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E intanto ridono. Ma di cosa?

A un osservatore anche distratto non sarà sfuggito che la  cifra della neochiesa, e particolarmente del pontificato attuale, è la risata. Bergolio ride, ride continuamente; ride Sosa Abascal, quello che afferma di non credere all’esistenza del diavolo; ridono Paglia e Galantino, tutte le volte che parlano in pubblico, e specialmente quando s’incontrano fra di loro; ride James Martin, facendo le corna e le boccacce in televisione; ride il cardinale Marx, ride il cardinale Schönborn, quello che invita il transessuale Conchita Wurst nella cattedrale di Santo Stefano; ridono Antonio Spadaro, Antonio Rizzolo, Hans Küng, Walter Kasper. La Chiesa cattolica sta andando a pezzi, ma essi ridono; la fede si sta squagliando come nebbia al sole, ma loro ridono; il popolo cattolico è gettato dai suoi stessi pastori nella più grande confusione, nel turbamento, nell’amarezza, ma il riso non manca mai sulle loro labbra. Bergoglio ride più di tutti: si mette il naso da pagliaccio; si pone in capo il sombrero; va a trovare le suore di clausura e ride a gola spiegata, raccontando barzellette; parla a raffica, rilascia interviste, improvvisa dovunque e ride, ride sempre, con gli occhi lustri dalla soddisfazione, mentre i fotografi gli scattano un flash dietro l’altro, e la sua immagine ridanciana compare sulle copertine di tutti i giornali. Dice che Gesù fa lo scemo, che Gesù si è fatto diavolo, e poi ride; Paglia fa affrescare il suo domo con un affresco blasfemo, e intanto ride; magnifica le qualità morali di Marco Pannella, e ride; e così Galantino: dice che Dio risparmiò Sodoma, e poi si mette a ridere. Ride il cardinale Tagle, quello che si fa fotografare, ridente, accanto ai transessuali con la maschera da porco; quello che insegna a Bergoglio come si fa il gesto delle corna davanti ai fedeli; non il segno della croce, il segno delle corna: e ridono, ridono a più non posso, più divertiti che mai, come fossero al circo, come fossero a uno show televisivo di quart’ordine. E tutti quanti a ridere con loro e a battere le mani: che clero simpatico, che papa allegro, che arcivescovi scherzosi e alla mano! E intanto Bergoglio dice ai ragazzi di svegliarsi, di stare attenti, di non credere alle fake news, e intanto fa rientrare alla grande monsignor Viganò, costretto a dimettersi per una colossale, sfrontata fake news; e ridono entrambi.

Si faccia attenzione: tutti costoro non sorridono, ma ridono: ridono a piena gola. Ridono strizzando gli occhi lustri, quasi con le lacrime per il troppo ridere. Ridono e si piegano in avanti, come si fa nelle tavolate alle feste per l’addio al celibato, sotto la raffica delle barzellette sporche. Qualcuno dirà che non c’è niente di male, che siamo i soliti ipercritici, perfino paranoici. Ma c’è una bella differenza fra sorridere e ridere; specie quando si ricopre un ruolo come quello di papa, cardinale o vescovo; specie quando si è nello svolgimento delle proprie funzioni; specie quando il momento che la Chiesa sta vivendo è serio, serissimo. C’è un tempo per ridere e un tempo per piangere, dice la saggezza della Bibbia. E ancora: i grandi Santi non ridevano, ma sapevano sorridere. San Pio da Pietrelcina non rideva; non rideva san Leopoldo Mandic; non ridevano i grandi papi dell’Otto e Novecento, Pio IX, Leone XIII, Pio X, Pio XI e Pio XII, anche se sapevano sorridere tutti, di un sorriso mite e gentile. Giovanni Paolo I? Nossignore: anche lui sorrideva, ma non rideva in quella maniera scomposta. Gesù rideva? Ne dubitiamo. Di certo sorrideva, perché sorridere è una espressione di benevolenza e di umana simpatia. Ma ridere, è un’altra cosa: è una cosa tutta umana, troppo umana; e ridere in continuazione, a gola spiegata, mentre le anime sono turbate, ha qualcosa di diabolico. Non si ride mai in maniera del tutto innocente: si ride sempre di qualcuno, si ride sempre alle spalle di qualche altro che si trova in svantaggio, che diviene oggetto di divertimento. Ne abbiamo già parlato, a suo tempo, in un apposito saggio, prendendo le mosse da una osservazione del critico Giovanni Antonio Cesareo a proposito dell’Inferno di Dante, dove i diavoli ridono sguaiatamente (cfr. Sulla natura del riso, pubblicato originariamente sulla rivista Alla Bottega, Milano, n. 5, 188, e ripubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 27/03/2017). Sicuramente ridevano di Gesù Cristo i soldati romani mentre lo flagellavano nel pretorio, lo incoronavano di spine, lo percuotevano con una canna sulla testa, dopo averlo bendato; sicuramente ridevano quei Giudei che, mentre agonizzava sulla croce, gli dicevano: Tu che hai detto di saper distruggere e ricostruire il Tempio in tre giorni, salva te stesso! No, il riso non è mai una cosa del tutto innocente; si addice quasi sempre agli animi grossolani e alle situazioni sconvenienti; meno ancora è "pulito" quando esso si esplicita ai danni di qualcuno per il sollazzo degli altri. Infatti ridere di qualcuno è anche un’arma, un modo per ridicolizzarlo, per ridurlo al silenzio: una folla che ride di una persona è una folla crudele; e l’equivalente della risata in letteratura, cioè la satira, è uno strumento così tagliente, da poter distruggere qualsiasi avversario. Don Chisciotte subisce più volte l’oltraggio delle risate: l’atteggiamento degli altri lo riduce a uno strumento di divertimento, al rango di un pagliaccio. E il protagonista de L’uomo che ride, di Victor Hugo, è stato trasformato, da bambino, in una maschera mostruosa per strappare le risate del pubblico, mediante una orribile e spietata operazione di chirurgia facciale, che lo segnerà per tutta la vita. Perché la risata sia qualcosa di pulito, bisogna che sia come quella dei bambini: loro sì (e non sempre) son capaci di ridere senza malizia. Se un adulto sa ridere con la stessa innocenza di un bambino, allora la sua risata è una cosa buona; ma è piuttosto raro. San Giovanni Bosco, che viveva in mezzo ai ragazzi e che voleva sottrarli alla strada del male, attirandoli alla vita buona anche per mezzo del divertimento, senza dubbio sapeva ridere e soprattutto far ridere, ma di quella risata calda che fa bene al cuore.

Non stiamo dicendo che è male ridere; stiamo dicendo che il riso ha sovente qualcosa di cattivo, e che i  massimi esponenti del clero, in pubblico, nella solennità dei loro uffici, farebbero meglio ad astenersene. Ha qualcosa di sconveniente, perfino di sgradevole. E lasciamo che Umberto Eco, nel suoi banale e inutile romanzo Il nome della rosa, ingiustamente celebre, se la prenda con la Chiesa brutta e oscurantista che vorrebbe proibire il riso: ci basta vedere tutte quelle risate sulla bocca del neoclero progressista e su quella dei suoi amici laici, il professor Riccadi, per esempio, o Enzo Bianchi (che è un laico, anche se pare vestito da prete e se qualcuno lo vorrebbe cardinale), o i vaticanisti insopportabilmente servili verso il signor Bergoglio, quelli che non si erano accorti della falsificazione della lettera di Benedetto XVI; ci basta vedere un tale spettacolo, perché tutto questo gran ridere ci venga in sospetto, e peggio. Non possiamo fare a meno di domandarci quale sia, o quali siano, le ragioni di tanta allegria, di un così diffuso buonumore; perché la crisi della Chiesa è sotto gli occhi di tutti, come pure la crisi dei valori morali che la Chiesa ha sempre difeso e sostenuto, nei quasi duemila anni della sua storia. Perciò ci domandiamo: che cos’è che fa ridere tanto il signor Bergoglio? L’umiliazione e il castigo inspiegabilmente inflitti ai Francescani e alle Francescane dell’Immacolata? Il fatto che il cardinale Caffarra sia morto senza aver avuto da lui un cenno di riscontro riguardo ai dubia su Amoris laetitia, né sulla richiesta di un colloquio privato col pontefice, lui e gli altri tre cardinali? Ci chiediamo: che cosa lo diverte tanto, cosa lo fa ridere continuamente? I dati statistici sul crollo del cattolicesimo nella sua America latina, che parlano di un quarto dei cattolici che hanno lasciato la Chiesa, negli ultimi anni, per aderire alle numerose sette protestanti? Lo sterminio dei cattolici nei Paesi ove agisce il terrorismo islamico, quel terrorismo islamico che lui non vuol sentire neanche nominare, avendo affermato che non esiste? Oppure lo diverte che un sacerdote, nel bel mezzo della messa di Natale, a Torino, si rifiuti di far recitare il Credo ai fedeli, dicendo che lui non ci crede? O che un altro, a Genova, abolisca la Messa natalizia per una forma di rispetto verso i migranti? Lo diverte che un altro prete, a Milwaukee, Stati Uniti, si dichiari omosessuale in chiesa, davanti ai suoi parrocchiani? O che un altro prete americano, il gesuita Martin, sostenga che molti santi erano gay? O che l’arcivescovo di Santiago abbia ordinato sacerdoti due omosessuali notori? O che il vescovo di Rodez, in Francia, ordini i nuovi sacerdoti al ritmo delle danze sacre del dio Siva, con tanto di balletto indù, davanti all’altare maggiore della sua cattedrale? Sono queste le cose che lo fanno ridere, che lo divertono? E se non sono queste, cosa lo spinge ad una ilarità così incontenibile, debordante, benché un osservatore anche mediocre vede bene che ride solo con la bocca, facendo le smorfie, ma gli occhi no, quelli non ridono affatto, quelli restano duri e freddi come il ghiaccio, con uno sguardo che fa paura? Perché nessuno ride senza una ragione; si ride sempre per qualcosa. Si può sorridere anche senza una ragione specifica, perché il sorriso è un atto di gratitudine verso la bellezza del mondo; ma la risata piena, quella deve avere un motivo definito. Ma qual è il motivo per cui Bergoglio ride e fa ridere le suore di un convento di clausura? Proviamo a riflettere. Una suora di clausura è una persona che ha fatto una scelta: una scelta radicale, che, giudicata dall’esterno, può piacere o non piacere, ma, se coerente, esige sempre, crediamo, un profondo rispetto: se non altro perché è una scelta ardua, controcorrente, una scelta di solitudine, raccoglimento, silenzio. Non si capisce perché una suora di clausura debba ridere; non si capisce perché qualcuno debba recarsi in convento per farla ridere. Ha pietà di lei, della sua solitudine, della sua esistenza nascosta e mortificata? E vuole darle cinque minuti di allegria, per alleviare la tristezza in cui la crede immersa? Se è così, costui non ha capito niente: non ha capito che, dal punto di vista della scelta che quella suora ha fatto, a esser meritevole di compassione è lui stesso, non lei. Lui è ancora avviluppato negli inganni del mondo, lei ha conquistato la libertà. E che cosa può aspettarsi una suora di clausura, dalla visita di un sacerdote, e, a maggior ragione, dalla visita del sommo pontefice? Di che cosa ha bisogno, una suora di clausura? Che il papa venga nel suo convento e si metta a raccontare barzellette? Oppure che la guardi negli occhi, che le rivolga parole di fede, speranza e carità; o magari che l’ascolti, che la faccia parlare, che le chieda se può dirle qualcosa di utile, se può chiarirle qualche dubbio? Ma Bergoglio, figuriamoci: i dubbi, lui, è specializzato nel suscitarli, non certo nel chiarirli. Che nessuno si azzardi a portare un dubbio di fede davanti al signor Bergoglio: si sentirà rispondere che non ci sono risposte, che nessuno ha la risposta, e che deve anzi diffidare di chiunque dica di averla. Questa è l’assistenza spirituale che il signor Bergoglio è capace di offrire ai cattolici. Ma allora, perché andare in un convento di clausura e far ridere le suore, oltretutto in maniera scomposta, come si evince dalle fotografie dell’evento? E, fra parentesi, cosa c’entra il fotografo con un convento di clausura? Chi lo ha fatto entrare, e con quali intenzioni, se non quelle di magnificare, sempre più servilmente e sempre più demagogicamente, la grande simpatia e il calore umano del signor Bergoglio? A noi sembra che il solo scopo di quella visita, con quelle modalità mediatiche, sia stato – oltre, naturalmente, alla bassa propaganda personale del caudillo – quello d’introdurre deliberatamente il disordine fra le sacre mura di un convento di clausura. Al posto del silenzio, il rumore; al posto del raccoglimento, la barzelletta; al posto della contemplazione, la risata. Quelle suore hanno lasciato il mondo per trovare il silenzio, e, nel silenzio, Dio; quel Dio che, per loro, evidentemente è cattolico, anche se  il dio del signor Bergoglio, per sua esplicita dichiarazione, cattolico non è. Il silenzio, il raccoglimento, la contemplazione sono il loro cibo spirituale: è per essi che hanno lasciato il mondo, la famiglia, gli interessi, il lavoro, qualcuna anche il fidanzato. E il signor Bergoglio cosa fa? Va nel loro convento a portarvi la chiacchiera insulsa, la barzelletta, la risata: tutto ciò che viene dal mondo e le distoglie dal bene che stanno cercando.

Ciò fa parte di una precisa strategia: immanentizzare la fede, desacralizzare il sacro: la stessa strategia che persegue permettendo che le chiese e le basiliche vengano trasformate in dormitori e ristoranti. E si noti la diabolica astuzia della strategia: appena un filo la separa dalla perfetta normalità, persino dalla simpatia. Non è simpatico, un papa che va dalle suore di clausura e porta loro il dono di un poco d’allegria? Ma la premessa implicita è sbagliata: le suore di clausura hanno già la pace del cuore; se sorridono, non sorridono per delle insulse barzellette; e quel papa che va a farle scompisciare dalle risate è, letteralmente, un tentatore. Vuol portare lo spirito del mondo dentro le mura del convento; vuol suggerire che non l’umorismo vale più della spiritualità. Inoltre è riuscito, ancora una volta, come sempre, del resto, a trasformare il fatto in una promozione della sua immagine: non si parla delle suore, di cosa vuol dire essere suora di clausura nel mondo d’oggi: si parla di lui, della sua giovialità, della sua umanità, della sua semplicità. Semplicità soltanto simulata; e umanità del tutto assente. Stiamo parlando di un papa che ha negato anche solo un colloquio a quattro cardiali, che lo avevano chiesto non per ragioni personali, ma inerenti il Magistero; e che ne ha lasciati morire due senza batter ciglio. Stiamo parlando di un papa che ha trattato i Francescani dell’Immacolata come fossero dei delinquenti, o quasi; e che mai si è degnato di spiegar le ragioni di una così dura repressione, né mai, a dire il vero, la sua corte di adulatori servili gliel’ha chiesto. Il male inizia qui. Si parla sempre e solo di Bergoglio, e pochissimo di Dio…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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