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Per redimersi dalla Shoah il cristiano deve sparire?

C’è chi è filosofo, e chi no. Non dipende dai titoli accademici, dalla quantità delle pubblicazioni e nemmeno dall’opinione del vasto pubblico. Se si cerca il suo nome su una qualsiasi enciclopedia, si troverà che Robert Nozick (New York, 1938-Cambridge, Massachusetts, 202), esponente di punta del libetarianismo, è universalmente considerato come un grande filosofo, anzi, come uno dei più grandi filosofi del XX secolo. Noi non ci prenderemo la briga di discutere l’insieme delle sue teorie filosofiche, anche se, possiamo dirlo senz’altro, non vi abbiamo trovato minimamente quella profondità o quella originalità che possano spiegare un consenso così generale sul valore del suo pensiero. La sua idea fondamentale è che esiste la persona, intesa come individuo; che tutto deve ruotare intorno alla persona, e, in particolare, il massimo dei diritti possibili e immaginabili; e che la società è un trascurabile contorno, che non ha realmente valore in sé, ma che serve solo e fino a quando essa può assicurare all’individuo tutta la libertà che questi chiede e pretende. Una filosofia del liberalismo estremo, che, come si vede, non si può considerare particolarmente sofisticata, visto che trascura il piccolo ma non irrilevante dettaglio che nessuno ha mai visto un individuo fuori della società, a parte il ragazzo selvaggio dell’Aveyron e qualche altro rarissimo caso di ragazzo o bambino cresciuti dai lupi, dalle scimmie o dalle iene, col risultato di essere regrediti ad un livello decisamente sub-umano. Esiste, peraltro, un sistema pressoché infallibile per capire se abbiamo a che fare con un vero filosofo, e consiste nel prendere, a caso, una parola-chiave, una parola-simbolo, un concetto filosofico fondamentale, e vedere come costui affronta l’argomento, quale metodo segue nel dare un certo valore a quella parola o a quel concetto. Non si tratta nemmeno di entrare nel merito dei suoi ragionamenti: è sufficiente vedere il metodo che adopera. È un sistema sbrigativo, quasi brutale, ma praticamente infallibile: il vero filosofo ha sempre un approccio ampio e indipendente; non si lascia mai catturare dalla pura emotività, non si adegua mai alle opinioni più corrive, per quanto diffuse; non si mette mai in fila per ripetere ciò che dicono gli altri, ma valuta ed esamina con l’occhio spassionato di chi non ha alcuna causa preconcetta da difendere, ma si pone solo ed esclusivamente alla ricerca della verità. Se crede che la verità esiste, beninteso. Se è un relativista, più o meno abilmente mascherato, va da sé che non crede in nulla, e quindi si concede il lusso di dire qualsiasi cosa e anche il suo esatto contrario, sostenendo, all’occorrenza, che quando aveva detto la prima cosa, la situazione era così, e quando ha detto la seconda, la situazione era colà. Per il relativista, infatti, tutto dipende dal contesto: non essendoci la verità, per lui ci sono solamente delle piccole verità parziali, da verificare di volta in volta, da usare finché ciò si rivela utile, e poi da gettare nel cestino e passare oltre.

Ora, scorrendo l’indice del libro che si può considerare come la sintesi del suo pensiero, La vita pensata, il lettore trova capitoli dedicati al morire, al creare, alle emozioni, alla felicità, all’oblio, alla luce e alle tenebre, alla saggezza, eccetera; ma uno spicca fra tutti, perché non riguarda circostanze esistenziali d’ordine generale, bensì un fatto storico: l’Olocausto (il libro è del 1989 e il temine politically correct era quello; poi qualcuno è riuscito a imporre universalmente quello, ancora più pesantemente teologico, di Shoah). Il lettore, stupito, si domanda: come mai, fra tutti i fatti storici, questo e solo questo ha meritato un capitolo a sé in uno zibaldone filosofico? Quando poi si va a leggere il detto capitolo, la perplessità diventa delusione, delusione totale: il discorso non si pone né sul piano storico — non vengono neanche fatti i nomi dei protagonisti; né, tanto meno, si arrischia una interpretazione del fatto nelle sue motivazioni storiche, per quanto aberrante e criminale sia stata la "soluzione" — né su quello filosofico, se filosofia è pensare il tutto e non la parte, e, prima ancora, semplicemente pensare. Nozick, parlando dell’Olocausto, non fa un esercizio di pensiero: fa un esercizio di oratoria viscerale; fa appello unicamente alle viscere, non alla testa del lettore. Fra l’altro, non sembra neppure sfiorato dal sospetto che di genocidi, perché questo è il termine corretto che gli storico dovrebbero adoperare, ce ne sono stati altri, a cominciare da quello degli Armeni, che precede quello degli ebrei e che, percentualmente, non è stato meno tragico quanto al numero delle vittime; egli dà per scontato e per dimostrato che l’Olocausto sia stato il Male Assoluto e, anche se non adopera questa espressione, tutto il suo discorso ruota intorno a questo concetto: prendere o lasciare. E siccome l’Olocausto è strato il Male Assoluto, esso ha letteralmente cancellato la Redenzione cristiana, sicché l’umanità è nuovamente una massa dannata, che potrebbe scomparire dalla faccia della terra senza lasciare alcun rimpianto dietro di sé. Gli abitanti di un’altra galassia, dice, troverebbero la cosa giusta e naturale. Veramente Nozick, non essendo cristiano, non avrebbe alcun dirotto di dire che la Redenzione è stata annullata dall’orrore dell’Olocausto: perché la Redenzione è un concetto teologico, e un filosofo la cui speculazione prescinde dal fatto religioso non ha niente da dire in proposito. Si tratta, appunto, solo di oratoria. Comunque, quale è la sola, possibile via d’uscita da questa perdita della Redenzione? Una nuova redenzione, questa volta fatta dagli uomini; una redenzione tutta umana, cioè una auto-redenzione, al posto di quella di Cristo, mediante la quale gli uomini dovrebbero fare un salto di qualità e diventare più buoni. Se questa è filosofia, lasciamolo giudicare a chi ha una testa per pensare; ma, se lo è, allora vuol dire che la qualifica di "filosofo" si può attribuire davvero a chiunque, anche a chi non si prende neppure il disturbo di spiegare per quali vie arrivi a certe conclusioni.

Ma lasciamo che il Nostro ci parli da sé di queste cose (da: R. Nozick, La vita pensata. Meditazioni filosofiche; titolo originale: The Examined Life, 1989; traduzione di Giulia Boringhieri, Milano, Mondadori, 1990, pp. 259-261; 263-264; 264-265):

La portata dell’Olocausto supera qualunque tipo di spiegazione e risposta: credo che l’Olocausto sia un evento paragonabile alla Caduta quale la concepiva il cristianesimo tradizionale. Qualcosa che muta radicalmente e drasticamente la condizione e lo status dell’umanità. Personalmente non credo che ci fu realmente quell’evento nell’Eden dopo il quale ogni uomo è nato con il peccato originale, ma qualcosa del genere è avvenuto adesso. L’umanità è caduta.

Non pretendo di capire perfettamente il significato di tutto ciò, ma questo è, penso, un aspetto: adesso non sarebbe una PARTICOLARE tragedia se l’umanità finisse, se la specie umana fosse distrutta da una guerra atomica o se la terra fosse avvolta da una nube che impedisse alla specie di continuare a riprodursi. Non voglio dire che l’umanità si MERITA tutto ciò. Un fatto simile comporterebbe una moltitudine di tragedie e sofferenze individuali, il dolore e la perdita della vita, e la perdita della continuità e del significato che risiedono nei figli, perciò sarebbe sbagliato e mostruoso da parte di chiunque causare tutto ciò. Quello che voglio dire è che prima sarebbe stata un’ULTERIORE tragedia, una tragedia in più oltre a quella che avrebbe colpito i singoli, se la storia e la specie umana fossero finite, ma che adesso quella storia e quella specie si sono macchiate, e la loro perdita non costituirebbe una perdita PARTICOLARE oltre a quella che colpirebbe ogni singolo individuo. L’umanità ha perso il suo diritto a continuare.

Perché sostenere che ci volle l’Olocausto per arrivare a questa situazione, quando sappiamo che cosa una civiltà occidentale evoluta aveva già permesso: schiavitù e tratta degli schiavi, i belgi in Congo, lo sterminio delle loro popolazioni indiane da parte degli argentini, la decimazione e il tradimento delle proprie da parte degli americani, vite umane mandate al macello durante la Prima guerra mondiale dai paesi europei, per non parlare di tutte le altre mostruosità che il mondo ha al suo attivo? È inutile mettersi a fare confronti tra le crudeltà e i disastri commessi. (Cina, Russia, Cambogia, Armenia, Tibet… questo secolo sarà conosciuto come l’epoca delle atrocità?) Forse l’Olocausto SUGGELLÒ la situazione, e la rese del tutto palese.

Eppure l’Olocausto da solo sarebbe bastato. Come un parente che disonora la sua famiglia, i tedeschi, i nostri parenti umani, hanno disonorato tutti noi. Hanno rovinato la nostra reputazione, ma non in quanto singoli: hanno rovinato la reputazione della famiglia umana. Anche se non siamo tutti responsabili di ciò che fecero coloro che all’epoca agirono o stettero a guardare, siamo tutti macchiati. Immaginiamo che degli esseri di un’altra galassia guardino la nostra storia. Non troverebbero sconveniente, peso, se questa storia ad un certo punto terminasse, se la specie di cui vedono tale storia finisse, distrutta da una guerra nucleare o per altre ragioni incapace di continuare. Questi osservatori vedrebbero le tragedie INDIVIDUALI che ne deriverebbero, ma non vedrebbero – è questo che intendo dire — una tragedia anche nella fine della specie. Quest’ultima, la specie che ha commesso tutto CIÒ, ha perso la sua dignità. Non che essa — lo ripeto — meriti di essere distrutta: solo, NON merita più di esserci. L’umanità si è auto desacralizzata. […]

Forse solo se soffriremo noi stessi ogni volta che sarà inflitta una sofferenza, o perfino ogni volta che qualcuno la proverà, potremo redimere la specie. Prima forse potevamo essere più isolati; ora questo non basta più. La dottrina cristiana ha sostenuto che Gesù prese su di sé il dolore di tutta l’umanità; agli altri si chiedeva di imitare Cristo, ma non di prendere anch’essi su di sé il dolore dell’umanità per redimerla. Se è vero che l’era cristiana è finita, allora è stata sostituita da un’altra in cui ognuno di noi deve prendere su di sé il dolore di tutta l’umanità. Ciò che Gesù avrebbe fatto per noi, prima dell’Olocausto, adesso l’umanità deve farlo da sé. In questo modo potrebbe anche ricucirsi la frattura tra giudaismo e cristianesimo. Qualunque cosa Cristo abbia fatto — su questo ebrei e cristiani potrebbero essere d’accordo — ora non vale più; viviamo in un stato irredento. La specie umana potrà essere — eventualmente- redenta solo se (quasi) tutti prenderanno su di sé il dolore degli altri. I cristiani potrebbero pensarla come una nuova era che continua e incarna più autenticamente il messaggio di Cristo; gli ebrei potrebbero vedere che gli altri adesso piangono sinceramente per una sofferenza così immane, e inflitta in modo così mostruoso, che dì’ora in poi dovranno essere diversi. L’Olocausto ci ha riproposto il problema della redenzione, con la differenza che la nuova redenzione deve provenire da noi, dall’umanità tutta, e l’esito è incerto. […]

L’Olocausto è un cataclisma immane che deforma tutto ciò che gli sta intorno. Talvolta i fisici descrivono le masse gravitazionali come distorsioni e deformazioni della geometria piana dello spazio fisico circostante; più è grande la massa, più è grande la deformazione. A mio parere l’Olocausto rappresenta un’immane e incessante deformazione dello spazio umano…

E questa sarebbe una riflessione filosofica? No: è solo la formulazione emotiva, mostruosa, di una nuova religione mondiale: la religione della colpa. Tutta l’umanità è colpevole e deve sentirsi tale. I tedeschi, in particolare, hanno disonorato per sempre l’umanità. Chiunque nasca, nasce sotto il segno della colpa. Curioso, perché Nozick dice di non credere alla storia del Peccato originale — il che lo pone automaticamente, secondo il celebre aforisma di un vero filosofo, Nicolás Gómez Dávila, nella categoria degli stupidi — però non esita a fabbricare una nuova versione del peccato originale, questa volta causato dall’Olocausto. Chiunque sia nato dopo quell’evento, è praticamente dannato. Vie d’uscita? Quasi nessuna: a meno che l’intera umanità prenda su di sé il peso di quel peccato, di quella croce e decida di redimersi da sé, sostituendo alla redenzione di Cristo la propria auto-redenzione. Difficile dire se Nozick, scrivendo queste cose, stia scherzando o faccia sul serio. L’enormità e la puerilità teologica di un simile concetto è talmente macroscopica, che si stenta a credere che un filosofo di professione l’abbia potuta davvero formulare. È evidente, infatti, che se Gesù Cristo, che per i cristiani è Dio, ha fallito nel tentativo di redimere gli uomini, dopo che essi si sono macchiati dell’Olocausto, gli uomini stessi non potranno mai riuscirci da soli. Sul piano del ragionamento, lo capirebbe anche un bambino. Ma Nozick, a questo punto — il libertario Nozick, il filosofo della libertà individuale assoluta o quasi assoluta — non ci sta offrendo un ragionamento: sta fondando una nuova religione, il cui scopo è farci sentire tutti colpevoli e perciò tutti maledetti. Non c’è male, per uno che fa della libertà la bandiera della propria filosofia.

Peraltro, nessuna originalità in questo "pensiero". Sono cose già dette, in particolare da Hans Jonas: dopo Auschwitz cambia tutto, cambia anche il pensiero di Dio; e nessuno potrà più scrivere una poesia o cogliere un fiore, perché non esiste più l’innocenza. Auschwitz è uno spartiacque, nulla è più come prima. In fondo, i luterani potranno assentire a questa visione cupamente pessimistica, perché Lutero insegna che l’umanità è una massa dannata e meritevole solo dell’inferno. Ma i cattolici, no. Cristo è morto per i peccati degli uomini e la sua Redenzione resta valida ed efficace per tutti: essendo Dio, non c’è un limite quantitativo al male che può riscattare. Ma lui solo, non noi.

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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