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10 Marzo 2018La cultura moderna, che pure vorrebbe accreditarsi come umanistica, cioè amica dell’uomo, di fatto, da almeno un paio di secoli, altro non fa che spiegarci perché la vita è una cosa brutta, orribile, insopportabile: un tormento, un’agonia, per giunta incomprensibile,e incomprensibile perché insensata. Da Leopardi a Schopenhauer, da Flaubert a von Hartmann, da Pirandello a Heidegger, da Montale a Sartre, da Cioran a Eco, il messaggio è sempre lo stesso, ed espresso in termini sempre più cupi: la vita è inutile, è triste, è assurda, è ingiusta, è crudele, e sarebbe meglio che non ci fosse. Dalla perplessità di Petrarca, allo sconcerto di Shakespeare, al lucido dileggio di Gadda, all’angoscia di Kafka, alla disperazione di Pavese, la parabola della cultura moderna è una parabola verso la morte e il nulla.
Eppure non la pensava così Dante Alighieri; non la pensava così san Tommaso d’Aquino; e nemmeno Michelangelo, Bach, Chateaubriand, Kierkegaard, Manzoni, Hugo, Tolstoj, Dostoevskij, Eliot, Pound, Hamsun. Nessuno di costoro ha denigrato la vita; nessuno ha concepito e trasmesso l’idea che sia meglio non vivere che vivere; che la morte sia la liberazione dal male di vivere. Nessuno di loro ha visto la vita come qualcosa di assurdo, d’inutile, di deleterio, come uno sbaglio, un errore, una beffa; nessuno l’ha paragonata a una folle pupazzata, della quale gli uomini sono le inconsapevoli marionette. E dunque, chi aveva ragione? è bella, la vita, oppure no? la risposta, solo in apparenza banale, ci sembra che esista, e che sia semplicissima: è bella la vita buona, proprio perché meritevole di essere vissuta; non è bella la vita malvagia, perché apportatrice d’inutile sofferenza, sia per sé che per gli altri.
La stragrande maggioranza di coloro i quali denigrano la vita, che siano filosofi o no, si muovono all’interno dell’orizzonte psicologico e culturale della modernità, che è una civiltà anti-umana e, quindi, per sua stessa natura, necrofila. è quasi banale osservare che, da un simile punto d’osservazione, la vita non può che apparire brutta e immeritevole d’essere vissuta. Essi somigliano a quell’uomo che conduce un’esistenza malsana, fra superalcolici, droghe e ogni sorta di vizi, e che poi si lamenta della propria cattiva salute e, magari, se la prende con l’organismo umano, fatto in maniera tale da non reggere all’usura. Evidentemente, dovrebbe prendersela con se stesso se il suo fisico non ce la fa più. La salute è un dono, ma anche una conquista; e così l’intelligenza, la volontà, la memoria e tante altre cose preziose, che sta a noi coltivare con saggezza e sviluppare nella maniera giusta. Chi non ha alcun riguardo per il proprio fisico, non ha alcun diritto di lamentarsi del fatto di essere malato; e chi non si cura minimamente della propria vita morale, non può poi venire a dire che la vita è una cosa brutta, perché è lui ad averla sporcata.
Ma quali sono i vizi che imbruttiscono la vita e provocano il disgusto verso di essa, proprio da parte di coloro che più vi si sprofondano?
La morale cattolica, nella sua antica e sovrumana saggezza (perché non è una dottrina puramente umana, come lo sono l’umanesimo, o l’illuminismo, o il positivismo) ha sempre indicato quali sono i pericoli da evitare, le colpe da cui tenersi lontani. Si tratta del catechismo che una volta i bambini imparavano a memoria, e che oggi fior di monsignori sembrano non conoscere affatto, a giudicare da come parlano, scrivono e si comportano, e dal bruttissimo esempio che danno ai fedeli. Vogliamo rivederli insieme, così, tanto per schiarirci le idee, offuscate dalle dense e appiccicose nebbie che gravano sul cielo della società moderna, nascondendo la luce del sole e, con essa, anche le cose più semplici ed evidenti. E ci riferiamo, difatti, a un semplicissimo testo di catechismo, quello del Vandelli, uno di quelli che avevano il pregio della chiarezza. Si noti la data: 1963; e la semplicità del titolo, Gesù amico. Poi sono arrivati i catechismi "moderni", cioè posteriori al Concilio: ed è cominciata la confusione. Se un amico proveniente dall’ateismo, o da un’altra fede religiosa, volesse accostarsi al cristianesimo e alla morale cattolica, e ci chiedesse dei libri da leggere per meglio comprendere il senso del Vangelo, noi gli consiglieremmo quei testi di teologia e di morale che sono stati pubblicati prima del Concilio: perché, indipendentemente dal giudizio storico che si vuol dare su quell’evento, e sappiamo bene che i pareri sono assai discordi, resta il fatto che fin verso il 1965 la Chiesa sapeva parlare in modo chiaro e limpido su qualsiasi argomento; dopo di allora è incominciata, in buona o in cattiva fede, la confusione, che è andata poi sempre crescendo, fino alla Babele odierna, in cui pare che non ci sia più una sola Chiesa cattolica, cioè ecumenica, ma che ci siano innumerevoli interpretazioni del Vangelo, anzi, del Concilio; in cui, cioè, pare che il Concilio, e più il cosiddetto "spirito del Concilio" (con la minuscola) che i documenti veri e propri del Concilio, sia divenuto quasi un secondo vangelo, che viene ad integrare e magari a "migliorare" il Vangelo di Gesù, un po’ come il Nuovo Testamento è venuto a integrare e oltrepassare l’Antico Testamento. E qui chiudiamo la parentesi.
Innanzitutto, i vizi capitali, generatori, a loro volta, di altri vizi. Sono la superbia, l’avarizia, la lussuria, l’ira, la gola, l’invidia, l’accidia.
Dalla superbia, poi, facilmente derivano la vanagloria, l’ambizione, l’insubordinazione, la smania esagerata d’indipendenza. Il correttivo della superbia, insegnatoci costantemente da Gesù Cristo, è l’umiltà. Potremmo affermare che la superbia è il tratto distintivo della modernità, e che l’umiltà è la via maestra per uscire dal vicolo cieco in cui la modernità ci ha sospinti. Quanto più una persona è dominata dalla superbia, tanto più è lontana dal poter comprendere la bellezza e il significato della vita, perché ogni cosa le si presenta come sotto l’effetto di una lente deformante; e quanto più una persona è capace dell’umiltà cristiana, tanto più possiede gli strumenti per vede ciò che il superbo non può vedere, cioè la bellezza e il valore della vita umana.
L’avarizia genera la frode, l’egoismo, l’insensibilità, la durezza di cuore verso gli altri, anche i sofferenti, e una continua inquietudine dell’animo. Il rimedio all’avidità è la generosità, intesa come capacità di essere larghi nel donare, ma sempre con saggezza e con senso della misura, perché anche il dono è soggetto a un limite, oltre il quale cessa di essere una cosa buona e giusta, e comincia a diventare un pericolo o un incitamento a vivere in maniera sbagliata, cioè aspettandosi sempre di ricevere dagli altri qualcosa, senza far nulla.
La lussuria genera tutti quei vizi che le consentono di auto-alimentarsi in una spirale negativa che non ha mai fine; molti crimini sono originati dalla lussuria, e anche molti comportamenti e molte azioni che, pur non essendo perseguibili a termini di codice penale, sono comunque moralmente ripugnanti. L’antidoto alla lussuria è la purezza: e noi accusiamo molti teologi, vescovi e sacerdoti dei nostri giorni di non parlare mai della purezza, come se fosse qualcosa di superato o, peggio, d’irrealizzabile. Perfino da un documento che dovrebbero essere Magistero (e non lo è), come Amoris laetitia, traspare l’idea funesta che l’uomo non possiede forze sufficienti per vincere la propria debolezza e che, pertanto, la Chiesa deve "sanare" i suoi peccati, dichiarando lecito ciò che lecito non è. Il grande errore, ammesso che si tratti di un errore e non di una falsificazione deliberata della dottrina cattolica, è di pensare che l’uomo possa e debba, eventualmente, uscire dai peccati con le sue sole forze: ma questa è un’idea assolutamente non cattolica. L’uomo, da solo, non può fare niente; ma con l’aiuto di Dio, può fare praticamente tutto (cfr. la similitudine evangelica della vite e i tralci: Gesù è la vite, gli uomini sono i tralci, che solo restando in Lui possono dare molto frutto, altrimenti sono destinati ad essere gettati via, come inutili sarmenti). Dunque, non è per nulla irrealistico predicare la purezza e proporla come antidoto al vizio della lussuria: e lo dimostra la via dei Santi, che l’hanno seguita e che vi hanno trovato le risorse per vincere le proprie umane debolezze. Ora, i Santi non sono degli extraterrestri: sono uomini e donne normalissimi, proprio come ciascuno di noi; ma hanno saputo avere una piena e perfetta fede in Dio, e da essa hanno ricevuto le forze straordinarie per fare quel che, senza di Lui, non sarebbero mai stati capaci di fare. Questa è la differenza fra i grandi uomini e i Santi: i primi sono stati capaci di fare cose "grandi", ma solo e unicamente sul piano umano; e la fragilità di tali costruzioni, prima o poi, è stata rivelata dal corso impietoso del tempo; gli altri hanno fatto cose grandi con l’aiuto di Dio e nello spirito di Dio, e nessuna di tali opere è degenerata, o decaduta, o si è trasformata nel suo contrario, perché l’albero buono non può dare frutti cattivi; figuriamoci se lo potrebbe un albero coltivato da Dio stesso.
L’ira può ingigantire, si alimenta di se stessa, può diventare furore e condurre al delitto; Gesù ci ha mostrato quali siano gli antidoti ad essa: la mansuetudine, la mitezza, la pazienza. Prendete esempio da me, che sono mite e umile di cuore, ha detto.
Il vizio della gola si combatte con la sobrietà e la mortificazione. Ma di quale sobrietà possono essere capaci gli uomini, se la Chiesa smette di parlare del digiuno e, più in generale, della mortificazione? Se il concetto stesso della mortificazione è stato abolito, archiviato, nascosto come un parente povero di cui ci si vergogna, in nome di una Chiesa "gioiosa" e "aperta al mondo", che è poi, sovente, una falsa chiesa pronta e disposta a transigere sui vizi e sui peccati, pur di piacere al mondo, anziché a Dio?
L’invidia genera la mormorazione, la maldicenza, e, nei casi più gravi, la calunnia e l’ingiuria. Poiché essa vede il bene altrui come una ingiustizia nei confronti del proprio io, la persona invidiosa inclina a credere che i meriti altrui siano finti e immeritati e quindi denigra sistematicamente il prossimo, nel quale vede sempre e solo un nemico, un ostacolo da abbattere per giungere alla propria affermazione e al proprio trionfo.
L’accidia, infine; anche riguardo ad essa, Gesù ha insegnato come la si combatta con l’adempimento dei doveri relativi al proprio stato e con la diligenza pratica nella vita cristiana, a cominciare dalla preghiera e dalla frequentazione dei Sacramenti, per ricevere da essi la forza soprannaturale di cui gli uomini hanno bisogno.
Tutti i vizi che abbiamo elencato sono peccati gravi, che imbruttiscono la vita e la trascinano nel fango. Ve ne sono poi alcuni particolarmente odiosi ed esiziali, dieci, dei quali sei sono conosciuti come peccati contro lo Spirito Santo, perché si oppongono alla verità e alla Grazia di Dio, e quattro sono direttamente contrari al bene dell’umanità. I primi sono la disperazione della salvezza, la presunzione di salvarsi senza merito (un vizio uguale e contrario al precedente), l’impugnare la verità conosciuta, l’invidia della grazia altrui, l’ostinazione nei peccati e l’impenitenza finale; i secondi sono l’omicidio volontario, il peccato impuro contro natura (riflettano, i vari Paglia e Galantino, Bonny e Schönborn, Marx e Martin, tutti gay-friendly: sono fuori dalla dottrina cattolica), l’oppressione dei poveri e la frode nella mercede agli operai.
Arrivati a questo punto, possiamo solo aggiungere che il giudizio sulla bellezza e sul valore della vita dipende, evidentemente, da ciò che s’intende allorché si adoperano simili espressioni. Se si intende, come fa il mondo e, sempre più spesso, come fa la neochiesa, che una vita umana è bella e degna nella misura in cui vi si colgono piaceri e soddisfazioni di ordine puramente umano, possiamo tranquillamente concordare con quanti si esprimono in maniera assai pessimistica: perché, umanamente parlando, tutti i piaceri sono imperfetti e tutte le soddisfazioni sono transitorie, mentre il dolore e l’insuccesso sono piuttosto la regola che l’eccezione. Oltre a ciò, i vizi nei quali sprofondano le anime che si sono allontanate da Dio, anche se producono sensazioni piacevi sul momento, logorano e deteriorano sempre più gravemente la dimensione spirituale e, quindi, imbruttiscono l’orizzonte esistenziale, anche se il soggetto non se ne rende conto, per cui contribuiscono a deprimere l’animo e a spingerlo verso il cinismo e l’indifferenza, cose che non rendono la vita più bella, neppure per il più incallito egoista, ma più brutta. Alcuni sostengono che è possibile condurre una vita egoistica e immorale, perfino malvagia, senza provare rimorso e, quindi, senza soffrire a causa del male commesso. A livello cosciente, crediamo che ciò sia possibile ad alcuni soggetti; resta da vedere che cosa ne pensi l’inconscio. Ad ogni modo, anche ammesso che vi siano realmente delle persone così totalmente prive di senso morale da ignorare il rimorso, è certo che esse avanzano in una nube sulfurea e si lasciano dietro le spalle il dolore, l’amarezza e la disperazione altrui; ciò contamina tutto l’ambiente e quindi, alla lunga, finiranno per soffrire le conseguenze anche coloro i quali sono all’origine del male. Viceversa, per chi è mondo dai vizi e vive nella confidenza con Dio, la vita non può non presentarsi sotto una luce positiva, luminosa, affascinante. Sempre, però, costui l’apprezzerà fino ad un certo punto, perché la vita umana non ha tutto il proprio significato in se stessa, ma rimanda a qualcos’altro, e il cristiano sa bene di che cosa si tratti: della vita eterna, dove tutte le contraddizioni si scioglieranno e dove tutto ciò che non avevamo compreso, diverrà finalmente chiaro e manifesto, perché vedremo Dio faccia a faccia…
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