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Ritornare a Dio per ricostruire l’umano

Da quando la nostra società e la nostra cultura si sono allontanate da Dio, inseguendo il miraggio di una piena affermazione dell’umano, è accaduto esattamente il contrario di quanto i nostri cosiddetti intellettuali avevano auspicato, promesso, evocato: ciò a cui abbiamo assistito, ciò che abbiamo vissuto, nel corso delle ultime generazioni, è stato un progressivo allontanamento da noi stessi, vale a dire una progressiva perdita dell’umano. La civiltà moderna, in quanto nasce dal rifiuto, sempre più cosciente e deliberato, di Dio, sfocia in una progressiva, inesorabile, distruttiva decostruzione di ciò che è umano; in una crescente alienazione dell’uomo da se stesso e in una sua metodica auto-distruzione, non importa se voluta oppure no. Il rifiuto di Dio implica il rifiuto di ciò che è intimamente umano, perché la relazione con Dio è parte della struttura ontologica dell’uomo: e come non potremmo immaginare un essere umano privo di un corpo, perché sarebbe un puro spirito, o privo dell’anima, perché sarebbe solo un automa, così non possiamo immaginare un uomo che si spogli completamente del bisogno di Dio, perché laddove ciò accadesse saremmo in presenza di un essere post-umano, di una creatura non riuscita, fallimentare, incompleta e infelice: non un semi-uomo, ma un anti-uomo, cioè un "uomo" intimamente, irreversibilmente nemico di se stesso. Sarebbe il peggior nemico dell’uomo che si possa immaginare: dell’uomo avrebbe solo le apparenze e le forme esteriori, ma, nella sua essenza, sarebbe il contrario dell’uomo: l’uomo radicalmente immanente, senza più alcuna scintilla di trascendenza e, quindi, condannato a una vita innaturale, contraria alla sua vera natura, e perciò a una vita perduta. L’uomo moderno è la creatura che sta perdendo se stessa, che ha smarrito se stessa. Si agita di qua e di là, si illude e si dispera, sbatte sempre contro le sbarre della gabbia che lui stesso ha costruito: ma quanto più si affanna e si proietta verso l’esterno, tanto più si smarrisce e si allontana dal suo centro. Il centro dell’uomo non è il suo piccolo io, ma Dio, l’Assoluto. L’uomo è la creatura che ha in sé la nostalgia dell’infinito; ma se la nega, le sue energie si rivoltano contro di lui, creano un corto circuito ed egli stesso si distrugge, si brucia come una falena sulla lampada che l’attrae.

Alcuni abusano della formula secondo la quale la natura dell’uomo sarebbe di non avere alcuna natura. Lo fanno perfino certi teologi, fra gli altri quel don Enrico Chiavacci, del quale ci siamo recentemente occupati, e, in generale, un po’ tutti gli esponenti della cosiddetta "svolta antropologica" nella teologia post-conciliare. La verità è che l’uomo ha una natura indeterminata, non che non ha alcuna natura: la differenza fra i due concetti è sostanziale. Se l’uomo non avesse alcuna natura, potrebbe diventare qualsiasi cosa, ma noi sappiamo che non è così. Può diventare un mostro oppure un santo, questo sì, ma ciò non significa che potrebbe diventare qualsiasi cosa. Non potrebbe diventare, per esempio, l’equivalente di un minerale o di una pianta; neppure nelle forme più gravi di autismo, l’uomo può privarsi da se stesso di un qualcosa che è specificamente umano, anche se indeterminato. La vera natura dell’uomo è l’indeterminatezza, ma sempre entro una certa cornice, entro un certo quadro che è pur sempre tipicamente umano, e di nessun altro essere. Nessun uomo può scegliere di diventare un animale, per esempio, perché, anche se l’espressione è effettivamente adoperata, la verità è che nessun animale sa godere o soffrire alla maniera dell’uomo. E non potrebbe diventare un angelo, e neppure un demone, se non in senso allegorico e figurato, perché gli angeli sono spiritualmente perfetti, mentre i diavoli sono spiritualmente irrecuperabili, ciò che non si verifica, alla lettera, per nessun essere umano, neppure per il più perverso, dato che la redenzione, almeno in teoria, è sempre possibile. Pertanto non si deve abusare della formula secondo la quale la natura dell’uomo è di non aver natura: una natura umana esiste, anche se non è definita e se è compito di ciascun uomo lavorare alla sua costruzione e, quindi, alla sua definizione, sempre nell’ambito di ciò che è umano. Se si vuole, la differenza fra inesistente e indefinito ricorda un po’ quella della geometria, fra infinito e illimitato. Una superficie può essere illimitata, senza perciò essere infinita: tale è, ad esempio, la superficie di una sfera. Una formichina, che cammini su di essa, non incontrerà mai un limite al proprio procedere, ma questo non significa che la superficie di quella sfera sia infinita: al contrario, essa è finita, e può essere calcolata con una millimetrica precisione. Se la natura umana fosse inesistente, sarebbe vuota, e "vuoto" è equivalente ad infinito, perché in entrambi i casi si pone qualcosa che non è suscettibile di misurazione. Non si può misurare ciò che non ha estensione, come non si può individuare ciò che non ha forma. Ma se la natura umana non esistesse, evidentemente non avrebbe forma e se non avesse forma, non potremmo neanche parlare di lei; più precisamente, non avremmo alcun diritto di parlare di una natura umana. Non si può parlare di ciò che non esiste, se non per sottrazione e per negazione. Si può dire: in questa stanza non ci sono elefanti, ma non si può dire: gli elefanti non esistono, perché il solo fatto di parlarne, implica che essi, in qualche modo, da qualche parte, esistono. Magari solo nella nostra mente; questo è un altro aspetto della questione. A rigore, non si può dire nemmeno: gli elefanti volanti non esistono, perché nessuno sa se davvero non esistano: se ne parliamo, vuol dire che esistono, anche solo come ipotesi o come un prodotto della nostra fantasia. Le cose pensate esistono: esistono nella nostra mente. Solo ciò che non è né pensato né pensabile, non esiste. La non esistenza non è il contrario dell’esistenza; è la sua non pensabilità e non dicibilità. Beninteso, la non esistenza di qualcosa per noi, e cioè sempre in un ambito, ampio quanto si vuole, ma comunque relativo; non in termini assoluti. Nessuno può dire, al di fuori delle menti pensanti, che una cosa non esiste affatto, ma solo che non esiste come oggetto pensabile e nominabile. Qui andiamo a sbattere contro il limite della nostra mente, che può pensare le cose solo all’interno di certi parametri e secondo certe regole logiche: la nostra mente è fatta in modo tale da non poter pensare l’impensabile; e tuttavia, a rigore, l’impensabile potrebbe esistere, solo che noi non saremmo in grado di pensarlo né, probabilmente, riusciremmo a vederlo, a percepirlo, se anche ce lo trovassimo di fronte.

Ora, se noi parliamo di una natura umana, prima ancora di vedere in che cosa consista esattamente, dobbiamo ammettere che esiste, altrimenti non potremmo neanche parlarne; meglio ancora, non potremmo nominarla. Nominare qualcosa significa evocare quella cosa. Se parlo dei fantasmi, evoco l’esistenza dei fantasmi; altro discorso è se ci creda davvero, o no; e se esistano fuori della mia mente, o no. Però, se li nomino, li evoco; e se li sto evocando, allora li chiamo all’esistenza, in qualche forma, in qualche luogo. Forse non esistono in questa stanza, ma devono esistere, altrimenti non li potrei né pensare, né chiamare per nome. In questo senso, crediamo, Pirandello affermava che lo scrittore non è colui che crea i personaggi delle sue opere, ma semplicemente colui che li chiama all’esistenza: laddove, da qualche parte, essi già sono. Quel che viene chiamato all’esistenza, passa da una esistenza potenziale ad una esistenza reale: ma non vien fuori dal nulla, perché dal nulla niente vien fuori. Il nulla è il nulla, vuoto, nihil. E se una forma è vuota, quella forma è nulla, non esiste. È evidente pertanto che la natura umana esiste: è una forma, anche se indeterminata e indefinita. Il mestiere di vivere consiste nel dare una forma alla propria natura di uomo, ed è un compito che ciascuno deve compiere su se stesso. Ancora Pirandello, con una certa arguzia, ha osservato che la vita o la si vive, o la si scrive: in questo senso, lo scrittore è colui che, invece di svolgere su se stesso il compito di diventare qualcuno, lo attua nei suoi personaggi, cioè lo trasferisce da se stesso a qualcun altro, che esiste solo nella sua mente. Ma il concetto di fondo non cambia: sia pure attraverso i propri personaggi, anche lo scrittore si applica al compito di dare una forma alla natura informe dell’uomo che è in lui. Nessuno vive e muore senza aver assunto una forma: mostruosa o beata, come abbiamo detto, ma una forma, alla fine, ciascuno l’assume. È la vita stessa che la scolpisce nel volto e nell’anima delle persone; anche nel caso di quelle che non si pongono mai la questione di cosa vogliono diventare e che, perciò, lasciano che siano gli eventi ed il tempo a fare di loro ciò che, alla fine, li caratterizza come esseri umani. In questo senso si può anche dire, senza esagerare, che una bella fetta di umanità è costituita da esseri sostanzialmente casuali, vale a dire che sono la risultante di azioni involontarie e di movimento inconsapevoli. Ciò non toglie che anche per costoro si attui la legge universale, secondo la quale nessun uomo conserva una struttura indefinita, ma tutti, per una via o per un’altra, finiscono per assumere una certa forma, per diventare qualcosa che originariamente non erano, se non allo stato potenziale; nessuno, insomma, può sottrarsi al mestiere di vivere, come lo chiamava Cesare Pavese; che è, poi, il mestiere di diventare questo o quell’uomo determinato, mentre il bambino piccolissimo è ancora un essere umano indeterminato (tralasciando, in questa sede, il problema, puramente biologico, della determinatezza relativa al suo dna, ed anche, in certa misura, quella prodotta dall’ambiente esterno, cominciando dal seno materno rispetto al feto; perché è chiaro che al filosofo interessa quel che l’uomo può e deve diventare una volta fatta la tara dei fattori ereditari e di quelli esterni). E quel che resta è la libertà dell’uomo. Se poi uno non l’adopera, se lascia che la sua vita, e quindi la sua forma, siano determinati dal caso, ebbene anche questa sarà una scelta, dopotutto: la scelta di non scegliere. Ma è una scelta, e sia pure in negativo. La libertà, infatti, consta di due facce: la libertà di agire e quella di non agire; ma anche chi non agisce, anche chi lascia che altri agisca su di lui e per lui, ha compiuto comunque un’azione: l’azione di rinunciare a qualcosa che gli è essenziale, perché la vita è movimento, quindi è azione.

Giungiamo così alla conclusione perfettamente logica e naturale, che l’uomo, per ritrovarsi e per ricostruirsi, dopo aver perseguito così a lungo la propria auto-alienazione e la propria auto-demolizione, deve tornare a Dio. Più precisamente: deve liberarsi dall’ossessione narcisista del suo piccolo io, per ritrovare quell’io più grande, immenso, infinito, di cui possiede la nozione, la scintilla e la nostalgia: Dio. Ecco perché la civiltà atea è una civiltà anti-umana: perché l’uomo, se sopprime in se stesso la ricerca di Dio, il bisogno di Dio, sopprime anche ciò che è più caratteristicamente umano. Tutto il resto, tutto ciò che noi tendiamo a vedere come umano, in realtà non è specifico dell’uomo; neppure la volontà e la ragione, perché alcuni esperimenti dimostrano che anche alcuni animali superiori possono sviluppare queste facoltà, anche se in grado minore dell’uomo. La sola cosa che è tipicamente umana, cioè essenzialmente umana, ed esclusivamente umana, è la relazione con Dio: il fatto che l’uomo, fin da quando sviluppa l’uso della ragione, si pone alla ricerca del suo Creatore si interroga sul perché egli è stato creato, e desidera amare e servire Dio come un figlio desidera ritrovare, amare e onorare il genitore dal quale è stato a lungo separata a causa di circostanze indipendenti dal suo volere. La ricostruzione di ciò che è umano passa attraverso il ritorno dell’uomo a Dio; senza questo movimento essenziale, l’uomo continuerà ad allontanarsi sempre di più dal suo centro, dalla sua essenza, e si condannerà a una solitudine e ad una infelicità sempre più grandi e sempre più distruttive. La situazione è rea ancor più drammatica dal fatto che vi sono delle forze oscure, solo in parte di natura umana, le quali stano attuando una precisa strategia per spingere l’uomo sempre più lontano da Dio, in modo da spingerlo sempre più lontano da se stesso e poterlo, così, controllare e asservire, senza che egli neppure se ne renda conto, anzi, sotto le apparenze di un aumento della sua facoltà decisionale. La nostra battaglia infatti non è contro creature fatte di sangue e di carne — scrive san Paolo nella Lettera agli Efesini, 6, 12 — ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti.

C’è ancora qualcosa da dire, riguardo al ritorno dell’uomo a Dio. Non si tratta solo di percorrere, a ritroso, il giusto cammino a suo tempo abbandonato; né solo di riconoscere l’errore commesso e trarne tutti i necessari insegnamenti. Tutto questo non sarebbe ancora sufficiente. Si tratta di tornare non ad un dio qualsiasi, né a un dio abitudinario, al quale rivolgere un’adorazione formale. Si tratta di tornare al solo, vero Dio, riconoscendo che è una teologia erronea anche quella che ci presenta tutte le religioni e tutte le fedi come altrettante strade per giungere alla Verità. Dio è la Verità, ma la Verità è una; o, se si preferisce la formula più sfumata, ma sostanzialmente analoga, che viene preferita dalle filosofie dell’India, la verità non è duale. Ora, il cristiano è colui che ha fede in Colui che disse di sé: Io sono la via, la verità e la vita. Non disse: io sono una delle vie; ma disse: io sono la via. Il cristiano è colui che ha fede in quel Dio che si è reso visibile agli uomini e che li ha tanto amati, da farsi uomo come loro e offrire la sua vita per essi. Ritornare a Dio significa ritornare a Cristo; e ritornare a Cristo significa ritornare anche alla necessità della croce, perché senza la croce non v’è resurrezione. Il cristiano è colui che ha compreso il valore salvifico della croce e davanti ad essa non fugge, ma l’accetta, come l’ha accettata Cristo. Solo così Cristo può vincere la morte anche per lui. Dice ancora il divino Maestro (Matteo, 16, 24-25): Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuol salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà.

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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