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La crisi della Chiesa è la crisi dei suoi pastori

Qual è il compito affidato ai pastori del gregge di Cristo, ai vescovi e agli arcivescovi che svolgono le loro funzioni all’interno delle rispettive diocesi e arcidiocesi? In primissimo luogo, quello di insegnare la Buona Novella e istruire le pecorelle affinché ricevano tutti gli strumenti atti alla salvezza dell’anima. Dunque, la cosa più importante di tutte non è rilasciare interviste, apparire in televisione, esprimere pareri e opinioni su tutto e di più, magari in ambito politico, o culturale, o comunque diverso da quello della fede; non è guadagnare le copertine dei giornali, e meno ancora far sì che il loro nome corra sulle bocche della gente, magari per le loro stranezze, ad esempio per le loro esibizioni canore dall’ambone della chiesa, o per la loro propensione a parlar male della Chiesa, della dottrina cattolica e della morale cattolica: al contrario, la cosa più importante di tutte è che essi custodiscano fedelmente, intatto e immacolato, il Deposito della fede, così come lo hanno ricevuto dalle mani dei loro predecessori, e, risalendo indietro, da quelle degli Apostoli, nonché di Gesù stesso. Lo dice san Paolo, nella Prima lettera a Timoteo; ma lo aveva detto, ancor meglio, Gesù Cristo, rivolgendosi a Simon Pietro, dopo la Resurrezione: Pasci le mie pecorelle! (Giovanni, 21, 17). Difficilmente si può dire, di un pastore, cosa più bella di questa: ha custodito il Deposito. Sono anche le parole con le quali Giuseppe Siri ha riassunto il significato complessivo del pontificato del defunto Pio XII (cfr. il nostro articolo: "Depositum custodi": custodisci il deposito della fede, pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 24/07/2017):

La dimensione di custode della tradizione è sottolineata anche dal cardinale Siri: "Questa opera magisteriale si volse in più direzioni tra loro collegate. La prima fu quella della verità rivelata. Essa è intoccabile. Quando Pio fu gravemente ammalato, nel 1954, ricevendo per brevi istanti un prelato e stringendogli le mani, disse: "Depositum custodi" ["Custodisci il deposito della fede"], Paolo, Prima lettera a Timoteo, 6, 20; n.d.a.]. Lui era la scolta vigilante. Della Rivelazione toccò in maniera decisa i punti fondamentali, intaccati i quali, tutto poteva essere intaccato. Questa opera magisteriale fu disegno e non pura casualità".

Più precisamente, san Paolo esorta Timoteo a custodire il Deposito, a evitare le chiacchiere profane e a non lasciarsi ricattare dalle obiezioni della cosiddetta scienza. Non si poteva dire di più e meglio, con così poche parole: è una sintesi perfetta del magistero episcopale e, nello stesso tempo, pare una profezia degli errori in cui sono andati a cacciarsi, e a smarrirsi, tanti pastori — o sarebbe più giusto dire ex pastori — dei nostri giorni. Quanti vescovi hanno rinunciato a custodire il Deposito della fede, smaniosi di sempre più sconcertanti novità! Quel cardinale De Kesel, arcivescovo di Bruxelles, ad esempio, il quale, parlando con esponenti del mondo LGBT, ha detto loro che la Chiesa dovrebbe smetterla di condannare gli atti sessuali omofili, e che dovrebbe semmai pensare ad una qualche forma di riconoscimento per le unioni di persone dello stesso sesso. Insomma, una sorta di "sacramento" per celebrare le inversioni sodomitiche. E questo sarebbe custodire il Deposito della fede? Leggiamo ancora san Paolo (1 Corinzi, 6, 9-10):

O non sapete che gli ingiusti non erediteranno il regno di Dio? Non illudetevi: né immorali, né idolatri, né adulteri, né effeminati, né sodomiti, né ladri, né avari, né ubriaconi, né maldicenti, né rapaci erediteranno il regno di Dio. E ancora (Romani, 1, 24-27): Perciò Dio li ha abbandonati all’impurità secondo i desideri del loro cuore, sì da disonorare fra di loro i propri corpi, poiché essi hanno cambiato la verità di Dio con la menzogna e hanno venerato e adorato la creatura al posto del creatore, che è benedetto nei secoli. Amen. Per questo Dio li ha abbandonati a passioni infami; le loro donne hanno cambiato i rapporti naturali in rapporti contro natura. Egualmente anche gli uomini, lasciando il rapporto naturale con la donna, si sono accesi di passione gli uni per gli altri, commettendo atti ignominiosi uomini con uomini, ricevendo così in se stessi la punizione che s’addiceva al loro traviamento. 

E quei vescovi che si abbandonano a chiacchiere profane, invece di esporre e spiegare la Parola di Dio, sono forse fedeli al mandato ricevuto? Quel vescovo Antonio Staglianò, di Noto, che "spiega" il Vangelo, dall’ambone, durante la santa Messa, cantando canzoni di Noemi e di Mengoni, abbassando la serietà del suo ufficio e la sacralità del rito al livello di uno spettacolo da discoteca, rispetta forse il suo mandato di vescovo, di maestro che insegna dalla cattedra la Parola di Dio? E quell’altro, l’arcivescovo di Palermo, Corrado Lorefice, che se ne va in bicicletta nel presbiterio della sua chiesa, osserva il decoro del suo ufficio e si mostra degno erede dei dodici Apostoli? Quanto alle obiezioni della cosiddetta scienza, quanti vescovi e uomini di Chiesa hanno subito questo ricatto, ai nostri giorni! E non della vera scienza, ma della cosiddetta scienza, cioè di quel sapere che pretende di porsi come assoluto, ma assoluto non è, né potrebbe mai essere, essendo sempre e solo un sapere umano, per giunta impregnato di materialismo, di naturalismo e di scetticismo irreligioso: eppure, come è stata rapida e incondizionata la resa dei falsi pastori! Tralasciando la fretta ingiustificata con cui la Chiesa, a partire dal pontificato di Giovanni Paolo II, ha "riconosciuto" l’evoluzionismo darwiniano, forse per farsi perdonare (quattro secoli dopo!) il processo di Galilei, una teoria scientifica che nemmeno tutti gli scienziati hanno accettato, e rispetto alla quale Pio XII aveva mantenuto un atteggiamento di giusta e serena prudenza, che dire di tutti quei vescovi, i quali, suggestionati dai loro amici teologi, hanno accolto in pieno il paradigma scientista e laicista che fa loro leggere le Scritture con le lenti deformanti dello storicismo e del naturalismo, e che, di scetticismo in scetticismo, li porta a mettere in dubbio o a rifiutare, uno dopo l’altro, i miracoli di Gesù, poi la risurrezione di Gesù, infine la divinità di Gesù, e, naturalmente, la sua Presenza Reale nell’Eucaristia? Così si fanno contenti i "fratelli" luterani,che alla Presenza Reale non ci credono, e, indirettamente (ma forse è proprio questo il vero scopo!) si fanno contenti anche i giudei e gli islamici: i primi, togliendo di mezzo quel fastidioso Gesù Cristo che essi hanno rifiutato e crocefisso, che per loro è solo un falso profeta e per il cui assassinio non si sono mai sognati di domandare scusa, mentre gli ultimi papi, dopo il Concilio, si sono profusi in mille scuse verso di essi, per delle colpe vere e immaginarie, compreso l’immaginario "silenzio" di Pio XII sull’Olocausto; i secondi, perché non credono che Gesù sia stato un falso profeta, ma comunque lo ritengono solo un uomo, e giudicano sacrilego il culto a Lui tributato dai cristiani. E così, che bellezza, non ci saranno più nemici, la Chiesa avrà solo amici: tutti, protestanti, giudei, musulmani; peccato solo che, a quel punto, essa di cattolico avrà conservato il nome, ma non avrà più, oltre al nome, nient’altro. E a questo punto ci stiamo pericolosamente avvicinando: ad una Chiesa che non è più la vera Chiesa di Cristo, ma un’altra cosa, una contraffazione, una prostituta svergognata che vuol piacere al mondo, che vuole andare d’accordo con tutti, che alla croce preferisce gli applausi; e a un episcopato indegno, fanfarone, vile e apostatico, che non si sognerebbe mai di dare la vita per difendere il gregge che le è stato affidato, ma che, in compenso, non si stanca mai delle luci dei riflettori, della televisione, dalla stampa, delle autorità mondane e dei cosiddetti intellettuali laici che lodano quei pastori, come De Kesel, che parlano la lingua del mondo, ma tradiscono la Parola di Dio, senza alcuna scusante. E che dire del vescovo McMahon e del cardinale Nichols, che hanno abbandonato le loro pecorelle e si sono inginocchiati davanti alla cosiddetta scienza medica?

Anche Giovanni Paolo II ha dedicato alcune speciali riflessioni alla figura e al ruolo del vescovo cattolico, lui che per molti anni era stato arcivescovo di Cracovia; ne riportiamo una che svolse nel suo libro Alzatevi, andiamo! (Libreria Editrice Vaticana, 2004, pp. 35-37):

Dopo la preghiera di ordinazione, il rituale prevede la consegna del libro del Vangelo al vescovo ordinato. Questo gesto indica che il vescovo deve accogliere e annunziare la Buona Novella. È quindi il segno della presenza nella Chiesa di Gesù Maestro. Ciò significa che l’insegnamento appartiene all’essenza della vocazione del vescovo:  egli deve essere maestro.

Sappiamo quanti eminenti vescovi, dall’antichità fino ai tempi nostri, realizzarono in modo esemplare tale chiamata, facendo tesoro della prudente ammonizione dell’apostolo Paolo, da cui si sentirono personalmente interpellati: "O Timoteo, custodisci il deposito [della fede]; evita le chiacchiere profane e le obiezioni della cosiddetta scienza"(1 Tm 6,20). Furono validi maestri, perché concentrarono la loro vita spirituale intorno all’ascolto e all’annunzio della Parola. In altri termini, seppero abbandonare le parole inutili, per dedicarsi con ogni loro energia alla "sola cosa di cui c’è bisogno" (cfr. Lc 10,42).

Compito del vescovo, infatti, è di farsi servitore della Parola. Proprio come maestro egli siede sulla cattedra – quel seggio posto emblematicamente nella chiesa,  detta appunto "cattedrale" – per predicare, per annunziare e per spiegare la Parola di Dio. Il nostro tempo propone nuove esigenze ai vescovi in quanto maestri, ma offre loro anche nuovi stupendi mezzi con l’aiuto dei quali annunziare il Vangelo. La facilità degli spostamenti permette loro di visitare spesso le varie chiese e comunità della propria diocesi. Sono a loro disposizione la radio, la televisione, Internet, la carta stampata. Nell’annunziare la Parola di Dio, i vescovi sono coadiuvati dai sacerdoti e dai diaconi, dai catechisti e dai maestri, dai professori di teologia e da un numero sempre maggiore di laici colti e fedeli al Vangelo.

Tuttavia, nulla può sostituire la presenza del vescovo che si siede sulla cattedra o si presenta all’ambone  della sua chiesa vescovile e personalmente  spiega la Parola di Dio a coloro che ha radunato intorno a sé: Anch’egli come lo "scriba divenuto discepolo del regno dei cieli è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche"(Mt 13,52). Mi piace qui menzionare il cardinale Carlo Maria Martini, arcivescovo emerito di Milano, le cui catechesi nella  cattedrale della sua città attiravano moltitudini di persone, alle quali egli svelava il tesoro della Parola di Dio. Il suo non è che uno dei numerosi esempi che provano come sia grande nella gente la fame  della Parola di Dio. Quanto è importante che questa fame venga saziata!

Sempre mi ha accompagnatola convinzione che, se voglio saziare negli atri questa fame interiore, occorre che, sull’esempio di Maria, ascolti io per primo la Parola di Dio e "la mediti nel mio cuore" (cfr. Lc 2,19). Al tempo stesso, ho capito sempre meglio che il vescovo deve anche saper ascoltare le persone alle quali annunzia la Buona Novella. Di fronte all’attuale diluvio di parole, di immagini e di suoni, è importante però che il vescovo non si lasci frastornare. Egli deve porsi in ascolto di Dio e dei suoi interlocutori, nella convinzione che tutti siamo uniti nello stesso mistero della Parola di Dio sulla salvezza.

Questa è davvero una strana pagina di prosa. La prima metà è una esposizione di quel che deve essere l’ufficio dell’autentico pastore, e la si può sottoscrivere senz’altro. Ma poi, di colpo, ecco che Wojtyla passa a fare un esempio di vero pastore, e nomina il cardinale Carlo Maria Martini. Come è possibile non vedere la stridente contraddizione? Martini era, già allora, il regista della "mafia di San Gallo", un gruppo di spregiudicati cardinali ben decisi a sbarrare la strada all’elezione del conservatore Ratzinger per favorire l’elezione al soglio pontificio di uno dei "loro"; e se poi i loro piani subirono una modifica, fu solo per ragioni tattiche. Martini, in ogni caso, per i suoi contatti con la massoneria e la cultura massonica; per il suo ossequio esagerato verso i "fratelli maggiori" ebrei (ma perché fratelli maggiori, poi? come si può evidenziare il carattere di "fratelli maggiori", e ignorare che furono i persecutori di Gesù e della Chiesa delle origini?); per le sue aperture verso l’ateismo militante (vedi la "cattedra dei non credenti" da lui inventata a Milano); per la teatralità, la demagogia e la spregiudicatezza di tanti suoi gesti e atteggiamenti; per le sue palesi ambizioni di carriera, di lui gesuita, che, come tale, non avrebbe dovuto essere né vescovo, né cardinale; per le sue simpatie alla politica progressista, tanto da esser universalmente noto, specie presso il partito de La Repubblica, come "il papa rosso"; per le sue posizioni possibiliste su temi come l’eutanasia e le unioni civili, comprese quelle omofile; per il carattere fortemente divisivo di tutta la sua azione pastorale e della sua stessa personalità, visto che non aveva mai nascosto le più aspre critiche alla Humane Vitae: per tutte queste ragioni, a voler citare solo le principali, come poteva essere portato a esempio di autentico vescovo cattolico? E come poteva fare ciò proprio il papa Giovanni Paolo II?

Fonte dell'immagine in evidenza: RAI

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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