
Giuseppe Zaffonato, un arcivescovo nella tempesta
3 Aprile 2018
L’uomo a due dimensioni
4 Aprile 201824 agosto 1965, festa di san Bartolomeo apostolo: è il santo patrono del minuscolo paese di Ronchiettis, frazione di Santa Maria la Longa: quella, per intenderci, dove Giuseppe Ungaretti compose la più breve e densa poesia della letteratura italiana, nelle retrovie della Prima guerra mondiale: M’illumino d’immenso. A Roma, in quei giorni, una cospirazione di vescovi, e soprattutto di teologi massoni e modernisti, sta portando a compimento il suo capolavoro: attuare la rivoluzione nella Chiesa cattolica senza che i fedeli e il clero stesso se ne rendano conto, anzi, semmai convincendosi che si sta verificando un evento provvidenziale, voluto da Dio stesso: il rinnovamento della Chiesa e il suo abbraccio gioioso con il mondo moderno, con le sue speranze, coi suoi ideali. Dopo essersi sentiti nell’angolo per così tanto tempo, ora, per la prima volta, i cattolici assaporano il profumo intenso, inebriante, di essere al centro della storia, di esser divenuti parte indispensabile della società e della vita pubblica. Se ne inebriano fino al punto di ubriacarsi, di perdere completamente la giusta direzione, di smarrire la propria identità: ma, per il momento, non se ne rendono conto; semmai, si sentono pieni di euforia per una sensazione di vita, di forza, di apertura, quale mai essi avevano provato, né immaginato di poter provare.
Ma in quest’angolo di Italia che quasi non è veramente Italia, ma una specie di anticamera dell’Austria e della Mitteleuropa, in questa terra di confine, marginale, arretrata, povera ma fiera, abitata da gente laboriosa e solida come la roccia, ma fatalista e come rassegnata a un destino di eterna minorità, in questa terra che è ancora, e sia pure per pochi anni, una terra di emigranti, benché sorgano ovunque fabbriche e officine create praticamente dal nulla; in questa terra che ha dato alla Patria i migliori soldati, gli alpini che si sono coperti di gloria da un capo all’altro del mondo, e ha dato al mondo i migliori lavoratori, quelli che in pochi anni hanno tagliato l’istmo di Suez, costruito la ferrovia transiberiana e innalzato la diga di Kariba, nel cuore dell’Africa nera, al costo della vita di oltre cento connazionali: in questa terra ancora agricola, basata su una società rurale, il progresso stenta ad arrivare, il boom economico è giunto solo di scorcio e anche il vento di novità che soffia nella Chiesa si è fatto sentire solo come un flebile venticello. Il clero friulano è solido, inquadrato, tradizionale, tanto quanto la famiglia friulana, rispetto alla famiglia lombarda, o a quella piemontese, presenta ancora i caratteri di solidità e di prolificità che la qualificano come "arcaica", cioè non ancora toccata dai grandi mutamento sociali, culturali e antropologici della seconda metà del Novecento. Questa è la terra dei patriarchi di Aquileia; la terra da cui partì il missionario Odorico da Pordenone, e la terra ove nacque il cappuccino Marco d’Aviano, il famoso predicatore alla cui opera instancabile si deve, in gran parte, la salvezza dell’Europa, quando le formidabili armate ottomane assediavano Vienna, nel 1683, ed erano sul punto d’impadronirsene, islamizzando il cuore del nostro continente.
Del nuovo "spirito" che soffia al Concilio Vaticano II, della "svolta antropologica" del gesuita Karl Rahner in teologia, poco o nulla sanno questi contadini che hanno indossato il vestito bello della domenica e ora si assiepano, per la solenne funzione, nella piccola ma elegante chiesa di San Bartolomeo, la cui fondazione risale al XVI secolo; questi contadini dalla pelle abbronzata e dalle mani callose, un po’ goffi nelle loro camicie bianche, nei loro vestiti da festa e nelle loro scarpe di vernice. E nulla di nulla ne sa il bambino di otto anni che, nei giorni scorsi, insieme ad altri bambini e donne e ragazzi, ha lavorato a tagliare e incollare pazientemente centinaia di bandierine di carta colorata, triangolari, per la festa del santo patrono: bandierine che ora adornano la piccola piazza, partendo dall’antico pozzo situato di fronte alla chiesa e irraggiandosi verso i balconi e le terrazze delle case circostanti. Quel bambino non è uno del posto, trascorre qui un periodo di vacanza e viene dalla città, parrocchia del duomo, dove, la domenica, è abituato a servire la santa Messa, reggendo la navicella dell’incenso, perché è ancora troppo piccolo per svolgere delle mansioni di maggiore responsabilità. Nella sua tunica bianca sopra la veste nera, custodita nel grande armadio della sacrestia, ha servito a tante funzioni e assistito a numerosi Vespri, e ha da poco ricevuto la prima Comunione, dopo aver frequentato il catechismo con gli altri bambini della sua età. In quegli anni, i primi anni Sessanta, sono davvero tanti i ragazzini che si offrono per servire la santa Messa, al punto che alcuni sono praticamente senza compiti da svolgere e si limitano a fare presenza. Segno di una frequenza massiccia alle pratiche religiose, così come, nei seminari, non si nota ancora per niente la crisi della vocazioni che, invece, bussa ormai alle porte, e che, di lì a poco, nel giro di qualche anno appena, li svuoterà letteralmente, come se fosse passata una tempesta. E una tempesta è giunta per davvero: il Concilio che, a Roma, sta facendo a pezzi secoli di tradizione e sta gettando la Chiesa su vie nuove, inesplorate, ambigue, dove molte cose luccicano e sfavillano, e ci vorrà un bel po’ di tempo per rendersi conto che non era solamente oro.
Quel bambino, adesso, nella piccola chiesa affollata di contadini, donne, ragazzi — contadini che da poco hanno imparato a guidare il trattore, mentre sino a qualche anno fa aravano i campi come tutte le precedenti generazioni, con una robusta coppia di buoi — assiste alla santa Messa tridentina (la Messa novus ordo sarebbe arrivata solo quattro anni più tardi), non come chierichetto, bensì mescolato alla folla, presso la porta, dopo essere entrato a fatica; e, mentre il sacerdote sta celebrando i sacri misteri e si prepara ad alzare l’Ostia verso il cielo, vede un raggio di sole entrare dalla finestra e posarsi sull’altar maggiore, indorando di luce tutto l’edificio e avvolgendo l’assemblea in un alone mistico, come non aveva mai visto. E forse proprio in quel momento – uno di quei momenti così preziosi che la coscienza neppure riesce a registrarli, ma se ne accorge poi, a distanza di anni, e si rende conto che allora era diventata adulta a sua insaputa — il bambino di otto anni intuisce, afferra il significato di quello che sta accadendo, del mistero abissale che si sta realizzando in mezzo a quella gente semplice, burbera, di poche parole e, purtroppo, di molte bestemmie, più e meglio che al momento della prima Comunione nella vasta e solenne cattedrale cittadina: un mistero talmente prezioso, talmente glorioso, da essere pressoché indicibile, inesprimibile, specialmente da parte di chi lo accosta dall’esterno, con l’ingenua presunzione di giudicarlo senza farsi piccolo, senza accoglierlo con fede, da povera creatura di fronte alla maestà sfolgorante del suo Creatore. E forse in quel momento, mentre il sacerdote sta recitando la sacra formula: Hoc est enim corpus meum; hic est enim calix sanguinis mei, novi et aeterni testamenti; mysterium fidei: qui pro vobis et pro multis effundetur in remissionem peccatorum, forse in quel preciso momento si sta formulando spontaneamente, nelle profondità della sua anima, una sacra promessa, una promessa per la vita, di quelle che nulla potrà sciogliere, sino all’ultimo giorno del nostro pellegrinaggio terreno: Sì, o Signore; io sono tuo; io ti sarò sempre fedele, qualsiasi cosa accada. Non vi è promessa più sacra e più solenne di quella che viene formulata negli anni dell’infanzia, allorché ogni cosa si accende dei colori incandescenti della prima scoperta; e non vi è promessa più tenace, più ferma, più incrollabile, di quella che viene formulata quando i livelli superiori della coscienza non se ne rendono conto, ma la parte più profonda dell’anima, quella sì, quella lo sa, lo vuole, lo desidera con tutta se stessa, con quella generosità e quella dedizione totali, con quella capacità di eroica abnegazione di cui l’adulto, forse, non sarà mai capace, o, comunque, non lo sarà con altrettanta fede, purezza e sacralità. Gli sciocchi modernisti, abolendo il latino, "spiegando" i sacri misteri, portando la Parola di Dio al livello di comprensione della mentalità laica, in tutt’altre cose affaccendata che quelle di Dio, crede di aver reso un servizio alla religione, di aver reso il cattolicesimo più "adulto" e più "maturo": e non sanno che un bambino di terza elementare può benissimo afferrare il senso dei sacri misteri, a cominciare dal Sacrificio Eucaristico, anche se il sacerdote celebra in latino, o, per dir meglio, lo afferra ancora meglio se il rito si svolge nella lingua latina, perché, nella sacra liturgia, la parola non serve solo a descrivere, ma anche ad esprimere l’inesprimibile, ad accompagnare l’anima fino alla soglia d’un regno nuovo e sconosciuto, fatto solo di luce e di celestiali presenze.
Uscendo, poi, sul prato verde dello spiazzo antistante la chiesa, mentre la folla si rompe e la maggioranza degli uomini si dirige verso l’osteria — l’unica osteria del paesino, dove c’è l’unico televisore nel raggio di alcuni chilometri — per mandar giù due o tre bicchieri di quello buono, e i ragazzini si attardano all’ombra delle bandierine multicolori, nella bella mattina di sole, luminosa e calda, ma non afosa, quella sensazione, peraltro estremamente vaga e indefinita, si diffonde e si distende silenziosamente nell’anima del bambino, e gli risuona come una musica interiore, che la mente cosciente non arriva ancora ad afferrare e che comprenderà solo molto, moltissimo tempo più tardi. Si è trattato di una cosa estremamente seria, una cosa che lega per la vita e per la morte: una promessa fatta al Signore, Gesù Cristo eucaristico, nel segreto dell’anima, così a quattr’occhi, senza altri testimoni, sena contratti e carte scritte, eppure vincolante e definitiva. Più tardi, giocando a nascondino nella stalla e pefino dentro la mangiatoia delle mucche, quel bambino, in apparenza, se n’era forse già dimenticato; ma una parte di lui, la più intima, ispirata dal suo Angelo custode, ha preso quella promessa e l’ha deposta nello scrigno dell’anima, come la cosa più bella e preziosa di tutte: come un seme deposto nella terra, in attesa che passino i mesi e venga il momento in cui spunterà il germoglio della nuova pianticella. Non importa quanto tempo dovrà trascorrere; non importa se i casi della vita porteranno quel bambino, diventato adulto, lontano da quei luoghi e da quelle persone, da quelle circostanze e da quelle atmosfere; non importa se, in certi giorni, potrà sembrare che il flusso incessante della vita abbia completamente cancellato il retaggio dell’infanzia, insieme ai ricordi e ai pensieri di quel tempo ormai lontano, come dice l’Apostolo (1 Corinizi, 11): Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma, divenuto uomo, ciò che era da bambino l’ho abbandonato. Un giorno, quando sarà giunto il suo tempo, il seme germoglierà, e il significato di quella promessa tornerà alla coscienza, con tutta la sua forza.
Ebbene, quel momento è arrivato. È adesso. Ora quel bambino, che è divenuto uomo, si ricorda della promessa e si domanda, con stupore, che fine abbiano fatto quei sacerdoti, quei catechisti, quei compagni della prima Comunione, quelle famiglie, i quali, all’inizio degli anni Sessanta, ancora non si erano fatti sentire gli effetti del Concilio; quelli, beninteso, che sono ancora in vita. Nessuno di loro aveva formulato, come lui, una promessa? Ora che la Chiesa è invasa da subdoli nemici, i quali, spacciandosi per vescovi e sacerdoti, la stanno letteralmente devastando; ora che le famiglie, i laici, hanno fatto propria, al cento per cento, la mentalità consumista e lo stile di vita americano, ma pretendono che non vi sia alcun contrasto fra essi e il Vangelo, anzi, pretendo di adeguare il Vangelo a quella mentalità e a quello stile di vita, e osano chiamare tutto ciò "approfondimento della fede" oppure "dialogo col mondo", e ne decantano i mirabili effetti ogni santo giorno, egli si domanda se sia tutto un tragico scherzo, se sia un incubo ad occhi aperti quello che sta accadendo; se le cose insegnate un tempo abbiano perso ogni valore, ogni credibilità, e se sia davvero un motivo di vanto allontanarsi quanto più possibile da esse, per far vedere che si è moderni e progrediti. Quei preti che non vestono nemmeno più da preti, per esempio, perché lo fanno? Si vergognano di Gesù Cristo? Non sanno che un seminarista quattordicenne, Rolando Rivi, preferì farsi torturare e ammazzare dai partigiani comunisti, piuttosto che rinunciare all’abito sacerdotale che già indossava, pregustando il giorno delle sue nozze mistiche con la Chiesa? E quei cardinali, quei vescovi i quali elogiano i campioni del divorzio, dell’aborto e dell’eutanasia, che giustificano le unioni omosessuali, che danno indicazione ai sacerdoti di offrire la Comunione ai divorziati risposati; e quel papa che sa parlare solo di migranti, di accoglienza, di politica, e che, quando parla di Dio, lo fa solo per seminare dubbi, per creare imbarazzi e crisi di coscienza, per turbare le anime con affermazioni azzardate e a volte blasfeme: non avevano formulato alcuna promessa, costoro? Il papa attuale ha ottantadue anni, quindi, nel 1965, l’anno in cui si concludeva il Concilio, ne aveva quasi trenta: e che cosa pensasse allora, e anche in seguito, per parecchi anni, lo sappiamo dai testi delle sue conferenze e delle sue omelie. Diceva quel che dicevano tutti i membri del clero prima del Concilio, pensava come loro: aveva parole durissime per Lutero e i protestanti scismatici, attaccava ferocemente gli esponenti della teologia della liberazione. Che cosa gli è successo poi? Anche lui, come tanti, è stato folgorato sulla via di Damasco dallo spirito del Concilio (con la minuscola)? Se è così, avrebbe potuto dirlo: invece no; ha fatto finta, come gli altri, che non sia successo niente; che la chiesa di oggi sia la stessa di allora. Invece no: un enorme tradimento è stato consumato ai danni dei fedeli e in spregio a Gesù Cristo. Affare loro. Quanto a noi, non ci siamo scordati la promessa…
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