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Dove è scritto che si deve regalare l’Italia ai negri?

L’Italia è il nostro Paese; è la culla della nostra civiltà; è la nostra patria, come si diceva una volta, e come nessun altro popolo al mondo si vergogna di dire, quando vuol definire la propria identità e, nello stesso tempo, mostrare amore, attaccamento e fierezza nei suoi confronti. I francesi parlano di "patria", gli statunitensi parlano di "patria" e si alzano anche in piedi quando una banda intona l’inno nazionale; perfino i tedeschi, che pure hanno subito un terribile e pluridecennale lavaggio del cervello, mirante a colpevolizzarli se solo osavano formulare un pensiero del genere, hanno recuperato il concetto di "patria". Perfino piccoli popoli, come gli ungheresi, o i cechi, o gli slovacchi, sono fieri della propria patria, della propria identità, e vogliono difenderla con le unghie e coi denti. I polacchi vogliono restare polacchi, non vogliono negri, non vogliono falsi profughi né invasori travestiti da richiedenti asilo. Sono tutti xenofobi e razzisti, tutti fascisti e populisti? I russi non solo amano e sono fieri della loro patria, ma non tollerano che gli stranieri vengano in casa loro anche solo per reclamizzare ideologie contrarie ai valori della loro civiltà: che sono, oltre la patria, Dio e la famiglia. Quando il nostro (o la nostra?) Luxuria è volato/a in Russia per proclamare che gay è bello, l’hanno caricato/a su un aereo e rispedito/a al mittente, in quattro e quattr’otto. Una comitiva italiana, organizzata da una parrocchia e accompagnata da tanto di preti e suore, è stata cacciata fuori da una chiesa di Cracovia perché i ragazzi facevano fotografie, parlavamo a voce alta e due di loro si tenevano a braccetto: scandalo, parole grosse, senso d’indignazione. Secondo noi, i custodi di quella chiesa hanno fatto benissimo: non si entra nella casa di Dio per fare foto, per chiacchierare oper stare abbracciati; si entra per pregare; e anche se ci si entra solo per ragioni di tipo cultuale, si devono osservare le regole del luogo. Quei ragazzi erano stati avvisati all’ingresso, su come comportarsi; non hanno saputo rispettare l’impegno: hanno meritato di essere cacciati. Dove la patria e la religione sono una cosa seria, dove sono sentiti dalla gente, nessuno può permettersi di scherzarci troppo; tanto meno uno straniero, il quale, anche se in veste di turista, è tenuto asl massimo rispetto nei confronti di ciò che è importante per quel popolo. Non come a Parigi, dove le Femen che hanno fatto irruzione a Notre Dame, a seno nudo, ballando oscenamente e percuotendo una campana secolare, per il puro piacere di dare scandalo ai fedeli, sono state processate, sì, ma poi completamente assolte, mentre i custodi che le avevano fatte uscire sono stati multati per essere stati troppo bruschi. E sì che i francesi hanno l’amor di Patria; ma non hanno più il timor di Dio. L’hanno perso da almeno due secoli, con l’illuminismo e la rivoluzione, e poi con le leggi sulla secolarizzazione; per cui non importa loro se qualcuno offende la religione cristiana. Noi italiani non amiamo né la nostra patria né la nostra religione, dato che permettiamo a chiunque di sfigurarle, di offenderle, d’insozzarle. Quanto agli spagnoli, hanno costruito un muro, a Ceuta e Melilla, lungo alcuni chilometri e alto sei metri, per fermare l’invasione dei cosiddetti migranti dall’Africa sub-sahariana: i poliziotti in tenuta da guerriglia lo sorvegliano notte e giorno, e non vanno tanto per il sottile quando si tratta di respingere chi tenta di scavalcarlo. Perché il signor Bergoglio, che odia tanto i muri e proclama il dovere cristiano di costruire sempre e solo ponti, non va in Spagna, o magari a Ceuta e Melilla, a rimproverare gli spagnoli? perché non li ha accusati di essere xenofobi, insensibili e cattivi cristiani? Semplice: perché, probabilmente, l’avrebbero trattato come i russi hanno trattato Luxuria, come si trattano i demagoghi, i cialtroni e i sobillatori, che vanno a rompere le scatole in casa altrui e pretendono di dettare agli altri le regole ch’essi devono seguire: lo avrebbero caricato gentilmente su un aereo e rispedito in Vaticano. Dove, sia detto fra parentesi, i muri ci sono, eccome, e sono spessi alcuni metri; e dove, sempre per pura coincidenza, non ci risulta che sia ospitato nemmeno un migrante. Quelli, i neopreti della neochiesa li scaricano sull’Italia; Bergoglio è andato di persona a Lesbo per portarne alcuni col suo aereo personale, tutti rigorosamente musulmani; e far bella figura a costo zero.

Dunque: l’Italia è la patria degli italiani; ed è anche, senza alcuna retorica, il Paese che ha dato il massimo contributo alla civiltà dell’Occidente, a parte la Grecia antica. È un Pese bellissimo, carico di storia e arte, carico di civiltà: ogni angolo, ogni strada, ogni paesino custodiscono qualche gioiello di pittura, scultura o architettura; nessun popolo più dell’italiano ha dato impulso all’Europa e al mondo, affinché diventassero ciò che ora sono. Da san Francesco, che ha costituito il modello insuperabile della spiritualità cristiana, a Dante, che ha dato all’umanità uno dei suoi massimi poemi, a Colombo che ha scoperto l’America, a Leonardo che ha riverberato il suo genio artistico e scientifico sul mondo, a Marconi che ha inventato il telegrafo senza fili, nessun altro popolo può vantare una tal messe di personalità illustri, di statura universale. L’Italia era un Paese povero, privo di materie prime, giunto in ritardo all’unità politica e alla rivoluzione industriale: eppure ha saputo crearsi un posto rispettabile fra le nazioni. I suoi soldati, sul Piave e El Alamein, hanno dato la vita per difenderne i confini. Per due volte, con Roma pagana e poi cristiana, l’Italia è stata al centro del mondo; e in nessun altro Paese d’Europa, e probabilmente del mondo, sono così vivi il culto della bellezza, dell’eleganza, il piacere delle cose ben fatte, la cortesia verso lo straniero, la pietà verso il debole e il vinto, il rispetto per la cultura e l’ammirazione verso l’intelligenza; anche se, bisogna ammetterlo, queste qualità sono da tempo in declino: non però fino al punto che l’immenso capitale accumulato sia andato già tutto disperso. E questo Paese povero, da solo, si è tirato in piedi; da Paese di emigranti, è diventato uno dei primi Paesi al mondo, con una delle economie più forti (almeno fino a quando i suoi sciagurati governanti lo hanno gettato in pasto all’Unione europea, per distruggerne la capacità produttiva a vantaggio della Germania), grazie al lavoro, all’abilità, alle fatiche e alla eccezionale capacità di sacrifico dei nostri padri e dei nostri nonni.

Ora, non si sa perché, tutto questo deve essere praticamente regalato a una massa continuamente crescente di stranieri, d’immigrati, di falsi profughi, in larga parte provenienti dall’Africa nera, e in massima parte di religione islamica. Non si sa perché, sia i nostri governanti, sia i nostri uomini di Chiesa, a partire da un certo momento, non fanno altro che ripeterci come queste persone, questi disperati, in fuga da guerra e fame, hanno diritto di essere accolti, ospitati, amati, soccorsi, tollerati se disturbano, perdonati se delinquono, trattati sempre con un occhio di riguardo perché, poverini, sono dei disperati, fuggiti da guerra e fame. Solo che non è vero niente. Forse il 5% di essi sono realmente dei profughi; gli altri sono delle persone che, nei rispettivi Paesi, non hanno mai conosciuto né guerra, né fame; non so mai stati costretti a lasciare le loro case e i loro villaggi, né dalle violenze degli uomini, né dalle calamità naturali; anzi: sono dei benestanti, dei proprietari terrieri, dei pastori padroni del proprio bestiame, in grado di pagare qualche migliaio di dollari per mettersi in viaggio alla volta dell’Europa, dove hanno deciso che devono arrivare ad ogni costo. E, una volta arrivati, non si sa perché – nessuno ce lo ha spiegato, né il premier Gentiloni, né il presidente Mattarella, né, tanto meno, il (falso) papa Bergoglio, che fa il generoso con ciò che non è suo – essi mettono radici e più non se ne vanno, anzi, chiamano amici e parenti, si fanno raggiungere da mogli, figli e fidanzate, nonché dai genitori. Se vedono respinta la loro domanda di ottenere lo status di rifugiati, e ricevono un decreto di espulsione, lo ignorano, se ne infischiano e rimangono, passando alla clandestinità — e, molto speso, alla criminalità. Quanti ce ne sono, di siffatti clandestini? Le cifre fornite dal ministero dell’Interno parlano di seicentomila, e scusate se è poco: parliamo di seicentomila mine vaganti per le nostre città e le nostre strade; ma il numero reale va moltiplicati per parecchie volte tale cifra. Non siamo ciechi: abbiamo occhi per vedere. Se fossero seicentomila, in un Paese di 60 milioni d’abitanti non si noterebbero a ogni passo: invece si capisce al volo che il loro numero è enormemente superiore a quello stimato. Così come si vede al primo sguardo che non sono affatto dei profughi: non occorre controllare i documenti, lo si vede. Niente donne, niente vecchi, pochissime famiglie: ma che razza di profughi sono? Quasi tutti baldi giovanotti, pieni di forza e di salute; e sempre più insolenti, sempre più arroganti. Non gradiscono il cibo delle mense, nei centri di accoglienza; scioperano e protestano perché non li mandano in albergo; provocano incidenti e tafferugli, ma non li si può nemmeno trasferire: quante volte i carabinieri, venuti per portare via i più facinorosi, gli agitatori di professione, hanno subito l’umiliazione di doversene andar via con le pive nel sacco, fra le risate di scherno dei cosiddetti profughi, fieri della loro ennesima vittoria? Quante volte il prefetto di turno, il questore di turno, hanno ceduto le armi, si sono arresi, vuoi, come dicono loro, per evitare guai peggiori, vuoi per non giocarsi la poltrona, visto che, non appena un sedicente profugo si sbuccia un ginocchio, partono interrogazioni parlamentari, manifestazioni rabbiose dei centri sociali, proteste degli intellettuali politicamente corretti; mentre se a prendere le botte sono le forze dell’ordine, nessuno si scomoda, nessuno s’indigna e nessuno se la prende calda. Ah, già, ci scordavamo: carabinieri e poliziotti sono pagati (e sai quanto!) per fare il loro mestiere, se un negro li prende a bastonate, o a coltellate, fa parte degli incerti del mestiere; ma il negro, poverino, soffre di disagio ambientale (come recita la sentenza di un giudice, purtroppo in perfetta serietà), bisogna capirli. Come quel Kabobo che a Milano, brandendo una piccozza, spaccò il cervello a tre ignari cittadini italiani che passavano per strada; o come quella ragazza finita a pezzi dentro due valigie, per mano degli spacciatori nigeriani, e il suo cuore non si è trovato, voi vedere che se lo sono mangiato ancora caldo, come pasto cannibalesco, secondo le loro civilissime abitudini? Sì, lo sappiamo; è molto, molto scorretto parlare di queste cose; sono discorsi che non bisognerebbe fare. Non bisognerebbe alimentare l’insofferenza e l’intolleranza; non bisognerebbe contribuire a surriscaldare gli animi (che sono già surriscaldati e non per colpa di chi lancia l’allarme, ma per colpa di chi ha creato questa assurda situazione). Eh, sì: che brutta cosa parlar male dei migranti, che Iddio stesso ci mandato come angeli del Cielo, parola di monsignor Tisi, arcivescovo di Trento.

Ma come! Se sono profughi, non dovrebbero essere ospiti temporanei? Non dovrebbero, essi stessi, non desiderare altro che poter tornare alle loro case, alle loro famiglie, non appena lo stato di necessità sia finito? Se fossero veri profughi, come lo sono quelli dell’Iraq e della Siria, non dovrebbero avere tali sentimenti? E invece no: qui sono, e qui vogliono restare. L’Italia adesso è nostra, dicono; così hanno gridato, per esempio, dei "rifugiati" che avevamo circondato alcuni poliziotti e li avevano aggrediti, qualche giorno fa. Sono scene sempre più frequenti. Gli spacciatori nigeriani fanno i loro comodi alla luce del sole; resistono all’arresto, usano la violenza, tirano fuori il coltello; poi, male che vada, trovano subito un giudice di sinistra che li fa scarcerare, che concede loro tutte le attenuanti possibili e immaginabili. Anche se hanno tentato di uccidere gli agenti che li avevano fermati, anche se si sono dimostrati altamente pericolosi per la società. Anche se nelle nostre città, ormai, nessuno osa più uscire da solo, dopo cena. Anche se molti quartieri sono terra di nessuno, o meglio, sono terra di conquista dei criminali stranieri, e neppure le forze dell’ordine osano farsi vedere in quelle strade. Eppure bisogna capirli, bisogna accoglierli, bisogna amarli; bisogna accettare l’idea che l’Italia è anche loro; bisogna convincersi, come dice il vescovo Perego, che il futuro degli italiani è il meticciato. In altre parole, che devono sparire. Quale altro destino ci potrà essere, visto che non solo hanno smesso di fare figli, ma si stanno concentrando sui diritti degli omosessuali, sui matrimoni omosessuali, sulle adozioni omosessuali, e su altre meraviglie del genere, mentre gli stranieri, di figli, ne fanno quattro o cinque come minimo? Sempre più numerosi e sempre più iperprotetti e coccolati, sia dal legislatore, sia dai media. Una volta si scatenò un putiferio perché un "migrante", appena sbarcato a Lampedusa, col telefonino (col telefonino? ma se scappano senza neanche la camicia addosso!) aveva ripreso gli operatori del centro di accoglienza, i quali, pensate un po’, lavavano quelle persone sporche e sudice per mezzo di getti d’acqua. Oibò, quale orribile forma di razzismo; quale sinistra evocazione del fascismo e del nazismo, dei campi di concentramento e, magari, di quelli di sterminio! Ne parlarono i giornali e i telegiornali, ci furono conferme e smentite, imbarazzi e rossori: e nessuno che abbia avuto il fegato di dire: sì, li abbiamo fatti lavare con i getti d’acqua, che cosa dovevamo fare? assegnare una stanza da bagno personale, con acqua calda, fredda e tiepida, a ciascuno di loro? ma lo sapete quanti ne arrivano ogni giorno, e in quali condizioni, voi chiacchieroni che state nei salotti televisivi, belli comodi, e che siete pagati per fare le pulci a chi fa un lavoro massacrante e pericoloso come il nostro? Lo sapete che rischiamo di prenderci chissà quali malattie, e, non di rado, pure qualche coltellata?

In qualsiasi altro Paese, simili politici verrebbero messi sotto processo per alto tradimento, attentato alla sicurezza nazionale e congiura contro la sovranità; e vescovi come Perego e Tisi sarebbero presi a pomodori marci dai fedeli. Fino a quando costoro abuseranno della pazienza degli italiani?

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Christian Lue su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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