
Dai suoi frutti si riconosce l’albero
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6 Aprile 2018La civiltà moderna, per le sue stesse caratteristiche, ha prodotto una società disperata, fatta da uomini disperati, entro un orizzonte intellettuale e spirituale in cui non c’è posto per la speranza; di conseguenza, anche la cultura che essa produce è, al novanta per cento ed oltre, una cultura della disperazione, cioè, in ultima analisi, una cultura che corteggia il vuoto, il nulla e la morte e ha in odio la vita. Una società dove si praticano milioni di aborti e, contemporaneamente, si celebrano i matrimoni omosessuali, è una società di morte; una società che si commuove per un bambino affogato in mare mentre viaggiava sui barconi dei migranti, e non si commuove per sei milioni di bambini italiani soppressi nel ventre delle loro madri, perfettamente a termini di legge e con l’uso del denaro pubblico, è una società di morte, con l’aggravante dell’ipocrisia. Ma la stessa cosa si può dire, in misura maggiore o minore, per tutte le società dell’Occidente, ossia per tutta la civiltà moderna; le altre società, quelle non occidentali, stanno subendo l’impatto della modernità, ma non ne hanno ancora fatto propri gli elementi essenziali, i più anti-umani, per cui ci vorrà ancora del tempo prima che si possa parlare di una società moderna mondiale. Per ora, la civiltà moderna è la civiltà occidentale che si espande, ma solo superficialmente e materialmente, su tutti e cinque i continenti; le altre società l’hanno adottata per gli aspetti che convengono loro (vedi il caso del Giappone nella seconda metà del XIX secolo, e quello della Cina nella seconda metà del XX), ma non la sentono come propria, e si guardano bene dall’accettarne tutti i corollari e le conseguenze. In certi Paesi islamici, dove pure è arrivata la tecnica occidentale insieme a una parte dei modi di vita occidentali, un omosessuale resta un deviato da punire a morte, e un adultero resta un criminale da giustiziare, e una donna che guida l’automobile è una svergognata che bisogna punire con la prigione. Ciò non impedisce a quelle società di usufruire della televisione, degli aerei a reazione, dell’informatica e del cinema hollywoodiano.
Resta il fatto che la malattia della disperazione, che è inscritta nella malattia della modernità, è una specificità dell’Occidente, non delle altre società. Nella cultura indiana, o cinese, o araba, non vi è l’equivalente del senso del nulla e della morte che incombe sull’arte, sulla letteratura e la filosofia occidentali moderne; o, se è presente, lo è solo in misura marginale. Non è la sua essenza, non è la sua cifra fondamentale. Si pensi a quanti suicidi ricorrono nella letteratura moderna: dal giovane Werther, a Jacopo Ortis, a Emma Bovary, a Kirillov de I demoni, ad Anna Karenina, al protagonista di Vortice di Alfredo Oriani, ad Alfonso Nitti di Una vita, a Dorian Gray, a Martin Eden di Jack London, alla protagonista de Il risveglio di Kate Chopin, a Marina di Malombra di Fogazzaro, al protagonista di Scende la tenebra di Cezar Petrescu, per non parlare degli scrittori hanno scelto il suicidio nella loro vita, Heinrich von Kleist, Gérard de Nerval, Emilio Salgari, Sergej Esenin, Vladinir Majakovskij, Cesare Pavese, Ernest Hemingway, e l’elenco potrebbe seguitare per pagine e pagine. Poi ci sono gli eroi e le eroine del cinema, magari in variante femminista (come nel caso del romanzo di Kate Chopin), vedi le due amiche Thelma e Louise. E poi ci sono i suicidi mascherati da fatalità o da omicidio, sia in letteratura, come quello del reverendo Dimmesdale de La lettera scarlatta, o del protagonista del pirandelliano Non si sa come, sia nella vita reale, come quello di Ambrose Bierce e, forse, di Jack London. Poi, ci sono i suicidi morali e spirituali, come quello di Oblomov di Gončarov, di Emilio Brentani nella sveviana Senilità, o quelli dei fratelli protagonisti di Tre croci di Federigo Tozzi. Poi ci sono i suicidi della ragione, che si risolvono nella follia, come il protagonista del Diario di un pazzo di Gogol’, o di Ivan Karamazov di Dostoevskij, o dell’Enrico IV di Pirandello. Ci sono i suicidi-omicidi, i suicidi per interposta persona, e così via: insomma, tutte le varianti possibili del corteggiamento della morte. Forse perché della fatal quiete tu sei l’imago, cantava Foscolo, a me sì cara vieni, o sera. E se dalla letteratura e dal cinema possiamo alla filosofia, vedi Carlo Michelstaedter, il panorama non cambia affatto.
Ora, se la disperazione è la malattia mortale, come diceva Kierkegaard, e se essa è l’intima essenza della civiltà moderna, in quanto rifiuto di Dio da parte dell’uomo, ossia rifiuto della sola realtà che può dargli la pace, la realizzazione di sé e l’armonia con il tutto, ne consegue che l’uomo della modernità è votato al suicidio, materiale o morale, immediato o differito, e questo perché egli è scisso in se stesso: la sua parte mortale si ribella all’idea della mortalità e della finitezza, ma la sua parte immortale non trova riconoscimento da parte della coscienza, alla luce della scienza moderna e di tutte le altre acquisizioni del sapere moderno. Da ciò scaturisce il corto circuito che lo conduce necessariamente nel vicolo cieco del nichilismo e dell’autodistruzione; da ciò anche la componente masochistica che lo contraddistingue, perché, in ultima analisi, è lui e soltanto lui il responsabile della propria infelicità e della propria disperazione. Non è un destino che egli debba essere infelice e disperato; non dipende dalle circostanze esterne, se non nella misura in cui tali circostanze (guerre, crisi economiche, sconvolgimenti sociali) sono il risultato diretto della sua feroce, ostinata volontà di negare la propria finitezza e, nello stesso tempo, di rifiutare con sdegno il proprio legame creaturale con Dio. In tal modo, egli si rende colpevole di un peccato di somma ingratitudine: gode della vita, gode dell’intelligenza, gode delle cose belle che esistono intorno a lui, ma non vuol ringraziare il loro Creatore, non vuole inginocchiarsi davanti al suo Signore, non vuole ammettere che vi è un Artefice che sta al di sopra di lui e di tutte le altre cose create. In breve, somiglia a un viaggiatore che si fermi a lungo in un albergo, dorma, mangi e beva e poi, al momento di saldare il conto, se ne vada senza metter mano al portafogli e senza neanche dire un "grazie" o rivolgere un saluto ad alcuno.
Ora, osservando con attenzione l’andamento della cultura occidentale moderna, una cosa comincia ad apparire sempre più chiara: che la cultura di morte non è del tutto spontanea, ma che essa viene intenzionalmente sponsorizzata e diffusa ovunque da chi è interessato ad imporre il suo dominio psicologico e intellettuale sull’intera società. Prendiamo il caso dell’evoluzionismo darwiniano, una teoria scientifica mai realmente dimostrata, o della psico-analisi freudiana, un paradigma culturale basato su ipotesi e procedimenti del tutto non scientifici, ma tuttavia spacciati come tali: ciò che hanno in comune, al di là del loro (discutibile) valore scientifico, o pseudo scientifico, è l’abbassamento dell’idea che l’uomo ha di se stesso, il suo rimpicciolimento, la sua riduzione entro i limiti della pura biologia. Ebbene: è forse dovuto alla loro intrinseca eccellenza, o alla loro cristallina evidenza, o a dei fattori meramente casuali, il fatto che sia l’uno che l’altra si siano imposti fino al punto di diventare parte irrinunciabile del patrimonio culturale (si fa per dire) del cittadino medio, e che non ci sia letteralmente nessuno, neanche un ragazzino, che non si senta in diritto e in dovere di citare Darwin e di citare Freud come dei mostri sacri, dei benefattori che hanno donato al mondo intero il tesoro della loro sapienza e delle loro altissime conquiste intellettuali? Che non ci sia libro di testo in cui entrambi non siano presentati fra i più grandi geni dell’umanità, ai quali siamo tutti debitori di aver finalmente compreso quale sia la reale posizione dell’uomo nel sistema della natura (Perché di una realtà soprannaturale, naturalmente, nella cultura moderna non c’è nemmeno da parlarne, neppure in via di semplice ipotesi). Che i professori universitari parlino di loro e delle loro teorie come di qualcosa che non solo è assolutamente certo e definitivamente dimostrato, ma che non ha nemmeno bisogno di dimostrazione, perché voler anche solo tentarne una dimostrazione sarebbe l’equivalente di un atto sacrilego, come, per un’anima profondamente religiosa, voler dimostrare a tavolino l’esistenza di Dio e della sua legge morale? No: tutto questo non dipende né dalla eccellenza dell’evoluzionismo darwiniano e della psico-analisi freudiana, né dalla loro auto-evidenza, e meno ancora dal caso: ma da una volontà preordinata e da una regia occulta, sapiente, metodica, la quale, disponendo di immensi mezzi, sia finanziari che mediatici, ha trascelto queste due teorie e ne ha fatto due paradigmi, cioè le ha innalzate al di sopra del livello di teorie e le ha imposte al pubblico, ai "consumatori" (d’istruzione e di cultura). Sicché non c’è maestrina che non si senta brava e intelligente dopo aver spiegato ai bambini come Darwin abbia compreso il meccanismo dell’evoluzione dopo aver osservato i fringuelli delle Galapagos: benché Darwin, a quell’epoca, non avesse capito un bel niente, e anzi non avesse saputo nemmeno classificare correttamente i fringuelli delle Galapagos; e dopo aver spiegato come una persona, dopo aver chiarito a sé stessa i propri istinti repressi, per merito della terapia psico-analitica, è ipso facto avviata sulla strada della guarigione: anche se non si conosce un solo caso certo in cui la psico-analisi abbia realmente e definitivamente guarito qualcuno dalle proprie nevrosi. Evidentemente, c’è una élite mondiale alla quale sia l’una che l’altra teoria sono sembrate particolarmente idonee a veicolare il messaggio di fondo che essa, per mille vie, da tempo, è impegnata ad imporre: che l’uomo è semplicemente un animale un po’ più evoluto degli altri mammiferi, e che niente c’è in lui che non sia natura, istinti, riflessi nervosi. Sappiamo qual è la reazione che simili discorsi suscitano pressoché immancabilmente: ma come, diranno i soliti benpensanti, questo è complottismo bello e buono! e le prove? dove sono le prove? Finché non ce le farete vedere, per noi tutte queste sono solo fantasie, elucubrazioni ridicole o il parto di menti malate. Molto bene; le prove? Sono dappertutto; certo, non nel senso tecnico della parola, ma indizi, sì, eccome. Facciamo un esempio. In questo preciso momento, mentre noi stiamo scrivendo al computer e mentre voi state leggendo questo articolo, vi sarà apparso sullo schermo, al centro della pagina di Google, il ritratto della signora (o piuttosto ex signora) Winnie Mandela: carina, sorridente, una signora anziana dai capelli brizzolati e dal volto benevolo, come una simpatica nonna, quasi la versione femminile del Babbo Natale che era comparso sullo schermo tre mesi fa. Ebbene, se qualcuno si prende la briga di andare a vedere chi era costei, per esempio su Wikipedia, apprenderà edificanti particolari di questo genere:
La sua reputazione fu danneggiata dalla retorica che mise in scena in discorsi come quello di Munssieville del 13 aprile 1986, nel corso del quale supportò la pratica del necklacing (bruciare vive le persone con copertoni e benzina) affermando che: "con le nostre scatole di fiammiferi e le nostre collane libereremo questo Paese". L’immagine di Winnie risultò definitivamente compromessa dopo le accuse mossele dalla sua guardia del corpo, Jerry Musivuzi Richardson, circa rapimenti e uccisioni. Il 29 dicembre 1988, Richardson, allenatore del Mandela United Football Club (MUFC), il quale faceva da guarda del corpo della signora Mandela, rapì il quattordicenne James Seipei (…) e altri tre giovani dalla casa del pastore metodista rev. Paul Verryn affermando di averli condotti in casa Mandela poiché il reverendo ne avrebbe abusato sessualmente. I quattro furono picchiati per far loro ammettere di aver avuto rapporti sessuali col pastore. Seipei fu invece accusato di essere un informatore e il suo corpo fu ritrovato il sei gennaio 1989 in un campo con ferite da taglio alla gola. Nel 1991 Madikizela-Mandela fu assolta da tutte le imputazioni eccetto il rapimento. La sua condanna a sei anni di carcere fu ridotta a una multa in ultimo grado di giudizio, il rapporto finale della "Commissione per la verità e la riconciliazione", pubblicato nel 1998, afferma che "La signora Winnie Madikizela Mandela è politicamente e moralmente responsabile delle gravi violazioni dei diritti umani commesse dal MUFC" e che ella "fu responsabile, per omissione, di gravi violazioni dei diritti umani" Nel 1992 fu accusata di aver ordinato l’uccisione del dottor Abu-Baker Asvat, un amico di famiglia che aveva visitato Seipei a casa Mandela quando vi era stato condotto prima di essere ucciso. Il ruolo della signora Mandela fu successivamente dimostrato nel corso delle udienze della Commissione per la verità e la riconciliazione nel 1997. Fu affermato che ella avrebbe pagato l’equivalente di 8.000 dollari e fornito le armi per l’omicidio che ebbe luogo il 27 gennaio 1989. Le udienze furono rinviate in base al sospetto che i testimoni fossero stati minacciati per ordine della Mandela.
Ora, se questa perla di donna ci viene presentata, e soprattutto viene presentata ai giovani ignari, che non sanno nulla della storia recente del Sudafrica (un Paese del quale le cronache parlavano ogni giorno per denunciare il razzismo dei bianchi, ma del quale ora non parla più nessuno per denunciare le violenze dei neri a danno dei bianchi), come una specie di Premio Nobel per la pace in pectore, l’effetto sarà simile a quello che il signor Bergoglio ha prodotto sul pubblico, specie giovanile, quando ha definito Emma Bonino, la campionessa dell’aborto e dell’eutanasia, una grande italiana: disinformare l’opinione pubblica e, nello stesso tempo, testare quanto sia facile incretinirla con metodi di tal genere, ossia agendo non sul piano razionale, ma su quello emotivo. Ed è con questa tecnica che si sta portando avanti, volutamente, una cultura di morte e disperazione.
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