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O Laura Vicuña, o «Amoris laetitia»

O ha ragione la Chiesa cattolica a venerare Laura Vicuña (Santiago del Cile, 5 aprile 1891-Junin de los Andes, Argentina, 22 gennaio 1904), una bambina cilena morta in odore di santità a dodici anni, o ha ragione la neochiesa dei nostri giorni che ha salutato l’esortazione Amoris laetitia come un splendido documento di morale familiare e di misericordia divina, quale coronamento dei due sinodi sulla Famiglia voluti da Bergoglio, nel 2014 e nel 2015. Laura Vicuña è stata proclamata beata da Giovanni Paolo II il 3 settembre 1988, a Colle Don Bosco:  la piccola, infatti, avrebbe voluto essere ammessa nell’ordine delle Figlie di Maria Ausiliatrice, il ramo femminile dei Salesiani. Lo scopo della sua brevissima esistenza fu quello di riportare sua madre Mercedes alla fede religiosa, dalla quale si era allontanata andando a vivere, dopo essere rimasta vedova, con un tale Manuel Mora, un ricco estanciero argentino, senza unirsi nel vincolo nel matrimonio, mentre lei e la sorellina erano state messe in collegio dalle suore. La piccola soffriva e si rattristava per la situazione irregolare della madre, che, a causa della sua situazione irregolare, non poteva accostarsi ai sacramenti, e giunse a offrire tutta se stessa a Dio affinché sua mamma tornasse alla pratica religiosa e lasciasse la convivenza con quell’uomo rozzo e brutale, il quale pare abbia fatto delle indegne avances anche nei confronti della ragazzina. Malata, ebbe la gioia di veder realizzato il suo sogno: la madre, che si era unita a quell’uomo forse più per la disperata necessità economica, dopo la morte di suo marito e l’espatrio dal Paese natio, che per un vero e profondo sentimento, prese in affitto un piccolo appartamento a Junin de los Andes insieme alle due figlie, e si rimise a lavorare da sarta per mantenere se stessa e loro.

Ecco cosa scrisse Laura sul suo diario, a dieci anni, il giorno della sua prima Comunione, sulla falsariga del suo modello ideale, san Domenico Savio:

O mio Dio, voglio amarti e servirti per tutta la vita; perciò ti dono la mia anima, il mio cuore, tutto il mio essere. Voglio morire piuttosto che offenderti col peccato; perciò intendo mortificarmi in tutto ciò che mi allontanerebbe da te. Propongo di fare quanto so e posso perché tu sia conosciuto e amato, e per riparare le offese che ricevi ogni giorno dagli uomini, specialmente dalle persone della mia famiglia. Mio Dio, dammi una vita di amore, di mortificazione, di sacrificio.


Dopo di che prese, in forma privata, i voti di castità, povertà e obbedienza, consacrandosi a Gesù e offrendogli la propria vita.  Trascorse l’ultimo anno sempre più malata, tanto che dovette lasciare l’amato convento delle suore salesiane; poche ore prima di chiudere gli occhi alla vita terrena, il 22 gennaio 1904, disse a sua madre:

Mamma, io muoio! Io stessa l’ho chiesto a Gesù. Sono quasi due anni che gli ho offerto la vita per te, per ottenere la grazia del tuo ritorno alla fede. Mamma, prima della morte non avrò la gioia di vederti pentita?

Sua mamma promise, e mantenne la parola; la bambina disse allora di morire contenta, ringraziando Gesù per la grazia ricevuta. Le viene attribuita la guarigione miracolosa di una suora, quasi morente di tubercolosi, che si era rivolta alla sua intercessione, nel 1955. Ora la salma di Laura Vicuña è venerata a Bahia Blanca, nella cappella delle Figlie di Maria Ausiliatrice.

Confrontando la vita e la morte eroica di questa ragazzina con l’esortazione Amoris laetitia, non si può non restare colpiti da un fatto evidente: e cioè che non siamo in presenza di due volti della stessa chiesa, quello, diciamo così, più austero, o, se si vuole, più mistico, e quello di clemente, o più "misericordioso", ma siamo di fronte a due chiese radicalmente diverse, a due città diverse, per usare una terminologia agostiniana: la città di Dio e la città degli uomini. Esse sono totalmente incompatibili. Dopo aver letto e meditato Amoris laetitia, e specialmente il capitolo ottavo, che riguarda, specificamente, la situazione dei quei genitori che si trovano nelle condizioni della mamma di Laura Vicuña, anzi, dal punto di vista della morale cattolica in condizioni ancor più gravi, perché la madre di Laura era vedova, mentre qui si parla dei separati e dei divorziati risposati, o passati a una nuova convivenza, si giunge inevitabilmente alla conclusione che, per Bergoglio e per tutto il neoclero della neochiesa, Laura Vicuña era solo una piccola bigotta che ha sacrificato la sua vita per niente, dato che il peccato di sua madre non era poi così grave da allontanarla da Dio; e che ha gravemente sbagliato anche la Chiesa del tempo, rifiutando i Sacramenti a persone come la signora Mercedes, se non si decidevano a cambiar vita. Perché fare le cosa tanto drammatiche?, sembrano chiedere gli esponenti della neochiesa; si può trovare un accomodamento che non disturbi troppo nessuno. Se il clero argentino dei primi anni del 1900 fosse stato meno rigido, e se la signora Mercedes, interrogando la propria coscienza, avesse detto a se stessa che, onestamente, lei non si sentiva in peccato – e aveva delle valide attenuanti, a cominciare dal bisogno materiale – tutto avrebbe potuto andare in un altro modo: la signora avrebbe potuto accostarsi ai sacramenti, confessarsi e comunicarsi tranquillamente, e alla bambina sarebbero stati risparmiati tanti scrupoli tormentosi per la salvezza dell’anima di sua madre. E il "povero" Manuel Mora, l’amante della donna, o, come si direbbe oggi, il suo "compagno", dove lo mettiamo? Non vorremo mica dimenticarci di lui? Anch’egli, a suo modo, era affezionato alla donna (tanto è vero che picchiò duramente la piccola Laura fino a poco prima della sua morte, perché lei aveva preteso da sua mamma che non lo ospitasse a casa, quando venne a trovarle fino a Junin); e poi aveva sostenuto, almeno al principio, le spese per il collegio delle bambine (salvo poi rimangiarsi l’impegno, per punire l’atteggiamento di Laura): in fondo, anche a lui la signora Mercedes aveva fatto, andando a vivere nella sua casa more uxorio, una specie di promessa. Era giusto lasciarlo? Ecco i diabolici sofismi coi quali la morale cattolica può essere stravolta, può essere portata ad affermare il contrario di ciò che essa ha sempre insegnato: e di ciò dobbiamo ringraziare questo pontificato scandaloso, eretico e apostatico, e documenti "magisteriali", in realtà contrari al Magistero e quindi invalidi, come Amoris laetitia.

Bisogna essere molto chiari su questo punto: non si possono servire due padroni. O, almeno, non lo si può fare, se si intende prendere sul serio il Vangelo di Gesù, e non come una delle tante "offerte" del mondo, riducendolo al livello di una ricetta usa e getta: la si usa quando serve e finché conviene, la si mette da parte quando rischia di diventare una scarpa stretta. Perché le scarpe strette, si sa, è umano, danno fastidio. Appunto: è umano: nel senso che appartiene alle logiche di questo mondo, non alla logica del Vangelo. Nel Vangelo la scarpa stretta, cioè il sacrificio, la sofferenza, l’offerta di sé, sono la chiave di volta dell’intero edificio: l’edificio della fede. Aver fede significa sfidare le logiche del mondo: e quale sfida più grande di quella che ha compiuto Gesù Cristo, sacrificandosi liberamente per amore degli uomini e affrontando la Passione e la Morte, la morte di croce? A motivo dello scandalo che quella passione e quella morte suscitarono nei suoi stessi discepoli, essi lo abbandonarono quasi tutti: si vergognarono di lui; uno lo tradì, un altro – colui che aveva appena giurato che gli sarebbe stato sempre al fianco – lo rinnegò, dicendo, per tre volte: Non conosco quell’uomo

Cari cattolici buonisti, progressisti e misericordiosi, che volete dialogare col mondo sino al punto di ragionare come ragiona il mondo, il mondo vi ha già preso all’amo come tanti pesci, e nemmeno ve ne accorgete: siete convinti, anzi, di essere all’avanguardia, di aver compreso e "approfondito" il senso del Vangelo meglio di chiunque altro prima di voi: ma la verità è che avete perso la fede, e che vorreste perciò piegare la dottrina del Vangelo alle logiche del mondo, affinché non appaia evidente a tutti che non avete più fede. Ciò che vi trascina alla deriva è l’orgoglio: non siete disposti a riconoscere che la vostra fede si è indebolita, se n’è andata; se lo foste, vi gettereste in ginocchio davanti a Cristo e gli direste: Signore, aiuta la mia poca fede! E invece siete orgogliosi, non volete dichiarare la vostra debolezza, la vostra incredulità: e allora pretendete che la Chiesa, tutta quanta, venga dalla vostra parte, e scusi e giustifichi il peccato, in modo che la vostra condizione di peccatori non sia visibile agli occhi di tutti. Si tratta di una sporca operazione: piuttosto che umiliarvi davanti a Dio, siete disposti a trascinare nell’errore le anime degli altri, a ingannarle, a dar loro a intendere che Dio, nella sua misericordia, perdona il peccato anche al peccatore che non si pente, che vuol seguitare una vita peccaminosa. Questo è un enorme inganno ai danni dei credenti, è un enorme tradimento: la vostra responsabilità è immensa. Non ci sono quasi parole per descriverla: quel che state facendo, e lo state facendo con diabolica ostinazione, con malizia consumata, con astuzia sopraffina, dando al vostro operato le apparenze di una santa ispirazione, è quanto di più diabolico si possa immaginare. Volete trasformare la Parola di Dio nella parola del diavolo, il Vangelo di Gesù Cristo nel vangelo del mondo: siete partecipi delle potenze dell’inferno, di quell’inferno al quale non credete, così come non credete al Giudizio, proprio per il fatto che avete perso la fede. Se aveste ancora la fede, sapreste bene che l’inferno esiste, che il diavolo esiste, e che vi sarà il Giudizio. 

Ma che cosa significa avere la fede?, chiederà qualcuno. Semplice: avere la fede significa non perdere mai di vista l’essenziale. L’essenziale è la partecipazione dell’uomo alla grazia, cioè alla vita di Dio in lui. Chi ha la fede sa che non vi è nulla che venga prima di questo: né il piacere, né la ricchezza, né il potere; niente: neppure gli affetti umani e le cose umane, per quanto legittimi. Ciò che rappresenta un ostacolo alla vita di grazia, non può essere un bene: ogni cosa, dalla più piccola alla più grande, deve farsi strumento per realizzare questa meta: la vita di Dio in noi. Quando essa è presente, noi siamo in Lui, come il tralcio che rimane unito alla vite; quando essa non c’è – e nel peccato, evidentemente, non c’è, perché il peccato è precisamente il rifiuto dell’amore di Dio – noi siamo come il tralcio che si stacca dalla vite: non porterà più frutto, non serve più a niente, per lui non c’è altra sorte che quella di esser gettato nel fuoco a bruciare. La nostra vita ha un senso finché restiamo uniti a Dio: senza di Lui, lontani da Lui, nemici di Lui, siamo nulla, siamo polvere al vento, che viene dispersa e non ne rimane più alcuna traccia.

Una chiesa che non insegni queste cose, non è più la vera Chiesa di Gesù Cristo. Una chiesa che venga a compromessi col peccato, che lo giustifichi in nome della "complessità" delle situazioni esistenziali, è una chiesa falsa e menzognera. La vita è sempre complessa, quando si è lontani da Dio: le cose tornano ad essere chiare, e perciò anche semplici, quando si rimane nella sua amicizia. Questo è il segreto; e i nostri nonni, persone con la quinta elementare, lo sapevano benissimo. Ora i "grandi" teologi che vanno per la maggiore, quelli della "svolta antropologica", quelli che hanno sempre in bocca lo spirito del Concilio Vaticano II (lo spirito con la lettera minuscola), paiono essersene dimenticati del tutto. Peggio ancora essi fanno, quando chiamano in causa la misericordia di Dio per dare a intendere che il perdono è assicurato a tutti, anche ai peccatori impenitenti; ed è quello che accade quando si pensa che sia lecito accostarsi ai sacramenti pur trovandosi in stato di peccato mortale. L’esortazione Amoris laetitia è un documento sicuramente illegittimo, perché avalla proprio questo atteggiamento: e che lo avalli non esiste il minimo dubbio, specie dopo che Bergoglio ha dichiarato che la sua interpretazione legittima è quella dei vescovi argentini, che è appunto questa.

Ora, che cosa noi potremmo immaginare di più perverso, di più malefico, di più infernale, di un documento della chiesa il quale vorrebbe essere espressione ufficiale del Magistero, e stabilire le norme della condotta morale, mentre invece avalla il peccato e garantisce alle anime, falsamente, che tale peccato non sarà considerato tale agli occhi di Dio, anzi, che Dio stesso, in certi casi, lo vede come la sola risposta che l’uomo può dargli? Si può immaginare una bestemmia più terribile di questa: immaginare Dio nell’atto di esortarci a infrangere i suoi stessi comandamenti, la sua stessa legge, che è legge di amore, ma anche di giustizia; a calpestare quel che il suo divino Figlio, fattosi uomo, ci ha fedelmente insegnato, a prezzo della propria vita? Questo solo possiamo dire, possiamo pensare: che Dio abbia pietà di loro. Preghiamo per loro, e ancor più per le anime che essi stanno conducendo in errore, abusando malvagiamente dell’abito sacerdotale e dell’autorità di cui dispongono. Ma ogni autorità, se non viene da Dio, è nulla: e non può venire da Dio una autorità che contraddice la legge di Dio e che sovverte il Vangelo di Gesù Cristo. Dunque, l’autorità della neochiesa è nulla, e le cose che essa pretende d’insegnare non valgono nulla. Non siamo noi a dirlo: sono i suoi stessi atti che lo dicono. Amen.

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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