovo di Bruxelles, De Kesel, il quale incontra i militanti delle organizzazioni LGBT e dà loro ragione su tutta la linea, dice che la Chiesa dovrebbe riconoscere la legittimità degli atti contro natura e che dovrebbe istituire una forma di riconoscimento apposta per le coppie omofile; forse che il gregge di Cristo ha bisogno di simili "pastori"?

E forse che la Chiesa ha bisogno di questa pletora di giornalisti cortigiani, i quali non spendono una parola, non diciamo di biasimo, ma neppure di ragionevole e legittimo dubbio, di fronte a simili atti, a simili discorsi? Salvo poi scatenarsi contro il malcapitato di turno, laico od ecclesiastico, al quale venga estorta, con l’inganno, una frase un po’ imprudente, o che isolata dal contesto, possa essere strumentalizzata per farlo passare come omofobo, come razzista, come antisemita, nonché — per adoperare il fiorito e sempre più ricco vocabolario bergogliano — come rigido, signor piagnisteo, gnostico, pelagiano, chiuso, fissista, faccia da funerale, o perfino, horribile dictu, clericale, che poi è l’insulto peggiore di tutti. E forse che la Chiesa ha bisogno di giornalisti come monsignor Viganò, autore di una spudorata falsificazione mediatica, tale da stroncare la carriera di chiunque altro fosse incorso in un simile incidente, ma da cui è uscito a testa alta, ed è stato rimesso dal papa in persona in una posizione perfettamente analoga a quella che occupava prima, vale a dire al vertice di tutto il sistema delle comunicazioni vaticane: il tutto senza una parola di scusa verso la vittima diretta della sua manipolazione, Benedetto XVI, né verso i lettori, da lui bellamente ingannati, con una spudoratezza quale si credeva appartenesse solo ad epoche lontane, ma non certo al presente. Dei Viganò, ecco, la Chiesa potrebbe fare benissimo a meno: farebbero fare brutta figura a una qualsiasi istituzione di questo mondo, figuriamoci alla Sposa di Cristo.

Un’altra categoria di cui la Chiesa può privarsi senza danno, anzi con indubbio vantaggio, è quella dei corrotti, dei lussuriosi, dei pervertiti: quella dei festini a base di droga e sesso gay nei palazzi vaticani; quella dei segretari dei cardinali che si fanno beccare in flagranza di reato dalla polizia; quella dei sacerdoti e dei monsignori pedofili e protettori, a loro volta, di sacerdoti pedofili; e quella, peggio ancora, dei prelati con il vizietto dell’occultismo, del satanismo, dei riti diabolici, collusa e infiltrata dalla massoneria ecclesiastica, e ben decisa a portare la Sposa di Cristo il più lontano possibile dal suo divino Sposo, dietro tante belle parole e formule suadenti che parlano di dialogo, di apertura, di comprensione dei tempi nuovi, di "autentica" carità e misericordia verso gli altri, verso i non cattolici, di concordanza fra tutti gli uomini di "buona volontà" (figuriamoci!). E qui viene in mente, per esempio, lo scandaloso, osceno affresco fatto eseguire dall’allora vescovo di Terni, Vincenzo Paglia, attuale Presidente della Pontificia Accademia per la Vita: opera che è tutta una celebrazione dei peccatori impenitenti e una profanazione della Persona stessa di Cristo, e che deve aver contribuito a mandare paurosamente in rosso i conti della diocesi, se è vero, come è vero, che Paglia ha lasciato dietro di sé, quella volta, una voragine finanziaria che qualcun altro ha poi dovuto ripianare. E, a proposito: qualcuno ha sentito la voce del Presidente della Pontificia Accademia per la Vita, mentre milioni e milioni di cattolici erano in ansia e in pena per il piccolo Alfie Evans, di Liverpool, condannato a morte, in Inghilterra, da una lobby di medici e di giudici massoni e assertori della nuova "cultura" dei diritti civili, che sono guarda, caso, il diritto di abortire, il diritto di lasciar morire i malati, il diritto di drogarsi a piacimento, il diritto di celebrare le unioni contro natura, il diritto di affittare il proprio utero a clienti danarosi e sodomiti, e mai diritti a favore della vita?

Di che cosa ha bisogno, dunque, la Chiesa, se non di Santi, semplicemente di Santi, meravigliosamente di Santi: di uomini e donne umili, pazienti, silenziosi, spirituali, coerenti, capaci di trascinare anche gli altri verso le altezze, verso l’amore e il timor di Dio, verso una vita più pulita, più degna, meno impastata di materialismo, meno intrisa dai vizi: di Santi come ce n’erano tanti fino a qualche tempo fa, come il Curato d’Ars, come Padre Pio, come Teresina di Lisieux, come cento e cento altri, anche bambini e bambine, che qui non è possibile ricordare, neanche solo in piccolissima parte. Ma chi è il Santo? Il Santo è colui che lascia morire in sé l’uomo vecchio, che crocifigge il proprio ego, che si sbarazza di tutto il fardello delle vanità, delle ambizioni, della brama di primeggiare, di apparire, per non parlare delle passioni disordinate inerenti alla sfera sessuale. Insomma, l’esatto contrario di questo clero modernista sempre smanioso di apparire, di riscuotere applausi, di mietere facili allori, di ricevere complimenti dai peggiori nemici della Chiesa: i massoni, i radicali, gli ebrei e gli islamici i quali, in cuor loro, non hanno mai smesso di odiare Cristo e di carezzare il sogno di veder distrutta dalle fondamenta l’intera opera sua; e più che mai impazienti di dichiarare lecito il peccato, per poter ostentare il vizio che già molti di essi praticano, ma in segreto; per poter esibire in faccia al mondo le loro inclinazioni perverse, la loro lussuria deviata, la loro vergognosa incontinenza. Il Santo è colui che si è alzato dal fango della palude in cui siamo immersi, e che, con l’aiuto di Dio, non certo con le sue forze, ha trovato e imboccato la strada del cielo. Il Santo è colui che vive nel mondo, ma come se non fosse del mondo, perché realmente non appartiene al modo, ma appartiene tutto e solo a Gesù Cristo. Il Santo è colui che ha capito cosa sia l’essenziale; che non sa che farsene della paccottiglia della modernità, che viene rifilata a tutti come fosse merce di gran lusso; e che tutto solo, incompreso, denigrato, calunniato, disprezzato, perseguitato, va incontro al Maestro divino, dal quale unicamente si attende un sorriso e una Parola di conforto, e non già dagli uomini di questo mondo, sempre propensi a lodare i peggiori, ad esaltare i furbi, a prendere a modello i subdoli, i cinici e gli amorali. Il Santo è l’uomo celeste che tiene i piedi ancora sprofondati nella melma, ma con lo sguardo arriva a intravedere la meta del viaggio, la pace del Signore. Vi lascio la pace, vi do la mia pace, dice Gesù, e precisa: Ve la do, non come la da il mondo. Il santo è colui che non vive solamente per se stesso, ma che segna la strada a tutti noi; è colui che, avanzando nella nebbia, nel buio, fra le spine, con fatica, con sacrificio, indica la direzione a tutti gli altri. Guai se non ci fossero più i Santi; sventurata la Chiesa che non sappia più coltivare una generazione di Santi. Privi di loro, della loro presenza, del loro sguardo luminoso, della loro serenità, del loro coraggio, saremmo completamente smarriti, abbandonati al disordine delle nostre passioni, sedotti dai richiami del mondo. Saremmo perduti, perché da soli non riusciremmo più a orientarci, né a udire il richiamo di Dio. La nostra vista si è fatta troppo corta e il nostro udito troppo debole per vedere e udire ciò che conta: sappiamo vedere e udire solo le cose del mondo, le più appariscenti e le più ingannevoli.

Certo, il Santo è anche colui che cammina nella verità. Non è un teologo, e non è necessariamente un uomo colto, ma deve possedere quel minimo di dottrina, unita a una sana dose di senso comune, a un naturale senso di verità e di giustizia, per cui non potrà mai lasciarsi strumentalizzare dalle forze della menzogna. Mai e poi mai il Santo può divenire uno zimbello del diavolo; non si lascia sedurre dalle false immagini di bene, l’ambizione e la vanità su di lui non fanno presa, non trovano dove attaccarsi. Puro, limpido, egli non offre alcun appiglio alle cento e cento tentazioni con cui la modernità aggredisce e trascina via con sé la maggior parte delle anime. Il peccato contro la Verità è il peccato contro lo Spirito, perché la Verità è Dio: ma il Santo, in virtù della sua costante e totale unione con Dio, è sempre nella grazia del Signore e non diviene mai oggetto di scandalo per gli altri. Se cade, se sbaglia, le sue cadute e i suoi errori sono sempre rimediabili, con l’aiuto di Dio, perché non nascono dall’avidità, dalla superbia o dall’amor di sé, ma solo da ingenuità o inesperienza. Preghiamo Dio che ci doni dei Santi e che ci faccia Santi: liberati dal fardello dell’io…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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