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15 Febbraio 2018
La Chiesa è universale, non internazionalista
16 Febbraio 2018Mi hai chiesto, caro amico, se in quel momento avessi provato paura. No, posso dirlo con la massima sincerità: nessuna paura; una forte curiosità, semmai, e, non posso negarlo, un senso di meraviglia, unito a una sensazione di raccapriccio. Ma il raccapriccio non è paura, è tutt’altra cosa. Ha a che fare con il disgusto: come quando, mettendo la mano in un cespuglio, inavvertitamente si tocca un rospo, o una salamandra. A molti sarà capitato, da bambini, se hanno avuto la fortuna di crescere in campagna: essi capirebbero quel che voglio dire, e saprebbero che non si tratta di paura, ma di qualcos’altro.
Quella notte avevo fatto molto tardi: forse le due, le tre del mattino. Faccio sempre tardi. Sto su a scrivere fin dopo la mezzanotte; poi, prima di dormire, se mi resta un po’ di energia, prendo in mano un libro e mi dedico alle mie letture personali, delle quali non potrei fare a meno. Ci sono ancora mille e mille cose che non so, che non conosco e che vorrei capire, almeno un poco. Avevo letto un’antologia di storici greci: la battaglia di Egospotami, di Erodoto; la battaglia di Leuttra, di Diodoro Siculo; Annibale passa le Alpi, di Polibio; la morte di Cleopatra, di Dione Cassio. Sono letture esaltanti, che proiettano l’anima in un tempo lontano, così diverso dal nostro: quando il valore, l’onore, l’amor di patria erano ancora ragione di vita per gli uomini, erano la forza della società e il decoro della famiglia. Valori che, al tempo della mia giovinezza, non si erano ancor del tutto spenti: vedevo come tremava e lampeggiava lo sguardo del professore, quando ci leggeva questi autori, lui che aveva fatto l’ultima guerra, e forse pensava a suo padre, che certo aveva fatto la prima, quella del Grappa e del Piave. Forse pensava alla sua prigionia, in un campo americano, dopo essere stato catturato durante la ritirata da El Alamein; forse ricordava come, dopo l’8 settembre del 1943, era stato chiesto loro se fossero disposti a collaborare con il governo del re, al fianco degli Alleati, vale a dire di loro, dei nemici, ed essi avevano rifiutato per la maggior parte, pur sapendo quel che ne sarebbe seguito; e infatti avevano ricevuto un trattamento di rigore, come delle bestie feroci, come dei criminali impenitenti, mentre, se avessero risposto di sì, sarebbero stati trasferiti in località meno severe, con un vitto migliore e, un po’ alla volta, rimandati in Europa, per tornare a combattere contro gli alleati di prima, i tedeschi. Forse il professore ricordava queste cose, quando ci leggeva le imprese di Leonida, di Agesilao, di Epaminonda, di Filippo, di Alessandro; forse si ricordava dei compagni morti sul campo dell’onore, dei marinai che avevano sacrificato la vita a bordo delle navi e dei sommergibili, degli aviatori che si erano immolati decollando coi loro apparecchi per difendere i cieli d’Italia dai feroci bombardamenti dei futuri "liberatori", battendosi in uno contro cinque, contro dieci, contro venti. Forse, pur senza volerlo chiaramente, intendeva trasmetterci un po’ di quello spirito: lo spirito che ricevette il suo riconoscimento con un cippo, posto a centoundici chilometri da Alessandria d’Egitto, in mezzo al deserto, attestando che mancò la fortuna, non il valore. Ma che potevamo noi capire, noi nati dopo la guerra, noi che non avevamo mai fatto dei veri sacrifici, né mai eravamo andati a dormire vestiti, per esser pronti alle sirene che annunciavano le incursioni nemiche; noi che eravamo cresciuti respirando l’aria del "miracolo economico" e del nascente consumismo, anche se solo ai primi passi, nel tessuto della nostra società? Peggio ancora: noi, ai quali una cultura menzognera e antinazionale stava cominciando ad instillare l’idea che amare e onorare la patria è indizio di quella cosa orribile che si chiama nazionalismo; noi, ai quali il ’68, benché fossimo ancora studenti delle medie, predicava che la famiglia è all’origine di tutti i mali, che bisogna ribellarsi ai padri, cacciare Dio, buttare nel cestino della carta straccia ogni più sacra tradizione?
Eppure, qualcosa di quello spirito eroico, che si sprigiona dai versi di Omero e dalle pagine di Erodoto, di Senofonte, di Procopio di Cesarea, a qualcuno di noi deve essersi appreso. A me, senza dubbio; non so agli altri. L’idea del dovere, del sacrificio, della serietà della vita, mi si è trasmessa come un virus: come un virus benefico, ben s’intende. Sia lodato Iddio che quel professore è riuscito a contagiarmi con la sua malattia; e la stessa cosa è riuscito a fare il sacerdote, tutto d’un pezzo, alto e dritto nella sua talare nera, che gli scendeva fino a i piedi, con tutti quei bottoni: un bell’uomo robusto, che avrebbe potuto far innamorare qualsiasi ragazza. Un uomo semplice, un contadino che aveva fatto il seminario di una volta, e ne era uscito prete vero, dalla testa ai piedi, innamorato del Vangelo, con la nostalgia del cielo, e che quella nostalgia aveva trasmesso anche ad alcuni di noi — a me, di sicuro -, durante la celebrazione della santa Messa, e anche durante le lezioni del catechismo, proprio per come era lui, per come parlava, per come pregava, per quella luce soprannaturale che gli brillava nello sguardo e quel soffio d’infinito che spirava da tutto il suo modo di essere. Ascoltavamo il professore, e pensavamo: Sì, costui ama la cultura, crede in quello che dice, "sente" le pagine che ci sta facendo amare; ascoltavamo quel sacerdote e pensavamo: Sì, egli ha davvero il dono della fede, non sta recitando una lezione imparata a memoria, ci parla di quel che prova davvero, la gioia della vita divina, che entra in noi quando ci accostiamo alla grazia dei Sacramenti. E sentimenti simili ci venivano ispirati dai nostri genitori, dai nostri nonni, dalla nostra maestra, dai vicini di casa, dagli artigiani e dai negozianti del quartiere: persone serie, dedite al lavoro e alla famiglia; certo, qualcuno coi suoi bravi difetti: qualcuno che alzava il gomito un po’ troppo, qualcun altro che parlava in maniera sboccata, e non di rado bestemmiava; ma quasi tutti, a ben guardare, bravi padri e madri di famiglia, persone oneste, che non avrebbero imbrogliato il prossimo neppure d’un centesimo, che si sarebbero vergognate di approfittarsi della buona fede altrui, e sia pure su questioni di ordine secondario, né avrebbero accettato una raccomandazione, un favore illecito, mai, per punto d’onore.
Alla fine, rotta dalla stanchezza, mi era addormentato, col libro aperto sul comodino e la corona del Rosario in mano: perché, per quanto tardi abbia fatto e per quanto stanco sia, ora che ho preso questa pia abitudine, mi pare che coricarmi senza aver pregato sia una cosa da bestie, non da esseri umani; ma poi la stanchezza mi sommerge e mi addormento, alle sei è ora di alzarsi e le ore di sonno si riducono sempre più. Che cosa ho sognato? Non lo so; non lo ricordo. Non lo ricordo quasi mai. A un certo punto mi è parso di veder filtrare un po’ di chiaro dalla persiana, mi son girato e ho cercato a tentoni, con la mano, la sveglia che tengo sopra il comodino, senza mai caricarla. C’è un bottone luminoso che mi permette di vedere l’ora: d’inverno, quando il sole si leva tardi, è difficile capire se sia giunta l’ora di levarsi, senza consultare l’orologio. Ecco, è stato allora che l’ho sentita. Uso il femminile, perché ho immaginato, subito, che fosse una specie di mano, qualcosa di simile a una mano: però, a ben pensarci, non potrei giurarlo. L’unica cosa certa è che l’ho sentita, l’ho toccata. Che cosa fosse, non lo so. Aveva una consistenza quasi spugnosa, una superficie ruvida, pelosa: un po’ come quella dei pupazzi di peluche. L’ho toccata, e d’istinto ho ritratto la mia mano; ma subito, senza por tempo in mezzo, ho cercato, sempre nel buio, l’interruttore della lampadina da tavola. L’ho trovato, l’ho acceso: naturalmente, non ho visto nulla. Non c’era nulla. Però quella mano, o piuttosto quella cosa, io l’avevo sentita: come ora sento, con il senso del tatto, la superficie di questa scrivania. Nessun dubbio che si sia trattato di una esperienza assolutamente reale. Non dormivo, tanto meno sognavo. Ero perfettamente sveglio. Come faccio a esserne sicuro?, vuoi sapere, Be’, lo so e basta. Tu mi conosci: sono un tipo razionale. Non mi lascio suggestionare facilmente. Il mistero mi attrae, ma non ha mai avuto, personalmente, delle esperienze paranormali, o fatti di tal genere. Ho saputo molte cose, le ho lette o me le hanno raccontate persone che le hanno vissute: esorcisti, per esempio; ma io, personalmente, no. Quella è stata la prima e unica volta. E sono perfettamente certo di quello che dico. Ah, un particolare. Un paio d’ore prima, alzandomi nel cuore della notte per andare in bagno, mi ero accorto che la coroncina del Rosario non c’era più. Strano, l’avevo in mano quando mi ero addormentato. Avevo acceso la luce, l’avevo cercata, avevo guardato dappertutto, perfino sotto il letto: niente. Alla fine, dopo molte ricerche, l’avevo trovata in un angolo del pavimento pressoché nascosta dal filo della luce elettrica: l’unico posto, in tutto il pavimento, in cui era difficilissimo vederla. E l’ultimo posto dove immaginare che fosse. Com’era finita lì, dalle lenzuola? Ecco, mi era parso strano; ma non impossibile. Alzando le coperte, dovevo averla fatta volare in quell’angolo, silenziosamente. Solo all’alba, quando ho sentito quella "mano", mi sono ricordato di quell’altro fatto che avevo già archiviato. Due fatti strani in una notte; e se per il primo c’era una spiegazione ragionevole, per il secondo non ne vedevo alcuna. Né la vedo adesso, a mente fredda. Come ti ripeto, non ho avuto paura: ma so di aver toccato qualcosa, un oggetto reale, qualcosa che era lì accanto a me, nel buio; e non era una presenza amica. Se lo fosse stata, non avrebbe preso quella forma, non si sarebbe manifestata in quel modo. Se fosse stata una presenza amica, mi avrebbe trasmesso un senso di pace, di dolcezza: invece avevo ritratto la mano con disgusto, come quando si tocca qualcosa di orribile.
Sono passati alcuni giorni e la viva impressione di quella "cosa" si sta offuscando nella memoria, però resto convinto di aver fatto un’esperienza reale, di aver toccato qualcosa che c’era davvero, in quel momento, e che subito dopo, quando ho acceso la luce, non c’era più. Ma so di non essermela sognata. Che conclusioni ne traggo?, mi chiedi. Oh, si potrebbero fare molte ipotesi; ipotesi per ipotesi, visto che insisti, ti dirò che "qualcuno", forse, diciamo così, voleva appunto spaventarmi, ma non c’è riuscito per niente. Così come forse voleva infastidirmi, non facendomi trovare la coroncina del Rosario, per impedirmi di pregare in quel momento in cui ne avevo un vivo desiderio: perché quando mi sveglio, di notte, e non è ancora tempo di alzarsi, mi piace stringerla in mano e ricominciare le preghiere, anche se so che non riuscirò a recitarle tutte. Alla Madonna non importa quante preghiere diciamo, a Lei basta l’intenzione; siamo noi che abbiamo bisogno di pregarla, non Lei di essere pregata. Siamo noi che rischiamo di smarrirci, in questa valle buia. La notte è come una valle buia, è come una metafora del buio in cui può smarrirsi la nostra vita. Penso al cosiddetto popolo della notte, ai ragazzi dello sballo, della discoteca, della droga: non sanno di scherzare col fuoco. Un esorcista, una volta, mi disse che di notte vagano le forze del male, in cerca di anime da catturare. Di notte, Gesù è stato tradito, è stato consegnato a suoi nemici, è stato processato; di notte, mentre pregava, è stato tentato, nell’orto degli olivi, mentre la città, ai suoi piedi, si abbandonava al sonno; e ha vinto la tentazione. Di notte la preghiera è più necessaria, e anche più viva, più ardente: non distratta dai rumori, non ostacolata dagli stimoli della vita d’ogni giorno, sale dritta fino a Dio. La notte è il momento della verità: lo sanno i monaci, che interrompono il sonno per alzarsi e pregare, prima che il sole sorga. La loro preghiera è come un chiodo infisso nella roccia, uno all’inizio della notte, un altro prima della sua fine: bisogna tendere una corda fra di essi e aggrapparcisi, finché venga il mattino.
Ora, nel sole, guardo la valle del fiume che scorre in basso, e mi par di misurare, a volo d’uccello, tutte le cose preziose per le quali vale la pena che ci battiamo. Lo spettacolo magnifico delle Alpi coperte di neve, così vicine, così splendenti, mi trasmette un senso di gioia e di vigore. Non potrei vivere in un luogo da cui non le vedessi; fin dall’infanzia, le ho sempre avute innanzi agli occhi, e non riesco nemmeno a immaginare che si possa vivere lontano da esse. Questo profumo di resina, di pulito, questo cielo immenso, queste vette candide, che paiono cristalli, mi trasmettono un immenso senso di pace. Sono appena uscito dalla chiesa di Santo Stefano, la bella chiesa medievale affacciata sul ciglio del colle, in quest’angolo delizioso della città, e ho sostato un poco nello spiazzo esterno, sotto i tronchi secolari, ammirando la fontana di pietra col suo getto di freschissima acqua sorgiva. Seduto sul banco, ho ascoltato a lungo l’organista che si esercitava sulle fughe di Bach, e l’armonia mi risuona ancora nella mente, mi accompagnerà ancora a lungo, per tutta la strada che conduce a Borgo Prà, di là dal torrente, dove ho lasciato l’automobile, ai piedi della chiesa di san Giuseppe; e poi ancora lungo tutta la strada, fino a casa. La musica del sommo Bach, come sempre, mi trasmette una sensazione molto simile alla felicità: un’estasi permanente, contenuta ma durevole, grazie alla quale tutte le cose meschine o sgradevoli svaniscono come nebbia al sole, e resta nell’anima solo l’essenziale: il bisogno di verità, di assoluto, di giungere alla meta finale del nostri pellegrinaggio terreno, ma di giungervi con onore e la coscienza pura. Nessuna paura, caro amico: te lo ripeto. Ci attendono prove assai dure, perché il momento che stiamo vivendo è carico di pericoli, e ora si decide il nostro destino, come quello dei nostri figli. Tutti i nostri valori sono in estremo pericolo: la fede religiosa, l’amor di patria, il senso della famiglia. Senza di essi la società cesserebbe d’esistere, trasformandosi in un groviglio di bassi istinti ed egoismi scatenati in lotta fra di loro. Ma non dobbiamo temere, bensì confidare nella promessa di Gesù: Io sono con voi sino alla fine del mondo.
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