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Figli dell’Europa, davvero volete questo?

Ormai non è possibile girare per una qualsiasi città dell’Europa centro-occidentale, ad eccezione della Penisola Iberica, senza domandarsi, a tratti, se ci si trovi davvero in Europa o se per caso non si sia stati scaraventati, per una impiegabile e fantascientifica distorsione spazio-temporale, in qualche suq mediorientale o in qualche kasbah marocchina, oppure in una periferia della Nigeria o del Congo, o magari del Bangla Desh, o anche in qualche città cinese. Insegne in lingua araba o in lingua han, cartelloni in hindi o in bengali, turbanti nordafricani, caffettani pakistani, chador e burqua indossati con disinvoltura da donne invisibili, grosse negre con minuscole treccine e ampie gonne multicolori, uomini sikh dalle grandi barbe, ivoriani e senegalesi dalle lunghe tuniche di cotone: par di trovarsi in una fiaba delle Mille e una notte. Solo che non è una fiaba, né un racconto di fantascienza: è la realtà, una realtà irreversibile. Le cos e non cambiano più; l’Europa non sarà mai quella di prima, di due o tre decenni fa: il continente degli europei, della civiltà europea, dell’arte, del pensiero e della religione europea, cioè il cristianesimo. Si è creata una situazione di fatto in un tempo più breve di quel che occorreva per rendersene conto: come nel gioco delle tre carte, i nostri politici hanno fatto sì che la stragrande maggioranza dei loro concittadini non arrivasse neppure a realizzare quel che bolliva in pentola. Non è che essi lo abbiano voluto; se ne sono resi volonterosi esecutori. A volerlo, sono stati i signori della finanza mondiale: un circolo esclusivo riservato a pochissimi. Là è stato deciso che l’Europa dove scomparire sotto il peso di una immigrazione selvaggia proveniente dall’Africa e dell’Asia; che i suoi popoli devono perdere le cloro caratteristiche culturali e perfino quelle fisiche; che solo così si raggiungerà il duplice obiettivo di far crollare il costo del lavoro, gettando sul mercato milioni di sottoproletari, e di cancellare l’identità europea, specialmente quella cristiana, come già da tempo studiato e progettato (vedi il Piano Kalergi). Infatti, avere una identità è una forma di autocoscienza, e per trasformare gli esseri umani in bestie da lavoro e in ciechi consumatori è preferibile che essi non ne abbiano alcuna. L’autocoscienza del cristiano, poi, è particolarmente forte: pertanto va abbattuta.

Tutto questo processo è stato realizzato in tempi relativamente brevi, fra la fine degli anni ’90 e oggi: una ventina d’anni o poco più; meno di una generazione. Ora, anche ammesso — per pura ipotesi — che gli europei vogliano e sappiano trovare la maniera di fermare questo flusso gigantesco, cosa resa pressoché impossibile dal ricatto buonista e umanitario — resta il fatto che con i rispettivi tassi d’incremento demografico, degli europei "vecchi", cioè dei veri europei, e dei "nuovi", cioè degli africani e degli asiatici che hanno acquisito la cittadinanza europea o che la acquisiranno nei prossimi anni, l’Europa è destinata irrevocabilmente a diventare un continente multietnico e, come si dice, multiculturale: una realtà simile a quella statunitense, con la non lieve differenza che gli Stati Uniti sono stati sempre, fin dall’inizio, una nazione d’immigrati; che hanno avuto due secoli e mezzo per procedere a una qualche forma d’integrazione delle diverse componenti; e che si sono presi la libertà di fissare dei contingenti per ciascun Paese di provenienza, e anche quella di vietare del tutto l’ingresso agli stranieri di provenienza non gradita (ancora oggi non molti sanno che una delle cause della Seconda guerra mondiale, sul versante del Pacifico, furono i provvedimenti razzisti presi da Washington nei confronti della immigrazione di provenienza giapponese; ma, se non si sa questo, non si può comprendere nemmeno Pearl Harbor). Non solo: gli Stati Uniti decisero di escludere dal numero degli immigrati tutti i dementi, i malati, i nullatenenti, gli analfabeti, le prostitute, gli anarchici, selezionando così i richiedenti non solo in base all’etnia, ma anche alle caratteristiche sociali e culturali, e al profilo igienico-sanitario. Non prendevano tutti; non subivano il ricatto buonista e umanitario: non volevano saperne di chi non fosse in buone condizioni fisiche, non sapesse leggere e scrivere, non desse affidamento in quanto ad onestà. Il ragionamento dei loro governati era: prima gli interessi nazionali; nulla che possa comprometterli.

Ma la differenza sostanziale è che, negli Stati Uniti, entrava solo chi aveva i documenti in regola, chi veniva per lavorare, chi poteva dimostrare di essere quel che diceva di essere: non certo masse di giovanotti senza documenti o con documenti falsi, o con i polpastrelli abrasi per non farsi rilevare le impronte digitali. Non c’era il ricatto dei barconi in pericolo di affondare; non c’era il ricatto: Tu mi devi far sbarcare, perché ne ho il diritto; e una volta sbarcato, troverò il modo di restare in ogni caso. Se gli immigrati si comportavano male e le loro azioni andavano oltre una certa soglia di tollerabilità, scoppiava una dura reazione da parte degli ospitanti. A New Orleans, nel 1891, la folla linciò e appese ai lampioni una decina di italiani, quasi tutti siciliani, in seguito ad alcuni gravi fatti di criminalità partiti, guarda caso, dalla famiglia Provenzano. Nessuno dice che tali azioni fossero giuste, tanto meno legittime; però il significato era chiaro: chi entra in questo Paese ci viene per lavorare; se viene per fare il delinquente, avrà la vita dura. È doloroso che, in tali situazioni, ci vadano sempre di mezzo degli innocenti; ma la sostanza del discorso resta: patti chiari e amicizia lunga; altrimenti, restatevene nei vostri Paesi di provenienza. Ora tutti vedono come vanno le cose in Europa, ma specialmente in Italia; ogni qual volta un "migrante" e un presunto profugo viene pizzicato a delinquere, per esempio rubare o spacciare droga, subito trova un magistrato buonista e progressista che lo giustifica e lo rimette in libertà. Anche se costui ha preso a coltellate gli uomini delle forze dell’ordine. Se poi un cittadino, per difendersi, ricorre alla violenza dentro la sua proprietà, magari per difendere moglie e figli nel cuore della notte, a trovarsi sotto processo è lui, non il delinquente che si è introdotto in casa sua; se gli procura delle ferite, dovrà pagargli le cure mediche, e, se le lesioni sono permanenti, dovrà pagargliele per tutta la vita. Se un capotreno fa scendere dal convoglio uno straniero che viaggia senza biglietto, il giudice condanna il capotreno per abuso d’ufficio e gli rifila qualche mese di prigione. Da noi, cioè, avviene l’esatto contrario di quel cha avveniva (e avviene) negli Stati Unti: la legge non sta dalla parte del cittadino onesto, ma dalla parte del delinquente straniero.

C’è poi un’altra cosa da tener presente. Gi americani del XIX secolo e del principio del XX, cioè nel periodo culminante dell’immigrazione, erano ancora un popolo giovane, vigoroso, pieno di fiducia in se stesso e nel proprio avvenire; mentre gli europei di questa generazione sono gente sempre più fiacca, senile per età e per animo, spenta, rinunciataria: non fanno figli, non credono nel futuro, vedono nero, semmai comprano un cane o si mettono con un "compagno" dello stesso sesso; oppure fanno all’amore con un amico o un’amica e poi tornano ciascuno a casa sua, magari dal papà e dalla mamma. Insomma non progettano alcun futuro, vivono nel presente, non hanno memoria del passato e non hanno alcuna speranza nel domani. La televisione, il computer, il telefonino, un po’ di palestra, un po’ di shopping, qualche viaggetto, qualche serata in discoteca. E basta. Questo, per quanti hanno un lavoro. Per gli altri, per quanti campano senza lavoro, Dio sa come, oppure di lavoro precario, nemmeno tanto: vale a dire che trascinano i loro giorni, nel senso letterale dell’espressione, rimuginando o fantasticando: rimuginando su tutto ciò che non hanno e non possono concedersi, fantasticano sulla vincita al Totocalcio o sul magico incontro con il Principe Azzurro (o con la Principessa), purché danaroso. Gli immigrati africani e asiatici, invece, sono gente piena di energia (il che non coincide per forza con il concetto di aver voglia di lavorare), abituata ai sacrifici e alla vita dura; gente giovane, decisa, con una fede religiosa molto forte, per non dire fanatica; gente abituata ad obbedire ai genitori, a imporsi una disciplina, ma altrettanto propensa a non avere alcuna disciplina, se appena annusa l’aria del Paese ospitante e mangia la foglia che lì troverà solo porte aperte e sentieri facilitati, e che il colore della sua pelle sarà un biglietto di presentazione che le garantirà la precedenza in tutta una serie di strutture e situazioni, dalla scuola alla sanità. Quanto ai figli, per capire quanti ne fanno basta scendere in strada e passeggiare cinque minuti: ad ogni passo s’incontrano donne islamiche con la carrozzella o i figli piccoli in braccio, o donne incinte, o numerose famiglie in processione, a piedi o in bicicletta: contrasto impressionante con le coppie "locali" che se ne vanno a spasso con Fido. Oh, ma Fido è tenuto benissimo, con ogni riguardo: con due o tre copertine per non prender freddo (l’inverno italiano è come quello russo, per quei ferventi cinofili), e la visita dal veterinario al primo starnuto, e la pappa speciale per mantener la linea e assorbire tante vitamine.

Altro fattore a noi sfavorevole, anche se pochissimo considerato: l’ignoranza e la volubilità delle nuove generazioni. Del passato sanno poco e non se ne interessano affatto; com’era il loro paese prima che nascessero; cosa facevano, non diciamo i nonni o i bisnonni, ma anche solo i genitori, prima di conoscersi, è cosa che non li riguarda. Non sono pochi i bambini delle elementari che non sanno dire che mestiere fanno i genitori. Che caratteristiche abbia il paese o la città in cui abitano; quali siano le opere d’arte, i monumenti, le cose degne d’essere viste; quali le vicende storiche, locali e nazionali: qui si vaga nel vuoto, vicino allo zero assoluto. Molti giovani sanno tutto del Grande Fratello e dell’Isola dei Famosi, ma non sanno chi erano Mazzini o Cavour, non sanno gli schieramenti nelle due guerre mondiali, non sanno che cos’era la Guerra fredda, non sanno cos’era il Muro di Berlino. Non osiamo andare più indietro: si potrebbe scoprire che, per alcuni, Mussolini e Napoleone erano contemporanei, o che il Risorgimento e il Rinascimento sono la stessa cosa. E forse stiamo parlando di ragazzi di liceo, i quali (bene o male) sanno fare una versione di greco e risolvere un problema di trigonometria; figuriamoci quelli che hanno smesso di andare a scuola, quelli che vanno subito a lavorare. Questo, per ciò che riguarda l’ignoranza; alla quale poi si aggiunge la volubilità. Molte persone, oggi, specialmente giovani (ma non solo), sembrano aver smarrito la capacità di tener fermo in una decisione, di perseverare in una scelta liberamente presa, e poi si meravigliano del fatto che rimangano dei conti in sospeso, e in un modo o nell’altro li si deve saldare. È come se non si rendessero conto che vi sono decisioni dalle quali non si può tornare indietro, o si può tornare indietro solo con grandissima difficoltà. Mettersi a vivere con un’altra persona, per esempio, specialmente ora che il matrimonio è passato di moda: lo si fa con molta leggerezza; poi si vedrà. Se arriva la crisi, ci si lascia: tanto, che problema c’è? Pure, qualcuno va fuori di testa; qualcuno non accetta di essere scaricato, diventa furioso: sono effetti collaterali. Oggi ci amiamo, dunque ci si fa il tatuaggio indelebile con il nome dell’amato o dell’amata: sul braccio, sulla spalla, sul polpaccio, sul seno, vicino alle parti intime. Ma che succede se l’amato se ne va, se l’amata non è più amata? Resta, al netto della separazione, il problema del tatuaggio: e allora sono spese e sudori per liberarsi dalla scritta o dal disegno che rievocano infauste memorie. Ora, a una popolazione così smemorata, così immatura, così superficiale nel capire quel che è per sempre e quel che dura due settimane, non si può chiedere di capire quel che sarà l’Europa fra due generazioni: non arrivano a vedere più in là del mese prossimo, a dire tanto. Ed è proprio su questo che giocano i poteri mondiali impegnati nell’operazione "migrazioni". Gli europei, nella grande maggioranza, non si rendono conto che lasciar entrare nei loro Paesi, ogni anno, decine e centinaia di migliaia di stranieri equivale a ipotecare il loro stesso futuro e quello dei loro figli; equivale a cambiare per sempre, in maniera definitiva, il volto stesso dell’Europa, i suoi usi e costumi, la sua cucina, la sua politica, la sua religione, la sua cultura, la sua scuola, il suo sport, il suo cinema, la sua televisione, tutto ciò di cui è fatta la vita, pubblica e privata.

Vengono in mente quei capi tribù africani, o quei sakem pellirossa, che si vedevano venire incontro un compito ufficiale bianco, latore di un bel messaggio da parte del suo governo, nonché di lauti doni a titolo personale: perline di vetro, stoffe colorate, un barilotto di whisky, magari addirittura un fucile; in cambio, l’ufficiale chiedeva una cosa da nulla: una firma; e siccome il capo non sapeva firmare, un segno, una croce, uno svolazzo sopra un pezzo di carta. Un gesto da nulla: solo che, con quel gesto, egli vendeva le terre del suo popolo, rinunciava ad ogni diritto su di esse; e magari finiva per scoprire, in un secondo momento, di aver venduto le terre migliori, o quasi tutte le terre della sua tribù. Ecco: noi europei, oggi, siamo nella situazione, non di quei capitribù, ma dei membri di quelle tribù: la nostra terra è stata ceduta, il nostro futuro è stato ipotecato, e il futuro dei nostri figli si è fatto ancora più incerto di quanto già non fosse per colpa nostra. Ma stavolta non è colpa nostra: stavolta qualcuno ce l’ha fatta sporca, senza che venisse chiesto il nostro parere. Certo, si può sempre protestare: e subito si viene messi alla gogna come razzisti e fomentatori d’odio; del resto, non serve assolutamente a nulla. Non è più tempo di protestare, ma d’agire. Che cosa facevano, quei popoli derubati del loro futuro, quando scoprivano la verità? Primo, cacciavano i capi che avevano firmato gli iniqui trattati; secondo, si organizzavano per resistere. Non si rassegnavamo, dicendo: ormai è troppo tardi. No: lottavano strenuamente per sopravvivere. Perché tale era la posta in gioco.

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Christian Lue su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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