
«E quindi uscimmo a riveder le stelle»
11 Aprile 2018
Quel virus modernista che parte da lontano
12 Aprile 2018La nostra condizione attuale è simile a quella di un prigioniero che si trova imprigionato in una buia cantina ma non se ne rende pienamente conto, o piuttosto non è disposto ad ammetterlo: primo, perché si tratta della cantina di casa sua, e quindi pensa di poterne liberamente uscire, così come crede di esservi liberamente entrato; secondo, perché si trova in condizioni simili a quelle di milioni di altre persone, il che gli fa supporre, erroneamente, che una massa così grande di gente non può che essere libera, altrimenti qualcuno si sarebbe di certo reso conto del contrario, e avrebbe dato l’allarme a tutti quanti.
In realtà, si tratta di due deduzioni sbagliate. La prima è sbagliata perché l’uomo moderno è, sì, sceso nella cantina di casa sua, vale a dire che si è sprofondato nei piani più bassi della sua stessa esistenza, ma non è vero che ci è sceso in maniera del tutto volontaria, bensì vi è stato indotto; e, se anche lo avesse fatto volontariamente, non si rende conto che scendere è sempre assai più facile che risalire. Per chi è sprofondato nei vizi, ad esempio, nell’orgoglio, nella lussuria e nell’avarizia, tornare a prendere in mano la propria vita e decidere di agire liberamente non è molto più facile che, per un drogato, fare a meno della sua razione quotidiana di stupefacenti. La seconda è sbagliata perché ha lo stesso valore del pensiero di chi, viaggiando a bordo di un aereo, o di una nave, dice a se stesso: Questo aereo non potrà mai precipitare, questa nave non potrà mai naufragare, perché ci sono tante perone a bordo, c’è un comandante, c’è un equipaggio esperto: io sono al sicuro perché mi trovo in mezzo a tutta questa gente. Se fossi da solo, sarebbe diverso; ma se il mio destino è quello di tutti costoro, è improbabile che mi succeda qualcosa, perché dovrebbe succedere a tutti. Sta di fatto, però, che gli aerei a volte precipitano, e le navi a volte naufragano: ed è del tutto indifferente se a bordo ci sono dieci, cento o mille persone.
Quanto, poi, alla supposizione che, se davvero ci trovassimo tutti quanti in schiavitù, qualcuno se ne dovrebbe pure accorgere, e dare l’allarme, anche questa è una supposizione falsa e illusoria. In primo luogo, in una situazione del genere non vale il calcolo delle probabilità: più grande è il numero dei prigionieri, più grande è la percentuale di quelli che dovrebbero scorgere le catene e le sbarre. Non è così, anzi, le cose si svolgono all’incontrario: più grande è il numero dei prigionieri che giacciono in una sorta di prigionia dorata, in una prigionia apparentemente senza catene e senza sbarre, e meno probabile è che qualcuno si renda conto di come stanno in realtà le cose. Nelle grandi masse, vige la psicologia di massa: vale dire la psicologia delle pecore. Come dice Dante (Purg., III, 82-84): e quel che fa la prima, e l’altre fanno, / addossandosi a lei, s’ella s’arresta, / semplici e quete, e lo ‘mperché non sanno. Vano è quindi sperare che, se si tratta di un grande numero di persone, almeno alcune siano deste e consapevoli; al contrario, il sonno morale e intellettuale tendono a diffondersi, a espandersi, a contagiare tutti quanti. In secondo luogo, se pure ve n’è qualcuna, fra le tante pecore, che apre gli occhi e intuisce, o addirittura comprende, come stanno in realtà le cose, e cioè che il pastore le sta conducendo verso il macello, è ben difficile che quelle poche si mettano a dare l’allarme, e ciò per vari motivi. Alcune, infatti, penseranno: Chi me lo fa fare? nessuno mi darebbe retta; meglio che pensi a me stesso. Altre faranno di tutto per auto-convincersi di essersi ingannate, di aver frainteso: saranno disposte a mandar giù qualsiasi spiegazione per non dover trarre le scomode, sconvolgenti conclusioni; dopo di che, torneranno a brucare tranquillamente l’erba come tutte. Altre ancora, le più avide, le più ciniche, quelle che si credono più scaltre, chiederanno un premio ai falsi pastori per stare zitte, per tener l’acqua in bocca: contratteranno con gli aguzzini il prezzo del loro silenzio, della loro complicità, o addirittura verranno promosse al rango di sorveglianti: senza rendersi conto che, alla fine, le pecore inconsapevoli e quelle consapevoli faranno pur sempre tutte la stessa fine, alcune prima, altre dopo, senza scampo per alcuna; sarà solo questione di tempo.
Se vogliamo liberarci, dunque, dobbiamo farlo da soli; inutile aspettare e illudersi che qualcun altro lo faccia per noi. Ma in che senso abbiamo affermato che la nostra condizione attuale è simile a quella di un prigioniero? Lo è in un duplice senso: generale e particolare. In generale, l’uomo è prigioniero quando perde il dominio di se stesso; quando si lascia travolgere da forze che non riesce a controllare; quando permette a qualcun altro di decidere per lui della sua vita. Ne deriva che ogni uomo, nella misura in cui si abitua a dosi sempre più massicce di piaceri dei quali, poi, non sa più fare a meno, forgia da se stesso le catene che lo terranno avvinto, e le sbarre che gli impediranno qualsiasi possibilità di fuga. Ma se questa è la condizione ovvia e naturale per tutti gli uomini, di qualsiasi tempo, bisogna osservare che il nostro tempo è un tempo particolare: è il tempo della modernità; e la modernità nasce da un preciso progetto umano, quello di emanciparsi da Dio e di farsi signore del mondo. Pertanto, è la civiltà in cui l’uomo, senza rendersene pienamente conto, crea o rafforza, con tutte le sue energie, la condizioni di schiavitù nella quale finisce per trovarsi, quale diretta conseguenza della sua rivolta nei confronti dell’ordine stabilito da Dio: che la creatura si completi nel Creatore e non già che pretenda di farsi il dio di se stessa. L’uomo moderno, pertanto, è doppiamente schiavo, perché tutto, nella civiltà da lui costruita, è fatto in modo da renderlo schiavo e, nello stesso tempo, per fare in modo che egli non se ne accorga, o non se ne accorga sino in fondo. Il che è semplicemente diabolico: e infatti si può dire che la civiltà moderna, fra tutte le civiltà sorte nel corso della storia, è quella più lontana da Dio e quella in cui l’uomo si è posto più acutamente in contraddizione con se stesso. In altre parole, essa è, alla lettera, una anti-civiltà; o, se si preferisce, è la civiltà del diavolo.
D’altra parte, l’abilità del diavolo consiste nel persuadere che lui non c’entra, che non esiste addirittura; e che tutto va bene così com’è, basta assecondare la natura, basta soddisfare gli istinti, onde evitare pericolose nevrosi. La civiltà moderna ha costruito tante cose belle, tante cose utili: vorremmo forse rinunciarvi?, suggerisce il diavolo. La civiltà moderna si giustifica da stessa, dai suoi brillanti risultati; anzi, non ha bisogno d’essere giustificata, perché chi la voglia mettere in discussione non può essere che un pazzo. Qui il diavolo gioca fra i due sensi della parola "moderno". Se si dice, per esempio, che l’uomo d’oggi fa parte della civiltà moderna, si dice una cosa vera, perché tale è il dato di fatto. Se si dice che, perciò stesso, l’uomo di oggi non può che fare propri i valori della modernità, si dice una cosa falsa, perché altro è abitare in una casa, o in una città, o in un paese, e altro è approvare quel che vi si fa, indipendentemente dalla propria volontà, dalla propria intelligenza e dai propri sentimenti. Uno, per esempio, può essere costretto a rifugiarsi in una casa, perché fuori infuria la tempesta; ma quella potrebbe essere una casa di malaffare, una casa equivoca: ciò non significa che egli debba adottare il modo di comportarsi dei suoi inquilini. Speriamo che il concetto sia sufficientemente chiaro: essere cittadini della modernità è un dato di fatto, che non dipende da noi; ma essere moderni, nel senso di condividere i valori e le prospettive della modernità, quello sì che dipende da noi, e noi possiamo dire sì oppure no. È qui che si gioca la partita della nostra libertà; ed è qui che si vede se siamo svegli o addormentati, se siamo coscienti o inconsapevoli. Il cristiano, per esempio, non potrà mai condividere il progetto della modernità che è, nella sua essenza, irreligioso e anticristiano; e se non ha capito questo, bisogna dire che non ha capito nulla, oppure che non vuol capire, perché non è disposto a rinunciare a certe comodità e preferisce essere un cristiano della domenica. Ciò vale per il mondo in generale, e per il mondo moderno in particolare. Il cristiano vive nel mondo, ma non appartiene al mondo; vive nella modernità, ma non è figlio della modernità, perché è figlio di Dio. C’è un grosso equivoco, intorno a questi concetti. Molti cattolici, specialmente a partire dal Concilio Vaticano II, si sono convinti, o si sono lasciati convincere, che per essere dei veri cattolici, bisogna essere pienamente in sintonia con il mondo moderno: ma ciò è assolutamente falso. Se adotta la prospettiva della modernità, il cattolico non è più tale, diventa un cittadino del mondo: perde il sale, perde il sapore, diventa un uomo moderno come tanti, come tutti. Nulla lo differenzia più, nulla lo identifica come cristiano: è questo che vogliono, codesti cattolici moderni? Di fatto, è quel che sta avvenendo. Un tale cattolico non parla più dell’aborto, tace sull’eutanasia, approva le unioni omosessuali, parla sempre di politica, è sempre immerso nel fare, non conosce più il silenzio e la spiritualità. In ultima analisi: non è più un cattolico, non è più un vero cristiano. Un cristiano che tace su tutto quel che va contro il Vangelo, e ciò solo per non dispiacere al mondo, non è degno di essere chiamato cristiano. E non è questione di rilasciare o togliere patenti: sono i fatti che parlano per lui. Un cristiano si giudica dai fatti: e i fatti sono che un vero cristiano prende a modello Gesù Cristo, il quale non taceva di fronte al peccato, non girava la testa dall’altra parte, né faceva finta di non vedere, ma diceva pane al pane e vino al vino, regolandosi sempre e in ogni circostanza non secondo la sua propria volontà, ma facendosi operatore della volontà del Padre suo.
Ora apprendiamo che il cristiano, secondo il neoclero e secondo il neopapa, deve essere moderno, e che l’essere moderno è per lui un vanto, un valore aggiunto. Nell’intervista rilasciata al settimanale Panorama, una nota rivista di teologia cattolica, secondo l’ottima abitudine dei teologi progressisti di rivolgersi ai microfoni del mondo, e più sono profani e meglio è (numero 16, del 5 aprile 2018) il cardinale Walter Kasper, degno erede del grande ispiratore del Concilio, Karl Rahner, e uno dei più significativi ed ascoltati corifei di Jorge Mario Bergoglio, dichiara, fin dal titolo, col tono di chi non ammette repliche: Il papa dice cose moderne, chi lo critica no. Ah, che bella frase; che frase ad effetto, densa, incisiva, profonda: quasi come il cesariano Veni, vidi, vici. Evidentemente, non lo sfiora neanche la mente che proprio questa è una piena ammissione di non cattolicità, vale a dire di eresia. Proviamo a immaginarci una simile frase in bocca a uno qualsiasi dei papi che hanno preceduto il Concilio: Pio XII, o Pio XI, o Pio X, o Leone XIII… qualcuno ci riesce? Qualcuno, onestamente, riesce a immaginarselo? Crediamo proprio di no. E ciò per la buona ragione che il Magistero ha sempre saputo che il papa non deve dire cose moderne; meglio ancora: che non deve parlare affatto, se non per precisare e perfezionare il Magistero precedente e stabilito, non certo per modificarlo, attaccarlo, screditarlo, come il signor Bergoglio fa di continuo, ragion per cui i suoi accoliti, come Walter Kasper, lo ricoprono di lodi sempre più ammirate e sempre più servili. Pare quasi che il "loro" papa sia un nuovo Mosè, un nuovo Giovanni Battista, un nuovo — Dio ci perdoni — Gesù Cristo: un redentore venuto su misura per noi uomini moderni, per annunciare il vangelo della modernità. Sì, è vero che il signor Bergoglio dice cose moderne: ed è proprio per questo che non è papa, che non è degno di essere papa, che sta fuorviando milioni di credenti e trascinando la Chiesa vero l’apostasia generalizzata. Quando egli scrive, per esempio, nella esortazione apostolica Gaudete et exsultate (ammesso e non concesso che l’abbia scritta lui; molti pensano che l’abbia scritta in buona parte don Antonio Spadaro, il direttore de La Civiltà Cattolica, altro fedelissimo del signore argentino), al § 26, che Non è sano amare il silenzio ed evitare l’incontro con l’altro, desiderare il riposo e respingere l’attività, ricercare la preghiera e sottovalutare il servizio, senza alcun dubbio esprime un concetto che è decisamente moderno. No, non è sano fare il monaco o la monaca di clausura, dal punto di vista del mondo moderno. Ci vorrebbe una bella visita psichiatrica, o, almeno, una terapia psicanalitica, di quelle che il signor Bergoglio reclamizza volentieri, dicendo di averla fatta pure lui, per far uscire tali fisime dal cervello della gente. Oppure ci vuole una vista del signor Bergoglio nei conventi di clausura, per far ridere quelle povere recluse con le sue irrefrenabili, simpaticissime barzellette: perché nei conventi di clausura, se proprio ci si deve andare, ci si va per ridere, come insegna la pastorale del signor Bergoglio. Via, siamo gente moderna, del terzo millennio: non siamo mica più nel buio Medioevo. E se proprio le fisime non se ne vogliono andare, si può sempre ricorrere a dei rimedi più energici, come quello di commissariare i Francescani e le Francescane dell’Immacolata, e proibire che le loro case accolgano nuovi postulanti. Peccato, perché fuori c’era la fila, cosa che non si può dire per i gesuiti, dalle cui file esce il signor Bergoglio (il quale, appunto in quanto gesuita, nemmeno potrebbe essere papa, a termini di diritto canonico). Si vede che non tutti i giovani e le giovani di oggi si sentono poi così moderni, come Beroglio e i suoi corifei Kasper e Spadaro, Paglia e Galantino, Sosa e Perego, non si stancano di dire che si dovrebbe essere.
Dunque, ecco qui un altro elemento di cui tener conto, se si vuole intraprendere il cammino verso la liberazione. Oltre a sgombrare la mente dalla falsa cultura della modernità; oltre a liberare l’anima dalle pessime abitudini, dai vizi e dai peccati della modernità, bisogna pure rinunciare alla speranza che la Chiesa sia d’aiuto, come lo era un tempo. Ora è proprio lei ad aver bisogno di essere aiutata…
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