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9 Maggio 2018La società moderna e contemporanea si caratterizza, per sua stessa ammissione, come la società della morte di Dio. Questo, almeno, è quanto si dice e si ripete, e lo si ripete perché lo si sente dire, e lo si sente dire perché alcuni, che possiedono molto potere e molta visibilità, in quanto controllano l’informazione e la cultura, lo dicono e lo ripetono fino all’ossessione. Così, alla fine, tutti lo dicono ma nessuno saprebbe indicare con certezza da dove sia partita la voce; tutti danno per scontato che la cosa sia pacifica e incontri il consenso generale, ma nessuno saprebbe mostrare e spiegare perché Dio sia morte, quando e come. In questo modo una semplice chiacchiera viene promossa al rango di verità filosofica, e persino di dogma religioso, beninteso in quella particolare religione che è la religione della scienza; come un’araba fenice: che ci sia ognun lo dice, dove sia nessun lo sa. Il fatto è che questa presunta verità poggia su un passaggio indimostrato e indimostrabile: lo spostamento – hegeliano – dall’essere al pensiero, e quello – kantiano – dalla cosa in sé al fenomeno. Così, una vola si diceva Dio è, oggi si usa la stessa espressione, ma s’intende, invece: gli uomini credono che Dio è (o che non è). Non conta più ciò che è, ma ciò che si pensa che sia. Quindi l’espressione Dio è morto è un’espressione-truffa: in realtà, con essa non s’intende dire che Dio è morto, ma che la gente non crede più alla sua esistenza. In particolare, dopo Auschwitz si è sostenuto che Dio non c’è più, non può esserci, perché, se ci fosse, non avrebbe permesso che Auschwitz accadesse. Anche questo è uno pseudo ragionamento: senza addentrarci nella dimensione propriamente filosofica, e limitandoci a restare in superficie, cioè a considerare l’aspetto logico di quell’enunciato, osserviamo che un evento storico non può mai smentire, di per sé, una realtà metafisica. Gli eventi storici non dimostrano proprio nulla al di là della storia (ed è già assai dubbio che possano dimostrare qualcosa anche al di qua di essa). Se Dio, realtà infinita, dovesse dipendere dal verificarsi, o dal non verificarsi, di questa o quella circostanza finita, allora non sarebbe più Dio: sarebbe un’altra cosa; sarebbe, appunto, solo e unicamente la nostra credenza di Dio.
Ad ogni modo, dopo aver precisato ciò, prendiamo pure per buona, sotto il profilo teorico e per puro amore d’ipotesi, l’affermazione: Dio è morto. Oggi la si dà quasi per scontata: nessuno si prende più la briga di dimostrarla, perché nessuno si dà la pena di smentirla. Ma è proprio vero che Dio è morto, ossia che è morto nella coscienza delle persone? I sacerdoti che assistono i moribondi, che li confessano e che impartiscono loro l’estrema unzione, sanno bene che non è così, ma che è vero il contrario. Perfino una gran parte degli atei più irriducibili, giunti davanti al grande passo, dubitano delle loro certezze, e sembrano voler tornare a ciò che sapevano un tempo, a ciò che tutti sanno e credono fin da bambini: che Dio esiste; che la nostra vita esiste grazie a Lui; che a Lui si deve tornare e a Lui si deve rendere conto dell’uso che di essa avremo fatto. Questo è quanto sanno e credono quasi tutti, specie quando sono lontani dalla nefasta influenza di una piccola minoranza d’intellettuali nichilisti e irreligiosi, e, non sentendosi osservati, né giudicati, lasciano trasparire il loro autentico sentire, che corrisponde, in sostanza, a ciò che è stato insegnato loro nell’infanzia, e che avevano poi messo in un cassetto, o in un armadio, senza dedicarvi alcuna attenzione. Di fronte alle prove più severe della vita, però, e lontano dai libri e dalle chiacchiere pseudo filosofiche, la fede in Dio torna a farsi avanti, istintivamente: perfino il terribile Voltaire, come ricorda il teologo Antonio Livi, sentendosi presso a morire, volle il prete accanto a sé, tanto poco si fidava delle sue "certezze" irreligiose e anticattoliche. Si dirà che simili contraddizioni dipendono dalla paura dell’ignoto e non riflettono un sentimento sincero; eppure a noi sembra che in poche altre circostanze della vita si è inclini alla sincerità, e dunque a lasciar trasparire i propri veri pensieri e sentimenti, come quando si è di fronte al mistero della morte.
Scrive, dunque, Nietzsche nel § 125, intitolato L’uomo folle, del libro terzo del La gaia scienza (traduzione di Francesca Ricci, Roma, Newton Compton, 1996, pp. 134-135):
Non avete sentito parlare di quell’uomo folle che, nel chiarore del mattino, accendeva una lampada, andava al mercato, gridava incessantemente: "Cerco Dio! Cerco Dio!". Poiché molti di coloro che si trovavano là non credevano in Dio, suscitò una gran risata. "Si è forse perduto?", disse uno. Ha smarrito la strada, come un bimbo?", disse un altro. "O forse si è nascosto? ha aura di noi? Si è imbarcato? È emigrato?". E così gridavamo e ridevano insieme. Il folle balzò in mezzo a loro e li trafisse con lo sguardo. "Dov’è andato Dio?", gridò. "Ve lo dico io: L’ABBIAMO UCCISO NOI, – voi e io. Noi tutti siamo i suoi assassini. Ma come abbiamo fatto? Come siamo riusciti a bere tutto il mare, fino all’ultima goccia? Chi ci ha dato la spugna per cancellare tutto l’orizzonte? Che cosa abbiamo fatto, quando abbiamo svincolato questa terra dal suo sole? ma in che direzione si muove, adesso? In che direzione ci muoviamo noi? Lontano da ogni sole? Non precipitiamo sempre più? E all’indietro, di lato, in avanti, da ogni parte? Esistono ancora un sotto e un sopra? Non vaghiamo attraverso un nulla infinito? Non avvertiamo l’alito dello spazio vuoto?Non fa più freddo? Non scende di continuo la notte, sempre più notte? Non occorre accendere la lampada anche al mattino? Non sentiamo il frastuono dei becchini che stanno seppellendo Dio? Non sentiamo ancora l’odore della putrefazione divina – anche gli dei si putrefanno? Non è troppo grande per noi, la grandezza di questa azione? Non dobbiamo divenire dei noi stessi, per essere degni di lei? Non c’è mai stata azione più grande – e chi nasce dopo di noi appartiene, in virtù di questa azione, a un storia più elevata di quanto non sia stata la storia fino ad oggi!". A questo punto il folle tacque e riprese ad osservare i suoi ascoltatori; anch’essi tacevano, guardandolo estraniati. Infine egli gettò per terra la sua lampada, che andò in mille pezzi e si spense. "Sono venuto troppo presto", disse, "non è ancora l’ora. Questo evento enorme è ancora per strada, in cammino – non è ancora giunto alle orecchie degli uomini. Lampo e tuono hanno bisogno di tempo, la luce degli astri ha bisogno di tempo, le azioni degli uomini hanno bisogno di tempo, anche dopo essere state compiute, per essere viste e udite. Questa azione è ancora più lontana degli astri più lontani, – EPPURE SONO STATI LORO A COMPIERLA!". Si dice anche che il folle, quello stesso giorno, sia penetrato in diverse chiese e vi abbia intonato il suo "Requiem aeternam deo". A chi lo conduceva fuori e cercava di farlo parlare, rispondeva sempre: "Che cosa sono ormai queste chiese, se non le tombe e i monumenti funebri di Dio".
Invero, a distanza di quasi un secolo e mezzo – La gaia scienza fu pubblicata nel 1882 – appare ancor più la grandezza isolata di Nietzsche ed è ancor valida l’osservazione dell’uomo folle: Sono venuto troppo presto! Infatti, è evidente che, fra tutti gli uomini presenti al mercato, l’uomo folle, che viene identificato, semplicemente, come l’annunciatore della morte di Dio, era il solo uomo autenticamente religioso: il solo che avesse capito la portata abissale della sua morte, il solo che si rendesse conto di quale compito immenso l’umanità si era caricata sulle spalle: quella di trasformare gli uomini in dei, per essere all’altezza dell’azione compiuta e per colmare il vuoto spaventoso che essa ha creato. Non siamo progrediti di un passo: gli uomini d’oggi non sembrano avere elaborato la morte di Dio, né averne tratto le necessarie conseguenze. Diciamo questo restando nella prospettiva di Nietzsche, che è una prospettiva radicalmente naturalista e immanentista; e ponendoci dal suo punto di vista, che è un punto di vista lucido e onesto, ma che noi non condividiamo, anzi, che respingiamo fermamente. Nietzsche, però, come tutti gli uomini geniali – i quali, nella storia, si contano sulle dita delle mani – aveva visto più in là dei suoi contemporanei, molto più in là dei vari Feuerbach, Marx, Darwin, Comte, Taine e di tutti i positivisti e gli scientisti i quali pensavano non vi fosse alcun problema nel sostituire Dio con la scienza, il progresso, la tecnica, eccetera; e aveva compreso il rischio terribile cui si espone una società che rinuncia a Dio, ma non ha niente con cui sostituirlo e che, quindi, procede poggiando i piedi sul vuoto.
D’altra parte, bisognerebbe anzitutto verificare se i presupposti del suo ragionamento sono esatti. Dunque: la morte di Dio. Ma Dio è morto? Siamo sicuri che sia morto? Se rileggiamo bene questa pagina famosa – forse troppo famosa, al punto da esser divenuta il simbolo di ciò che non voleva essere, cioè di un ateismo radicale e auto-evidente – avremo la sorpresa di accorgerci che l’uomo folle non è affatto sicuro. Infatti egli grida: Cerco Dio! Cerco Dio! e solo in un secondo momento, rispondendo ai lazzi ironici della folla, dichiara: l’abbiamo ucciso noi. Ma è come se volesse far capire loro che Dio, anche da morto, è pur sempre abbastanza grande e pesante da poterli schiacciare tutti quanti. Come abbiamo detto, esistino motivi per dubitare che Dio sia così morto come si vuol far credere; ecco: il punto forse è proprio questo, che qualcuno vuol farci credere, già da parecchio tempo, che Dio sia moro e che non valga più la pena di considerare la questione. Certo non può essere un caso se, fra due registi, due romanzieri, due poeti, due pensatori, due storici, uno ateo e uno credente, è sempre o quasi sempre il primo a venire ospitato nei salotti televisivi, a trovare delle case editrici disponibili a pubblicare le sue opere, e dei critici pronti a recensirle favorevolmente, mentre il secondo, a parità di meriti, di originalità, di competenza, di bravura, subisce una silenziosa discriminazione, viene emarginato, oppure, se trova ugualmente la via per arrivare al pubblico, viene boicottato, svalutato, criticato, ridicolizzato. E se ancora non basta, si organizza a freddo un incidente sul terreno, insidiosissimo, del politicamente corretto: gli si fa una domanda perfida, volutamente ambigua, per incastrarlo, e poi, se cade nella trappola, e qualche volta anche se non ci cade, si strilla allo scandalo, si dice che costui ha offeso gli ebrei, o gli islamici, o i negri, o gli omosessuali, o gli handicappati, o le donne, o i lavoratori, o il popolo; si esigono le sue pronte scuse, si giura che mai più gli verrà data l’occasione di spargere veleno, di incitare all’odio sociale, di alimentare i pregiudizi etnici, religiosi, sessisti, eccetera. E in effetti il malcapitato sparisce dalla circolazione, sia che si umili a domandare scusa, sia che non lo faccia. È diventato un lebbroso, un appestato, una persona indesiderabile: non firmerà più articoli sui giornali, non pubblicherà più libri con le maggiori case editrici, non verrà mai più invitato in televisione. Diverrà un fantasma, una persona invisibile; e tutti quelli che avevano a che fare qualcosa con lui, si affretteranno a dissociarsi, a distinguere la loro posizione, a prendere le distanze; soprattutto, non si faranno mai più scorgere nelle sue vicinanze. Insomma, chi lo dice che le persecuzioni dei credenti sono finite? Semplicemente, hanno cambiato aspetto, almeno nei Paesi occidentali. L’importante è che l’opinione pubblica abbia l’impressione che Dio è morto; che solo qualche fanatico, qualche persona astiosa e poco raccomandabile, si ostina a parlare di lui; che le menti più acute e i cuori più generosi hanno abbandonato da un bel pezzo l’ipotesi "Dio", e stanno lavorando per il progresso dell’umanità. Tale è il ricatto morale, psicologico, esistenziale: crede in Duo vuol dire disertare dalla buona battaglia, dalla battaglia per i diritti, per il progresso, per il bene e la felicità di questo mondo; partire dalla constatazione della sua morte equivale a essere dalla parte giusta, a lavorare per il domani, a fare qualcosa di buono per i propri simili. Volete sapere come stanno le cose fra il potere sociale, politico, culturale, e l’uomo moderno che crede in Dio? Leggete, o rileggete, Il Maestro e Margherita, di Michail Bulgakov: nella vicenda dello scrittore che vuol parlare di Gesù Cristo e del suo processo davanti a Pilato, ma subisce il feroce ostracismo dei suoi colleghi, del partito, delle autorità, e infine viene ricoverato in manicomio come malato di mente, vi è l’apologo della condizione dell’intellettuale che non vuol tacere su Dio, e ne subisce le conseguenze. Il romanzo è stato scritto fra il 1928 e il 1940, negli anni più cupi della dittatura staliniana, e ha visto infine la luce solo nel 1966-67, ventisei anni dopo la morte dell’Autore (provate a immaginare perché), ma, quanto al suo messaggio, potrebbe essere stato scritto oggi.
Ora, come osserva Nietzsche, una società che volta le spalle a Dio è come un pianeta che voglia svincolarsi dal suo sole: dove andrà, quale direzione prenderà? Esistono ancora un sopra e un sotto, un dietro e un davanti? Non stiamo forse precipitando, non avvertiamo sempre più buio, sempre più notte, sempre più freddo, e non accendiamo invano le nostre lampade, anche in pieno giorno? Pochi scrittori religiosi avrebbero saputo rendere meglio l’angoscia dell’uomo rimasto senza Dio, di come ha fatto questo filosofo ateo: Nietzsche è uno dei pochi pensatori che ha visto, misurandola, tutta la paurosa immensità dell’abisso che si spalanca sotto i piedi dell’umanità, quando si sia proclamata ufficialmente la morte di Dio; e il suo cuore ne è rimasto turbato. La sua stessa mente, più tardi, ha vacillato e la sua intelligenza si è spenta, ha ceduto sotto lo sforzo immane e disperato di ricostruire ciò che aveva contribuito a distruggere: un orizzonte di senso, una prospettiva di speranza. Perché l’uomo, senza Dio, torna ad essere un nulla; o, come dice Dostoevskij, meno ancora di un insetto…
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