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Dobbiamo reagire alla dittatura del fatto

Se dovessimo sintetizzare in una sola formula i tratti essenziali della odierna degenerazione intellettuale, spirituale, morale, che si esprime in un relativismo pressoché assoluto, eretto al rango di dogma fondamentale del politically correct, diremmo che ciò a cui siamo di fronte è la dittatura del fatto, della prassi, dell’agire, rispetto al valore, al pensiero, al volere: una svolta rivoluzionaria che scardina secoli e millenni di tradizione.

La dittatura del fatto, che oggi grava su di noi con tutto il suo peso, è la fase culminante di una lunga, paziente, metodica e non sempre visibile marcia di avvicinamento che alcune minoranze molto decise, bene organizzate e sostenute nascostamente da potenti lobby finanziarie, hanno portato avanti con incrollabile tenacia, favorite, peraltro, da un dato oggettivo dello statuto ontologico della creatura umana: la tendenza ad adagiarsi nella posizione più comoda e meno faticosa, ogni qualvolta si affievolisce e si attenua la struttura morale che sostiene la società. Esula dalla presente riflessione approfondire tale aspetto, che pure è d’immensa importanza; ci limiteremo a ricordare che , mentre il pensiero razionalista, che incomincia con Machiavelli, attribuisce quella tendenza a una debolezza intrinseca della natura umana, per il pensiero cristiano si tratta di una ferita recata dal Peccato originale, da cui si è originata, nell’umanità decaduta, una propensione al male, chiamata dai teologo concupiscenza. Sia come sia — non è questa la sede per sviluppare adeguatamente il concetto, e, del resto, lo abbiamo fatto altre volte, in contesti specifici — su di un punto l’analisi razionalista e quella cristiana convergono e parzialmente coincidono: il giudizio pessimistico sulla natura umana, così come essa è al presente, cioè nella dimensione storica. Subito dopo le due prospettive tornano a divergere: perché per gli uni la condizione umana è questa e non può mutare; per gli altri esiste una dimensione ulteriore, di ordine soprannaturale, grazie alla quale, con l’aiuto della grazia divina, gli uomini possono elevarsi dalla condizione presente, dominata dalla concupiscenza, ad uno stato di "giustizia" di cui, da soli, non sarebbero capaci: in ogni caso, non tutti indiscriminatamente, ma solo a livello individuale, quelli che accolgono la chiamata di Dio e si aprono all’azione rigenerante dello Spirito Santo.

In che cosa consiste, esattamente, quella che abbiamo chiamato la dittatura del fatto? In questo: che la realtà di fatto tende ad imporsi su ogni altra cosa, anche sul nomos, sulla legge, nonché sulla morale, in base al principio che ciò che esiste, deve essere riconosciuto, perché il non farlo rappresenterebbe una forma d’irrealismo; e, inoltre, sarebbe una forma d’intolleranza da parte dei detentori dello stesso nomos. In questa idea, alquanto lambiccata e contorta, vi è la logica conseguenza delle premesse del pensiero liberale. Il pensiero liberale afferma che ciascuno è libero di pensare e di fare quel che vuole, quel che ritiene giusto e vero, purché rispetti un certo quadro normativo riconosciuto dalla società e stabilito per legge. Questa non è un’idea contorta, ma estremamente semplice: il pensiero liberale è un pensiero semplice, per non dire semplicistico e, in un certo senso, rozzo; infatti il suo massimo teorico, John Locke, è un filosofo quasi del tutto privo di profondità e di sottigliezza speculativa, un filosofo adatto per una società in rapida espansione materiale, ma intellettualmente primitiva, quale era l’Inghilterra alla fine del XVIII secolo. Tale idea diventa, però, lambiccata e contorta allorché viene sviluppata, sulla base delle sue stesse premesse. È il destino del relativismo: perché la concezione liberale è una concezione intrinsecamente e inesorabilmente relativista. Ciascuno ha la sua verità, e nessuno ha il diritto di contestargliela, se non a termini di legge: e infatti, nella liberale cultura odierna, tutti possono dir tutto, però se qualcuno si permette di cantare fuori del coro politicamente corretto, deve aspettarsi di venir zittito a colpi di querela: i liberali non sanno ragionare dialetticamente, sanno solo fare ricorso alla polizia. E se qualcuno obiettasse che questa è la tipica maniera di fare del comunisti e non del liberali, risponderemmo che il comunismo non è l’opposto del liberalismo, ma uno dei suoi naturali e legittimi sviluppi: perché Marx è impensabile senza Locke, attraverso il passaggio intermedio di Rousseau e del pensiero democratico; e che il radicalismo è un altro, e ancor più pregnante, sviluppo del liberalismo, e i radicali sono appunto quelli che prediligono la dialettica politica a suon di esposti alla magistratura (oh, ma per proteggere i diritti della persona e per tutelare le povere minoranze indifese e conculcate, sia ben chiaro, non perché siano inclini al brutto vizio dell’intolleranza, loro che darebbero la vita perché ciascuno possa dir la sua). L’idea che ciascuno abbia la sua verità da far valere, diviene, dunque, lambiccata e contorta quando pretende di offrire un sostegno normativo a ciascuna delle infinite verità di ciascun soggetto sociale, il che vediamo accadere sempre più spesso.

Ci sia concesso un piccolo e irriverente esempio. In base alle premesse della cultura liberale, oggi una persona ha il diritto, per ragioni sue private e insindacabili, di decidere se la propria identità sessuale sia per caso "sbagliata" rispetto ai suoi desideri, e perciò di correggerla. Non solo: ha anche il diritto che gli alti si adeguino all’idea che egli ha della propria identità sessuale. Pertanto, non solo un uomo ha il diritto, riconosciuto per legge, di cambiare sesso e diventare donna, mediante una serie d’interventi, medici e chirurgici, eseguiti nelle strutture pubbliche e a spese della sanità pubblica; ma ha anche il diritto che gli altri lo considerino una donna, dal momento che la sua carta d’identità è stata modificata e su di essa non figura più il vecchio nome maschile, ma il nuovo nome femminile: non più Mario, ma Maria. Arrivati a questo punto, non ha alcuna importanza quale sia la percezione che gli altri hanno di lui; non ha importanza neppure il fatto che tale percezione si basi su dei dati assolutamente oggettivi: ad esempio la presenza della barba, dei baffi, eccetera; prima ancora di aver eseguito l’operazione del cambio di sesso, o, al limite, anche senza averla compiuta, il signor Mario, diventato Maria, ha il diritto di essere riconosciuto, anzi, riconosciuta, come donna, da tutti gli altri; ha il diritto di vestire come una donna e di presentarsi ovunque, anche sul luogo di lavoro, vestito da donna, con le calze a rete, la minigonna e i tacchi a spillo, se così gli/ le piace; ha il diritto, infine, e questo è il segno finale che esiste un regime dittatoriale, di querelare e ottenere la condanna di tutti quei soggetti i quali n si mostrino solerti nel riconoscere il suo/la sua nuova identità sessuale e lascino trasparire, in qualunque maniera, che lei, per loro, è ancora "lui". È però evidente che questo tipo di sovrapposizione del fatto, diciamo del fatto ideologico (e non del fatto puro: perché, quanto al fatto puro, un uomo che diventa donna è pur sempre un uomo trasformato parzialmente in donna, tanto è vero che, se se sospende la cura ormonale, gli ricrescono i peli e spariscono i seni), conduce fatalmente a delle conseguenze contraddittorie e aberranti. Che cosa succederebbe, per esempio, se la signora Maria, pentitasi del passo compiuto, così come certe persone si pentono di aver tatuato il nome dell’amante sul proprio fondoschiena, decidesse di fare marcia indietro e di ripristinare la propria identità precedente, quella maschile? Di nuovo, anche gli altri dovranno adeguarsi, evidentemente. E così per chi sa quante volte, qualora Mario cambiasse nuovamente idea e volesse ritornare Maria, e viceversa. E che succede se, nel frattempo, la signora Maria, che ha deciso di tornare ad essere il signor Mario, ma si trova ancora, diciamo così, "in mezzo al guado", si vede nella necessità di andare al bagno in un locale pubblico? Avrà il diritto (e il dovere) di servirsi della toilette maschile, oppure di quella femminile? E gli altri clienti del locale, recandosi al bagno, come dovranno regolarsi, trovando una "donna" nei bagni maschili, ovvero un "uomo" in quelli femminili, a seconda dei punti di vista (Pirandello, aiutaci)? Dovranno chiedere l’intervento del personale, il quale la (lo) pregherà di esibire la propria carta d’identità, per vedere se quella persona che vuol servirsi della toilette è identificata come uomo o come donna? Non stiamo scherzando su un tema serio: è l’ideologia liberal-radicale che trascina tutte le cose verso la farsa. Del resto, si tratta di un teatrino che è realmente accaduto: qualcuno forse ricorderà la dotta disputa sull’uso dei cessi di Montecitorio che si accese, a suo tempo, fra la deputata Elisabetta Gardini e il deputato, pardon, la deputata Wladimir Luxuria.

Dunque, tornando al punto: la dittatura del fatto pretende che i cittadini si sottomettano a ciò che esiste, o, per dir meglio, a ciò che si presenta come un fatto compiuto (naturale o artificiale che sia). Non conta più quel che deve essere, o quel che è giusto che sia: conta solo quel che è, quel che si è verificato, e davanti al quale tutti debbono inchinarsi e riconoscerlo come sacro e inviolabile. Lo Stato per primo si è messo su questa strada, e ora anche la Chiesa cattolica sta bruciando i tempi per uniformarsi. I coniugi non hanno più voglia di sentirsi legati per tutta la vita, trovano che l’indissolubilità del matrimonio sia una norma troppo dura? Nessun problema: si vara la legge sul divorzio. I cattolici, divorziati risposati, trovano che sia cosa troppo dura restare esclusi dai Sacramenti, non poter fare la santa Comunione? Nessun problema: la misericordia di Dio è grande, i preti sono autorizzati a comunicarli. Altro caso: la donna vuol decidere se far nascere o no il bambino che porta in grembo, non vuole che del suo corpo decida qualcun altro? Bene, si approva la legge sull’interruzione volontaria della gravidanza. La donna cattolica che ha abortito, pensa che sia cosa troppo dura essere esclusa dai Sacramenti per quel suo errore, per quel suo peccato, e vorrebbe rientrare nell’esercizio dei suoi "diritti" di credente? Ma certo: ai vescovi il papa domanda di essere comprensivi, anzi, affida la remissione di quel peccato a qualsiasi sacerdote, non c’è più bisogno dell’assoluzione del vescovo. Altro caso ancora. La gente trova che sposarsi sia troppo faticoso, che comporti troppi inconvenienti, però desidera usufruire di gran parte dei vantaggi legali che derivano dallo stato matrimoniale? Niente paura: lo Stato riconosce le unioni di fatto e le equipara, per molti aspetti, al matrimonio. E i cattolici? Anche per loro il matrimonio religioso ha perso gran parte della sua attrattiva: la Conferenza episcopale tedesca, per esempio, fa un’indagine e rileva che nove cattolici su dieci convivono senza sposarsi, e ne prende atto, senza una parola di biasimo. Alla Chiesa viene suggerito, da dotti teologi, come Walter Kasper, che essa dovrebbe adeguarsi al nuovo sentire delle persone; che se i cattolici non applicano, nella loro vita, la morale sessuale predicata dalla Chiesa (non solo per la convivenza o per la contraccezione, ma per tutti gli altri aspetti, omosessualità compresa), allora è necessario che questa distanza venga superata, portando la Chiesa a riconoscere il fatto della nuova morale sessuale dei cattolici. Non dice sempre, il signor Bergoglio, che la dottrina è una cosa cattiva se crea divisioni, mentre bisogna cercare tutto quello che unisce? Ecco: il riconoscimento del fatto sarebbe di grande utilità alla Chiesa, perché le permetterebbe di ricucire lo strappo che si è creato fra ciò che essa insegna e il modo di vivere dei credenti. Ebbene: questa è una concezione pragmatica e fattuale della dottrina; cioè, in pratica, la sottomissione della dottrina alla prassi. Le premesse ideologiche di questo orientamento non sono recenti: risalgono almeno al Concilio Vaticano II. Il Concilio fu, per ammissione dei suoi stessi fautori, un concilio puramente pastorale e non teologico o dottrinale: pure, esso è stato sempre invocato, da allora ad oggi, come la norma a cui la "nuova" chiesa si deve ispirare. Ora il signor Bergoglio va proclamando che è arrivato il tempo di "realizzare" pienamente il Concilio, realizzazione che i conservatori, con i loro perfidi maneggi e la loro sorda e ottusa resistenza, hanno finora ritardato e boicottato. Benissimo: a quei signori, però, non viene in mente che se la dottrina si inchina alla pastorale, se la teoria si uniforma alla prassi, la norma diventa puramente empirica e si cade nella dittatura del relativismo. La Chiesa non insegna più la verità, non è più la custode del Deposito della fede, che viene dalla divina Rivelazione ed è perenne e immutabile; la Chiesa si riduce ad essere uno dei tanti prodotti ideologici di questo mondo, soggetto, come tutte le cose di quaggiù, alle leggi del tempo, della continua lotta fra la tradizione e il progresso. Infatti, i cattolici progressisti mirano proprio a questo (scordandosi che non per capriccio si scrive Tradizione con la maiuscola, in quanto verità di origine soprannaturale). E non li sfiora il sospetto che un cattolico progressista è una contraddizione in termini; e che un cattolico che vive in maniera difforme da ciò che insegna, da sempre, la Chiesa, non è affatto un cattolico, anche se insiste a considerarsi tale, ma un apostata. Pertanto, ciò che propone il teologo Kasper, sulla scia del suo maestro Karl Rahner, è una chiesa apostatica, una dottrina apostatica, una magistero apostatico: un "nuovo" cattolicesimo che traghetti tutti quanti i credenti dalla verità di Cristo agli errori del mondo, senza che se ne rendano neppure conto e con la benedizione di questo (falso) clero. Sono precisamente le posizioni che furono sostenute, qualche anno fa, dal movimento Noi siamo chiesa, i cui capi sono stati poi scomunicati, per manifesta eresia, ma che ora, a posteriori, trionfano, perché sono riusciti a far passare le loro idee eretiche dentro la Chiesa cattolica. Una quantità di teologi, vescovi e sacerdoti dicono, infatti, sulla loro scia, che siccome milioni di cattolici vivono in questo modo, allora, perché la Chiesa non dovrebbe dare il placet? Dopotutto, essi dicono, la Chiesa è viva, non un’astrazione…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Christian Lue su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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