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Ama il prossimo tuocome te stesso

Gesù Cristo ha insegnato questo comandamento: Ama il prossimo tuo come te stesso. Non ha detto: più di te stesso; ma ha detto: come te stesso. Dunque, per amare il prossimo bisogna amare anche se stessi; chi non sa amarsi, non sa nemmeno cosa sia il vero amore del prossimo. Sarà solo un masochista che riversa sugli altri il suo bisogno di approvazione, cercando di placare la sua ansia nevrotica di sentirsi "buono" e a posto con la coscienza; anche al prezzo di trascurare se stesso e i suoi cari, quelli che gli sono più vicini, più "prossimi". L’amore del lontano prenderà il posto del doveroso amore di sé e dell’amore del vicino, del figlio, del fratello, creando situazioni disarmoniche, ingiuste, paradossali, assurde.

Gesù ha anche detto: Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini. E, se poi ha ceduto e si è arreso alle insistenti preghiere della donna siro-fenicia, che chiedeva il suo aiuto per la propria figlia, posseduta da uno spirito maligno, nondimeno ha stabilito un principio: che il pane va dato prima di tutti ai propri figli; poi, se ne avanza, anche ai lontani. Non ha detto che il pane va dato solo ai lontani, agli stranieri, né che va dato a loro prima che a chiunque altro; ma tutto il contrario: prima ai propri figli, poi agli stranieri. E siccome si tratta di una nozione elementare, addirittura istintiva, vien da chiedersi perché Egli abbia voluto ribadirla. A nostro avviso, lo ha fatto proprio per evitare fraintendimenti, per evitare che qualche suo discepolo sprovveduto e troppo zelante arrivasse all’eccesso di "amore del prossimo" che consiste nel prodigare tutte le cure allo straniero, ignorando totalmente chi ci è maggiormente vicino. Gesù, nella sua divina intelligenza, sapeva che qualcuno avrebbe potuto prendere troppo alla lettera certi suoi insegnamenti, a rischio di diventare insensibile verso i propri figli e i propri fratelli per una forma sconsiderata di "amore" dello straniero. Ciò che oggi, nondimeno, sta puntualmente accadendo, e proprio nella sua Chiesa e nel suo Nome.

Gesù, nella parabola del buon samaritano, ha voluto toccare il cuore durissimo di certi suoi ascoltatori, facendo loro capire che il nostro prossimo è chiunque si prenda cura di noi, a qualunque popolo o fede egli appartenga; ma non ha voluto insegnare che quella dell’eterno bisognoso è una professione meritevole di eterna compassione e di eterna assistenza gratuita. L’uomo che è stato soccorso dal buon samaritano se ne andava per la sua strada, quando venne assalito, percosso e derubato dai ladroni. Non se l’era cercata: andava per i fatti suoi. Se milioni di persone si avventurano in viaggi pericolosi, non per una necessità reale o un pericolo immediato, ma semplicemente perché attirati dal miraggio di una vita più comoda e con tanti beni a disposizione, coloro nei quali s’imbattono non hanno alcun obbligo di accoglierli, sfamarli, ospitarli, farli entrare nelle loro case, offrire loro una residenza stabile, a discapito del futuro dei propri figli. Questo è un grossolano fraintendimento del comandamento dell’amore: una via di mezzo fra la perfetta stupidità e un rozzo buonismo manicheo, di matrice ideologica, più precisamente marxista: è la solita vecchia storia del "povero" che ha sempre ragione, a prescindere da qualsiasi cosa.

E ora vogliamo descrivere alcuni quadretti di vita quotidiana che si verificano in un raggio di pochissimi chilometri da casa nostra, al ritmo di parecchi ogni santo giorno: vogliamo precisare che nessuno è frutto d’invenzione, tutti si sono realmente verificati o si verificano abitualmente; solo dei più clamorosi, tuttavia, si occupano le cronache locali: quanto alle cronache nazionali, non ci arrivano mai, perché non sarebbe politicamente corretto far sapere al popolo italiano in quali termini sta realmente, oggi, la questione dei cosiddetti migranti. Non si sa mai, c’è il rischio di dare esca al fascismo e al razzismo, che sono sempre in agguato nel fondo oscuro del nostro popolo, e pronti ad esplodere, nonostante il minuzioso e capillare lavaggio del cervello operato da settant’anni di assoluta e incontrastata egemonia culturale della sinistra marxista e, più recentemente, da qualche decennio di crescente totalitarismo catto-comunista, veicolato, da ultimo, dal papa e dalla C.E.I. in prima persona, senza pudore né ritegno. 

Prima scena

Stanza di un medio ospedale di provincia, due donne ricoverate per un parto difficile: una italiana, una islamica. Al momento delle visite, si presenta il figlio della donna italiana, ma l’altra non vuole che entri, non ha il velo, e i parenti di quest’ultima si oppongono con forza. Il figlio protesta, va alla direzione: tutto quello che riesce a ottenere è che sua mamma venga spostata in un’altra stanza. La donna islamica rimane padrona del campo, secondo le sue regole: lei e la sua famiglia hanno imposto all’ospedale il loro volere.

Seconda scena.

Sala d’aspetto del pronto soccorso, nel medesimo ospedale. Ci sono diverse persone in attesa, in gran parte straniere: marocchini, nigeriani, albanesi, eccetera. A un certo punto arriva un italiano che si è tagliato col coltello, un tipico incidente domestico: si mette pazientemente in attesa anche lui. Ma il tempo passa, e non lo fanno entrare. Si accorge che stanno facendo passare numerosi stranieri, arrivati dopo di lui. A questo punto, dolorante, si alza e chiede spiegazioni: gli rispondono di avere pazienza, che bisogna fare così, altrimenti "quelli" piantano una grana colossale, è preferibile dare loro la precedenza, a scanso di complicazioni. Il giorno dopo, riferendoci l’episodio, quell’uomo ci ha confidato: Quando sono tornato a casa, ero talmente offeso e arrabbiato che sognavo il Quarto Reich.

Terza scena.

Sala d’attesa dell’ambulatorio di un medico della mutua. Ci sono diversi pazienti seduti, che aspettano il loro turno. A un certo punto arriva un giovane africano, ben piantato, mentre gli italiani sono quasi tutti persone anziane e male in arnese. Arriva la dottoressa che sostituisce il medico, momentaneamente assente: senza degnare di uno sguardo tutti gli altri, si dirige verso il giovane di colore e gli si rivolgere con tono premurosissimo, addirittura materno; gli domanda se per caso non ha freddo (è una giornata fredda e ventosa), se è abbastanza coperto; gli parla come una madre affettuosa con il proprio figlioletto, gli occhi lucidi per la commozione. Non lo fa passare avanti, ma si relaziona con lui come se di lui solo le importasse qualcosa, e nulla di tutti gli altri. Nella sua mente si è accesa una lampadina: immigrato=bisognoso, e bisognoso=meritevole di tutto il nostro amore, la nostra compassione, la nostra solidarietà. Non importa che tipo d’immigrato sia; se sia un falso profugo, uno che ha lasciato sorelle e genitori anziani per cercare il paese di Cuccagna, e non perché al suo Paese ci fosse la guerra o la carestia. Del resto, se ci fossero, avrebbe vigliaccamente abbandonato i suoi cari, lui giovane e pieno di salute, per mettersi in salvo, per pensare alla sua pelle. Ma tutto questo non conta: è uno straniero, ha la pelle scura: dunque, lui merita tutta la nostra disponibilità, senza "se" e senza "ma". Un vero e proprio razzismo alla rovescia. Gli altri, gli italiani,per quella giovane dottoressa piena di zelo umanitario, sono cittadini di un modo "ricco", perciò sono pazienti di serie B.

Quarta scena

Un professore in pensione ospita, da anni, sei giovani africani nella sua casa privata. Un bel giorno, dopo alcuni anni di questa routine, con parecchi articoli e servizi elogiativi sui mass media e un riconoscimento formale da parte del Presidente della Repubblica, il professore decide di togliere il disturbo e di andare a vivere, insieme a sua moglie, presso un prete loro amico. Pur avendo quattro figli, ha deciso di lasciare la casa agli immigrati: pensa di aver fatto cosa buona e giusta. Non ci risulta che nessuno abbia mai pensato di ospitare gratuitamente in casa propria dei poveri italiani, neppure nel momento culminante della Grande Recessione del 2011, quando la crisi mordeva a sangue gli italiani più disagiati e i vecchietti e le vecchiette, pensionati con 500 euro al mese, si facevano pizzicare al supermercato a rubare il formaggio e le uova. E, se mai qualcuno lo ha fatto, non se ne sono occupati i mass media, né il Presidente della Repubblica ha speso una parola per elogiarlo. Almeno a quanto ci risulta.

Quinta scena. 

Una giovane maestra della scuola elementare si sente dire, da un ragazzino straniero: Se non mi cambi il voto, ti faccio saltare in aria l’automobile. La maestra è preoccupata, ma non sa che fare, a chi rivolgersi. Salta fuori che di episodi così ce ne sono parecchi, ma gli interessati tacciono: a chi potrebbero parlarne? Nessuno li ascolterebbe; e, in ogni caso, nessuno sarebbe dalla loro parte. Se un insegnante viene minacciato, o insultato, o perfino malmenato sul posto di lavoro, mentre stava svolgendo le sue funzioni (di pubblico ufficiale), il problema è tutto suo e deve gestirlo da solo; ma, per carità, senza clamore. Non si deve alimentare la "xenofobia"; e, soprattutto, non bisogna mettere in imbarazzo il preside e la soprintendenza.

Sesta scena

Scuola media di una cittadina di provincia, con un’altissima percentuale di studenti figli di recenti immigrati. Un ragazzino nordafricano viene sorpreso a rubare la bicicletta di un suo compagno italiano. Riunione del consiglio d’istituto e poi… decisione del preside di regalare a quel ragazzino straniero una bicicletta nuova di zecca, evidentemente quale "premio" della sua bellissima azione. Motivazione: il poverino doveva desiderare così tanto una bicicletta nuova per sé, che sarebbe stata una vera crudeltà spezzare il suo sogno. Onestà, risparmio, rispetto dei beni altrui, capacità di attendere, osservanza delle regole: tutto gettato nel cestino dei rifiuti. Complimenti a quel preside e ai suoi collaboratori. Una sola domanda, considerazioni pedagogiche a parte: come sarebbe andata a finire la faccenda del furto, se a commetterlo fosse stato un ragazzino italiano? Quanti giorni di sospensione, quali note di biasimo gli avrebbero — giustamente – appioppato? E, in subordine, un’altra scomoda domandina: chi ha pagato la bicicletta-premio, il preside di tasca sua, o il fondo dell’istituto? Perché, se per caso qualcuno non lo sapesse, la situazione delle scuole pubbliche italiane è tale per cui, non di rado, le famiglie degli studenti vengono esortate dalla segreteria a versare dei contributi volontari, o, quanto meno, a fornire di loro iniziativa i generi di prima necessità, a cominciare dalla carta igienica…

Settima scena

Nella scuola media di un grosso paese a pochi chilometri dal capoluogo di provincia si presenta il genitore di un ragazzo che è stato richiamato da un professore di matematica per il suo comportamento non adeguato e non conforme ai regolamenti. L’energumeno spinge il professore contro il muro, lo insulta e lo prende a schiaffi, lì, dentro la scuola, davanti a tutti; poi se ne va. E la scuola, che fa? Apre un procedimento nei confronti del professore. Motivo? L’energumeno aveva segnalato alla preside che il professore stava "perseguitando" suo figlio, quindi, spiega la dirigente, quel procedimento è "un atto dovuto" (cosa peraltro non vera: l’atto dovuto è l’accertamento preliminare della verità dei fatti contestati). Intanto il professore, da solo, non la scuola, sporge denuncia all’autorità giudiziaria: scoppia il caso, ne parlano i media. Sia la preside che la sovrintendenza scolastica si dicono "sorpresi" e negano recisamente di aver lasciato da solo quel professore, come lui, amaramente, ha invece dichiarato. Piccolo ma significativo particolare: in questo caso, come in tantissimi altri, i giornali e le televisioni riferiscono il fatto, ma tacciono rigorosamente la nazionalità dell’aggressore. Se fosse un italiano, lo direbbero: lo fanno sempre. Ma se è uno straniero, evidentemente hanno l’ordine, o il "consiglio", di non dirlo. Non bisogna incoraggiare il "razzismo" e, soprattutto, non si deve incrinare il paradigma buonista e immigrazionista di Soros, Boldrini, Bergoglio & Galantino: tutti insieme appassionatamente.

Ottava scena.

A bordo di una corriera che svolge il servizio di trasporto provinciale, alcuni ragazzi marocchini, tutti minorenni, rifiutano di mostrare il biglietto al conducente; poi lo insultano, lo spintonano, lo minacciano. L’autista ferma il mezzo, chiama al telefono i carabinieri. I carabinieri arrivano, salgono sul mezzo, fanno la predica ai ragazzini: poiché sono minorenni, è tutto quel che la legge consente loro di fare. Quelli ridacchiano, forti della loro impunità. La corriera riparte, ma intanto è arrivato un nuovo conducente: quello di prima ha dato forfait, è esaurito, coi nervi a pezzi. La scena che si è appena verificata è solo l’ultima di una lunga serie. Ogni giorno quell’uomo, e tanti altri come lui, vanno al lavoro con uno stato d’animo di estrema tensione, di autentica angoscia, perché sanno che potrà capitar loro qualsiasi cosa, se appena cercheranno di fare il proprio dovere: per esempio, esigere dai viaggiatori dei mezzi pubblici un comportamento educato, o almeno civile, e mostrare il biglietto alla loro richiesta.

Potremmo continuare, e a lungo. Potemmo mettere infila, uno dietro l’altro, decine, centinaia di episodi, anche molto più gravi di questi: con furti, rapine, stupri, omicidi; ma preferiamo fermarci qui, a questi fatti che sono diventati la nostra "normalità" quotidiana. A questa "normalità" ci dovremmo abituare, e invece non riusciamo ad abituarci. Con o senza lavaggio del cervello, con o senza ricatto buonista, che non solo i media, ma anche il, papa, i vescovi e molti sacerdoti, nelle omelie domenicali, non ci lesinano sul dovere dell’accoglienza incondizionata e della disponibilità senza limiti, la gente è enormemente, terribilmente stanca ed esasperata. Nondimeno, politici ed ecclesiastici, i rappresentanti dello Stato e della Chiesa, sono schierati totalmente, rocciosamente dalla parte degli "altri", comunque e in qualsiasi circostanza. Se succede qualcosa, se i cittadini italiani ci vanno di mezzo, se i funzionari pubblici rischiano in prima persona, tanto peggio per loro: né lo Stato, né la Chiesa muoveranno un dito o spenderanno una parola per difenderli, semmai potrà accadere il contrario. Perfino colui che si difende da un’aggressione in casa propria, e spara contro un intruso il quale, magari per la terza o per la quarta volta (è cronaca vera, non stiamo affatto esagerando) si è introdotto fra le mura domestiche, evidentemente con cattive intenzioni, rischia una severa condanna, a termini di codice penale: perfino quella per il reato di omicidio volontario. Oppure, se ferisce il malvivente, gli dovrà pagare, per anni e anni, le spese mediche; a lui o alla sua famiglia. Famiglia di delinquenti di professione. Poi succedono fatti come quello di Macerata (la sparatoria, non lo smembramento della povera Pamela, per la quale, all’inizio, erano stati ben pochi a commuoversi) e tutti quanti si mobilitano contro… il fascismo e contro il razzismo che, non si sa mai, potrebbero risorgere dalle loro ceneri. 

Eh, già: naturale.

Ma che nessuno si meravigli troppo se, poi, cresce la minaccia di una deriva, come dicono quei signori, populista e xenofoba. hanno fatto tutto loro. Il popolo italiano ci ha messo poco di suo, tranne una immensa, incredibile, quasi sovrumana pazienza, e una straordinaria, impressionante, quasi infinita capacità di sopportazione…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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