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Il pentimento è grazia, ma bisogna chiederla

C’è un concetto chiave nell’antropologia cristiana e nella spiritualità cristiana, che la teologia dei nostri giorni ha praticamente abbandonato: quello del pentimento cristiano. Diremo di più: il pentimento è un concetto cristiano, è una "scoperta" e una conquista del cristianesimo. Prima, ad esempio nel mondo greco, non c’era; c’era il senso di colpa, ad esempio quello di Oreste per aver ucciso sua madre Clitemnestra, o quello di Edipo per aver scoperto di aver ucciso suo padre e sposato sua madre. Invano si leggerebbero Omero e Virgilio, Euripide e Lucrezio, Plutarco e Cicerone, cercandovi le tracce del pentimento: o c’è il senso di colpa, o c’è il rimorso per la cattiva azione, ma non c’è il pentimento come ammissione della colpa e desiderio di espiare e di cambiare strada, di cambiar vita, di far nascere l’uomo nuovo dalle ceneri dell’uomo vecchio. E questo per una buona ragione: il pentimento nasce dalla sofferenza del male commesso; e la sofferenza, di qualunque genere essa sia, solo nel cristianesimo acquista la dignità di una occasione di crescita, di perfezionamento, di arricchimento, addirittura di rinascita spirituale. In tutte le altre culture e filosofie essa è solo una maledizione o un incidente sgradevole, da allontanare il più presto possibile, a qualsiasi prezzo.

Il pentimento cristiano porta con sé il desiderio di riscatto, di espiazione e di redenzione; e, siccome l’uomo sa di non potersi redimere da sé, porta al ritorno verso Dio. Nel pentimento, l’uomo peccatore scopre di avere un Padre pronto ad accoglierlo e a perdonarlo, a rimetterlo in piedi, a restituirgli la sua dignità di figlio. Ma senza pentimento, l’uomo non trova Dio, non trova la redenzione e non trova la liberazione; né ritrova la pace con se stesso, bensì, al massimo, egli può simularne le apparenze, raddoppiando il carico d’infelicità che gli grava sull’anima: quello della colpa e quello della finzione. Ecco perché è cosa gravissima che il clero dei nostri giorni abbia smesso di parlare, con la chiarezza e l’autorevolezza necessarie, del pentimento cristiano. Se non c’è il pentimento, non c’è il ritorno a   Dio e quindi non c’è Dio: c’è solo una umanità sprofondata in se stessa, ripiegata su se stessa, ora con la fierezza spudorata dell’orgoglio e del narcisismo, ora con la cupa desolazione e il senso di angoscia di chi si trascina vanamente nella palude della propria bassezza e indegnità.

Scriveva il teologo e biblista belga André Louf (1929-2010), monaco trappista, nel suo libro Generati dallo Spirito (titolo originale: La grâce peut davantage. L’accompagnement spirituel, Paris, Desclée de Brouwer, 1990; traduzione di Valerio Lanzarini, Edizioni Qiqajon, Magnano, Vicenza, 1994, p. 142):

Isacco il Siro, grande spirituale e monaco del VII secolo, così descrive la grazia del pentimento cristiano:

"Colui che conosce i propri peccati è più grande di colui che con la preghiera risuscita un morto… Colui che per un’ora piange su se stesso è più grande di colui che ammaestra l’universo intero. Colui che conosce la propria debolezza è più grande di colui che vede gli Angeli… Colui che, solitario e contrito, segue Cristo è più grande di colui che gode il favore delle folle nelle chiese." (Discorsi ascetici, 34).

È in questi termini, che volutamente sfiorano il paradosso, che Isacco vuol mettere in luce il carattere specificamente cristiano del pentimento. Lo si incontra unicamente nella scia dell’evangelo, e da nessun’altra parte, in nessun’altra religione, in nessun altro umanesimo. Il pentimento cristiano non è riducibile né paragonabile a nessun’altra esperienza dell’uomo lasciato alle proprie forze. Non lo si può contraffare senza correre il rischio di cadere nel ridicolo o di sprofondare nello squilibrio. È un frutto assolutamente certo dello Spirito santo e uno dei segni meno contestabili della sua azione nell’anima.

Il pentimento cristiano, dunque, non è solo una conquista dell’anima umana: è, prima di tutto, una grazia; e, come avviene della grazia, è un dono che scende dall’alto e che viene da Dio; è una cosa di cui l’uomo, da solo, non sarebbe capace. Non solo l’uomo non potrebbe redimersi da se stesso, ma non potrebbe nemmeno pentirsi del male fatto, se Dio non gli donasse la grazia del pentimento. Non vi è nulla di più terribile, sul piano morale, di un feroce assassino, il quale, con le mani lorde di sangue, dopo aver torturato sadicamente le sue vittime e aver inferto loro ogni sofferenza possibile, appare, poi, del tutto incapace di pentimento, non mostra alcuna contrizione, anzi, continua a vantarsi e a gloriarsi di quel che ha fatto. Nulla si può immaginare di più atroce di questo; nessun orrore eguaglia un simile orrore. Ebbene: quell’anima si è chiusa al pentimento perché si è chiusa alla grazia; e si è chiusa alla grazia perché si è chiusa a Dio, si è ribellata contro Dio. La sorte dell’anima che rifiuta Dio e si ribella alla sua legge, che è legge di amore e di giustizia insieme, è l’inferno della mancanza di pentimento. Così ha rappresentato le anime dannate anche Dante Alighieri: feroci, disumane, arroganti, disperate; anime perse perché prive della capacità di pentirsi. Questo è il peggiore di tutti gli inferni, e comincia già sulla terra, mentre l’anima è ancora unita al corpo. Un’anima che non sappia pentirsi dopo aver fatto il male è quanto di più simile si possa immaginare ad un demone dell’inferno.

Il signor Bergoglio ha affermato che anche Giuda Iscariota, essendosi pentito, forse si è salvato. Andiamo a vedere cosa ci dice in proposito il Vangelo (Matteo, 27, 3-5):

Allora Giuda — colui che lo tradì -, vedendo che Gesù era stato condannato, preso dal rimorso riportò le trenta monete d’argento ai capi dei sacerdoti e agli anziani, dicendo: "Ho peccato, perché ho tradito sangue innocente". Ma quelli dissero: "A noi che importa?Pensaci tu!". Egli allora, gettate le monete d’argento nel tempio, si allontanò e andò a impiccarsi.

Come si vede, non si parla di pentimento, ma di rimorso, che è cosa ben diversa: il rimorso non ha nulla a che vedere con il pentimento cristiano, è semplicemente il rimprovero della coscienza per il male fatto. Dunque, se Giuda non si è pentito – e che non si sia pentito lo prova il gesto del suicidio, che recide definitivamente la relazione d’amore con Dio Padre – non è nemmeno pensabile che si sia salvato. Di questa opinione sono stati tutti i teologi e i Padri della Chiesa, almeno fino a Bergoglio.

E ora andiamo a vedere che cos’è il vero pentimento cristiano, attraverso le parole stesse di Gesù Cristo, nella parabola del padre misericordioso, comunemente nota come la parabola del figlio prodigo (Luca, 15, 17-19):

Allora rientrò in se stesso e disse: "Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi servi".

Ora, se la grazia del perdono è un dono del Cielo, per mezzo del quale gli uomini, per quanto peccatori, possono rientrare nella relazione di amore con Dio Padre, vale la pena di domandarsi per quale motivo quanti dovrebbero parlare incessantemente di un dono così prezioso, cioè i sacerdoti, e, in secondo luogo, i teologi (ma oggi, incomprensibilmente, il rapporto gerarchico si è rovesciato e i teologi dettano l’agenda ai sacerdoti), hanno praticamente smesso di farlo, e, in compenso, parlano continuamente di questiono sociali, politiche, umanitarie, perfino ecologiche e ambientali, quasi volessero distogliere i fedeli dall’orizzonte soprannaturale e farli diventare un po’ alla volta, a loro insaputa, non più cattolici, cioè seguaci di Gesù Cristo, Dio Incarnato e Salvatore dell’umanità, ma praticanti di un culto interamente laico e immanente, che ha nell’uomo stesso il suo fulcro e il suo centro vitale, e nella fiducia dell’uomo di potersi riscattare da ogni male, il suo obiettivo ed il suo scopo ultimo. Questo è un pensiero terribile: si vorrebbe credere che sia il frutto di un ragionamento errato, di una errata interpretazione dei fatti. Ma i fatti, purtroppo, sono qui, sotto i nostri occhi: e i fatti attestano che Bergoglio e il neoclero parlano sempre e solo della misericordia di Dio, mai o quasi mai della gravità del peccato e della assoluta necessità, nonché della grazia donata da Dio, del pentimento. Discorsi e anche documenti ufficiali, come Amoris laetitia, paiono decisamente minimizzare la gravità del peccato e si spingono fino a suggerire che Dio, in certe situazioni, non chiede agli uomini di uscire dal peccato, per esempio dall’adulterio, ma di rimanerci tranquillamente. Quanto al pentimento, via necessaria per la salvezza e il ristabilimento del legame filiale con Dio, praticamente si è smesso di parlarne; peggio ancora: si dà a intendere che gli uomini possono salvarsi anche senza il pentimento, e che il peccatore sarà comunque perdonato da Dio, indipendentemente dal fatto di essersi pentito o meno. Ma questa è una cosa assurda, contraria al Vangelo, e quindi totalmente non cattolica. Chi afferma una cosa del genere, o anche solo si limita a suggerirla, è indegno di parlare o di scrivere in nome e all’interno della Chiesa di Gesù Cristo. Che ne sia cosciente o no, è solo un seminatore di confusione e si assume una responsabilità gravissima, incalcolabile: perché si tratta di un ambito in cui la confusione o la chiarezza della dottrina fanno la differenza fra l’eterna beatitudine e l’eterna dannazione. Ricordiamo le parole di Isacco il Siro: Colui che, solitario e contrito, segue Cristo è più grande di colui che gode il favore delle folle nelle chiese. C’è di che restare pensosi, specialmente  riflettendo su quel che sta accadendo oggi, nella Chiesa cattolica, dove le folle sembrano andar dietro a chi promette più misericordia a buon mercato, mentre tace sulla grazia del pentimento, unica strada perché possa agire la misericordia divina.

La teologia contemporanea, dominata dall’idea funesta della "svolta antropologica", cioè di fare perno sull’uomo anziché su Dio, ha condotto inevitabilmente a minimizzare il senso del peccato e la necessità della redenzione che viene solo e unicamente da Dio. E questo perché tale "teologia" (che andrebbe scritta fra virgolette, essendo una truffa bella e buona: se è teologia, non può fare perno sull’uomo, altrimenti sarà, al massimo, psicologia) vorrebbe emancipare l’uomo sia dalla dipendenza verso Dio, sia dalla sua condizione creaturale, limitata e peccatrice. Diciamola tutta: a codesti pseudo teologi, a Karl Rahner, a Yves Congar, a Henri de Lubac, a Edward Schillebeeckx, ad Hans Küng, a Walter Kasper, e a tutto il neoclero più o meno progressista, modernista e debitamente vicino al "popolo", ai "poveri", agli "ultimi", cioè, come ama descriversi, "di strada" (con oscena allusione alla propria tematica preferita: la "liberazione sessuale" e, quindi, la porno-teologia, vedi nozze gay e sacerdozio gay), non piace l’idea che l’uomo sia "soltanto" una creatura; che sia debole e incapace di fare il bene; che sia solo un tralcio privo di qualsiasi valore e utilità, a meno che rimanga bene attaccato alla Vite divina. A loro non piace il fatto che l’uomo porti impressa la ferita del Peccato originale: sono tutti, più o meno consapevolmente, dei neo-pelagiani, e amano pensare che l’uomo sia capace di scegliere il bene anche da solo, di praticarlo, di riconoscerlo, senza uno speciale aiuto da parte del Signore. Questa dipendenza da Dio dà loro ombra; essendo, in fin dei conti, dei neo illuministi, gonfi di superbia intellettuale, e dei modernisti, i quali pretendono di "spiegare" la fede con la sola ragione, vorrebbero immaginare che l’uomo possieda tutte le risorse per essere buono e per fare il bene. Come Adamo ed Eva nel Giardino dell’Eden, vorrebbero esser simili a Dio: vorrebbero mangiare il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male, così come sono convinti, convintissimi, che, essendo dei cristiani "adulti" e "maturi", gli uomini hanno il "diritto" di prendere in mano l’Ostia consacrata, stando ritti in piedi, e di portarsela in bocca da sé, non di doverla ricevere dalle mani del sacerdote, come se fossero dei bambini. Vogliono pensare ad un uomo che se ne sta sempre con la schiena e con le spalle dritte, che non s’inginocchia mai, neppure davanti al Santissimo; questo vi ricorda qualcosa? A noi, ricorda molto il signor Bergoglio, che s’inginocchia volentieri davanti ai poveri, per lavar loro i piedi, meglio ancora se musulmani, mal di schiena o non mal di schiena; però non ama genuflettersi davanti alla Presenza Reale di Gesù nel Pane eucaristico. Tutti questi signori se la vedranno un giorno con Colui che disse: Rimanete in me, perché senza di me non potete fare niente. A noi, come a qualsiasi cristiano, incombe l’obbligo di dire quel che essi non dicono più, e cioè che l’uomo è peccatore; deve pentirsi dei suoi peccati; deve chiedere a Dio la grazia del pentimento, perché il pentimento è necessario ma non è cosa solamente umana. Preghiamo per noi e anche per loro, amen.

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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