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10 Aprile 2018Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo.^.^ Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già mondi, per la parola che vi ho annunziato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca, e poi lo raccolgono e lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli (Gv., 15, 1-8).
L’uomo è qualcosa se accetta il suo legame filiale con Dio; è nulla se lo rifiuta. La vita dell’uomo acquista un significato se egli si pone in questa prospettiva, che è quella dell’eternità; è vuota e sprecata se egli adotta esclusivamente la prospettiva immanente, quella del finito. Non vi sono quasi limiti a ciò che l’uomo può fare, se si riconosce figlio di Dio e se entra nella dimensione del soprannaturale, mediante la grazia che viene dai Sacramenti, perché non è più lui, l’uomo vecchio, ma è la grazia di Dio in lui, che opera grandi cose; mentre si riduce a essere meno di un insetto se ignora e rifiuta la grazia, se disprezza il legame con Dio e se pretende di vivere la vita a modo suo, come se lui ne fosse l’autore, mentre tutto ciò che è, tutto ciò che possiede, tutto ciò che di buono può fare, vengono esclusivamente da Colui che ho creato e che già lo amava e lo voleva come suo figlio, ancora prima di crearlo. L’uomo che resta unito a Dio diventa simile a un tralcio rigoglioso, carico di frutti e, quindi, utile anche agli altri uomini; mentre colui che lo rifiuto si riduce ad essere come un ramo secco, che non serve a nulla e a nessuno, e si getta via.
La condizione tragica e disperata dell’uomo moderno è quella di essere il prodotto di una civiltà che ha rifiutato Dio e che ha scelto consapevolmente di auto-glorificarsi. L’uomo moderno viene così a trovarsi in una struttura di peccato, che non è – come vorrebbero i teologi progressisti e i seguaci della teologia della liberazione – questa o quella struttura, come una banca o una multinazionale, giacché essi pensano da marxisti, da uomini con una prospettiva puramente umana, e non da cristiani, con una prospettiva aperta sull’eternità; ma è la civiltà moderna nel suo insieme, tutta quanta, materialmente e spiritualmente, dalla culla alla tomba dei singoli esseri umani. Il peccato, infatti, è il rifiuto di Dio, il rifiuto del suo amore, della sua legge, della sua giustizia; il rifiuto della sua sollecitudine e della sua misericordia; il rifiuto della sua paternità verso di noi (e lasciamo che le teologhe femministe e i loro omologhi di sesso maschile sproloquino beatamente della maternità di Dio, anzi, già che ci sono, che sproloquino anche del transessualismo di Dio, perché fare di Dio un padre o una madre suona male agli orecchi dei volonterosi adepti dell’ideologia gender, che attualmente spopola anche nella Chiesa cattolica: vedi l’ultimo catechismo per bambini della salesiana Elledici, con un Gesù barbuto identico a Conchita Wurst e con i due papà coi loro marmocchi a spasso, felici e contenti, in un bel prato fiorito).
Tutta l’educazione cristiana dovrebbe fare perno intorno a questo concetto: che l’uomo deve imparare a riconoscere il proprio posto, che deve imparare a dire Tu e a farsi piccolo davanti al suo Creatore, affinché Lui lo riempia della sua grazia e della sua luce e lo trasformi non in una persona qualsiasi, che vive una vita qualsiasi, ma in ciò che egli è, individualmente e specificamente, destinato ad essere, fin da prima che il mondo fosse creato, nei disegni di Dio: un suo figlio vero, cosciente di esserlo, capace di amarlo e disposto a lasciarsi amare da Lui. Al giovane, perciò, non bisognerebbe lasciar credere che lo scopo della vita sia quello di realizzare il proprio io, ma, al contrario, bisogna fargli comprendere che è quello di scoprire la propria vera dimensione, cioè quella soprannaturale, con l’aiuto di Dio, che saprà portare in luce le sue qualità migliori, le più vere; mentre, se vorrà fare tutto da solo, e cercare solo una felicità per se stesso, chiusa nell’orizzonte dell’immanenza, egli non troverà altro che insuccessi e delusioni, perché nulla di vero e di buono può fare l’uomo senza l’aiuto di Dio: nemmeno vedere e riconoscere se stesso, nemmeno separare la propria vera natura dalla zavorra che lo appesantisce e lo tira verso il basso, fatta dal groviglio delle passioni disordinate, dei desideri insaziabili, degli istinti sfrenati. In pratica, senza l’aiuto di Dio l’uomo non arriva nemmeno a riconoscersi; tanto meno potrebbe realizzarsi, se con tale parola intendiamo la capacità di dare forma a ciò che l’uomo deve essere, e non, semplicemente, porre al centro la sua parte egoistica, inconsapevole, animalesca. Ecco perché qualcuno ha detto, giustamente, che l’adolescenza non è l’età del piacere, meno ancora della felicità, ma è l’età dell’eroismo. L’adolescente deve imparare a lottare con il proprio io inferiore e a vincerlo, per lasciar emergere la farfalla spirituale dal bozzolo del corpo.
Un grande direttore spirituale, come ce n’erano prima del Concilio e ora, forse, non ce ne sono più, il carmelitano scalzo Gabriele di Santa Maria Maddalena, al secolo Adriaan De Voss, belga, classe 1893, passato a miglior vita nel 1953, a Roma, scriveva nel suo bel libro Intimità divina. Meditazioni sulla vita interiore per tutti i giorni dell’anno, Monastero di S. Giuseppe, Roma, 1959, 372-374):
Fra tutte le creature di cui amiamo compiacerci e verso le quali la nostra natura si sente molto portata, il nostro "io" tiene senza dubbio il primo posto. Non vi è persona, anche poco dotata di doni e di qualità, che non ami la propria eccellenza e non cerchi in qualche modo di farla risplendere agli occhi propri e a quelli altrui. Anzi a tale scopo noi siamo spesso portati spontaneamente ad esagerare il nostro valore, e, in conseguenza, a mostrare esigenze e pretensioni che ci rendono alteri, arroganti ed anche difficili nei nostri rapporti con gli altri. L’umiltà è appunto la virtù che mantiene nei giusti limiti l’amore della propria eccellenza; e mentre questo ci spinge a metterci tropo in alto, ossia d occupare un posto più elevato di quello che ci spetta, l’umiltà è la virtù che ci fa stare al NOSTRO POSTO. (1 Cor., 12, 3). L’umiltà è verità, perché tende a mettere nella verità la nostra intelligenza — facendoci riconoscere quel che in realtà siamo — e la nostra vita, inclinandoci a prendere, di fronte a Dio e di fronte agli uomini, quel posto che ci spetta e non altro.
L’umiltà ti fa riconoscere che di fronte a Dio non sei che una piccola creatura sua, in tutto da lui dipendente e nella tua esistenza e nel tuo operare. Avendo ricevuti da Dio la vita, tu non puoi esistere neppure un istante indipendentemente da lui, ma è lui che, come ti ha creato con la sua azione creatrice, così ti mantiene in vita con la sua azione conservatrice. Non solo, ma non puoi compiere il più piccolo atto senza il concorso di Dio, un po’ come qualsiasi macchina, anche la più perfetta, non può fare il più piccolo movimento, se non è messa in azione dall’artista che l’ha fabbricata. È ben vero che, a differenza della macchina, il tuo agore non è meccanico, né obbligato, ma è cosciente e libero, comunque non puoi neppure muovere un dito, senza il concorso dell’Arista divino.
In conseguenza, tutto ciò che hai nell’ordine dell’essere — qualità, doti, capacità, ecc. – e tutti ciò che hai conseguiti nell’ordine dell’agire, nulla è tuo, ma tutto, in un modo o nell’altro, è dono di Dio, è azione compiuta con l’aiuto divino. "Che cosa hai che tu non abbia ricevuto? E se l’hai ricevuto, perché ti glori come se non l’avessi ricevuto?" (1 Cor. 4, 7).
Nell’ordine soprannaturale, dove tutto dipende dalla g, si verifica nel modo più stretto la parola di Gesù: "Senza di me non potete far nulla" (Gv. 15, 5). Benché, col battesimo, la grazia santificante ci abbia elevato all’ordine del soprannaturale, e le virtù infuse abbiano reso le nostre facoltà capaci di produrre stati soprannaturali, tuttavia, avverte S. Paolo, "nessuno può dire: ‘Signore Gesù, se non per lo Spirito Santo" (1 Cor. 12, 3). Ossia per produrre anche il più piccolo atto soprannaturale, tu hai bisogno del soccorso di Dio, hai bisogno della grazia attuale che ti prevenga con la sua ispirazione e ti accompagni nell’azione, fino al compimento di essa. Il grande teologo, che ha studiato a fondo la dottrina cattolica, per mettere in pratica il minimo punto, come per produrre un solo atto di amore di Dio, ha assoluto bisogno, non meno del contadino che conosce solo il suo catechismo, del soccorso della grazia attuale. Così pure il santo, che ha ricevuto tanti favori e lumi divini, che è già arrivato all’eroismo delle virtù, non può fare il più piccolo atto virtuoso, senza l’aiuto della grazia attuale. Ciò ti dice quanto grande deve essere la tua dipendenza da Dio. Sei quindi ben lontano dal vero quando, fidandoti della tua scienza e del tuo lungo esercizio di vita spirituale, credi che i tuoi lumi o le tue virtù ti siano sufficienti per agire da buon cristiano. No, ti ammonisce S. Paolo, "sufficientia nostra ex Deo est", la sufficienza nostra viene da Dio (" Cor. 3, 5). Senza Dio non puoi né pensare, né dire, né volere alcun bene, "poiché è Dio che produce in noi e il volere e l’agore con buona volontà" Fil. 2, 13).
Di tuo, dunque, di connaturale alla tua natura limitata e per di più ferita dal peccato originale, non hai che una cosa sola: la capacità di venir meno ai tuoi doveri, di mancare, di peccare. Togli da te quel che è di Dio e troverai che, per te stesso, sei nulla, anzi meno di nulla, perché il nulla non è capace di offendere Dio e tu invece hai questa triste possibilità.
Meno di niente, si capisce, sul piano morale; perché sul piano ontologico un ente che può dire "no", e che può dirlo addirittura all’Essere, è certo qualcosa: anzi, è perfino qualcosa di notevole. Qualcosa di notevole nel male, ma è pur sempre un ente significativo, in quanto dotato di libertà, volontà e intelligenza. Tale è la creatura umana: non è l’essere, ma ne partecipa, quindi non è in senso assoluto, ma solo in senso relativo; e tuttavia, in questa sua relatività, vede spalancarsi innanzi a sé sconfinati orizzonti di possibilità. Dotato di ragione, di volontà e di libertà – e sia pure di una libertà relativa, proprio perché egli possiede l’essere, ma non è l’essere, e dunque tutto quel che ha, lo riceve e non lo crea da se stesso – l’uomo è sospeso fra due abissi: può precipitare molto al di sotto di quel che è, rifiutando Dio; può innalzarsi molto al di sopra, accogliendolo. Ma Dio è un padre esigente, oltre che amorevole e misericordioso; o per meglio dire, è esigente proprio perché è amorevole e misericordioso. Con Lui non si può barare al gioco, non ci si può dare a metà, non si può tenere il piede in due scarpe: ci vuole tutti, sino in fondo, perché desidera la nostra felicità, e sa (Lui lo sa, noi lo dobbiamo imparare) che solo in Lui possiamo trovarla. Non è per gelosia che non ci permette di servire due padroni, ma perché l’altro padrone, il mondo con le sue passioni disordinate, ci renderà molto, molto infelici, ci sfrutterà spietatamente, ci illuderà, ci ingannerà, ci tradirà, ci farà soffrire. E Dio, padre amorevole e misericordioso, vorrebbe risparmiarci la sofferenza inutile, degradante e distruttiva. Non vuole risparmiarci la sofferenza in assoluto; sa, anzi, che solo nella sofferenza l’uomo può imparare quello che conta, e per mezzo di suo Figlio, che ha dato l’esempio, dice all’uomo: Se vuoi seguirmi, prendi la tua croce e venimi dietro. Ma esistono due tipi di sofferenza: quella utile e quella inutile. La prima ci avvicina a Dio, ci fa comprendere meglio le cose, ci libera gli occhi dalla nebbia, ci rende migliori, ci insegna l’essenziale; e l’essenziale non è di questo mondo. La seconda ci allontana da Lui, perché la viviamo male, oppure perché è causata dalle nostre scelte sbagliate, egoistiche, immature e superficiali. La prima ci rinfranca e ci innalza, la seconda ci umilia e ci degrada. Noi possiamo scegliere quale vogliamo; non sta a noi evitarle entrambe. Chi non ha compreso questo, non ha compreso nulla; e tutto ciò che crede di sapere e di aver capito, magari dopo una intera vita di studi, è meno che nulla. Tutto, però, nasce da una constatazione, che può diventare anche una preghiera: Tu, o Dio, sei Colui che è; io sono colui che non è; donami un poco del tuo amore, o Signore, affinché anche il mio essere diventi simile al Tuo, ed io sia degno che Tu mi chiami figlio.
Tutto il problema del nostro rapporto con la vita e con il mondo consiste in ciò: nel saper stare al proprio posto. Il posto dell’uomo è quello della creatura; una creatura speciale, però, una creatura privilegiata, fornita di ragione, volontà e libertà: fatta a immagine di Dio. Niente di meno: un pensiero che dà le vertigini. Questa piccola creatura, che vive qualche anno sulla terra, invecchia e muore, è fatta a immagine di Dio. E questa piccola creatura, se riconosce di essere tale, se si apre all’amore del suo Creatore, può trasformarsi da buco in farfalla, può dispiegare un’attività meravigliosa, può risplendere di luce come un faro nella notte buia, e illuminare la via anche ad altri viaggiatori. Può, se lo vuole. Ma, per volerlo, deve lasciar morire in sé l’uomo vecchio, gonfio di superbia, che sa dire solo "io", e imparare a dire, con timore e tremore: Tu…
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