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Stato e Chiesa, i nodi vengono al pettine

La svolta migrazionista della neochiesa di Bergoglio è qualcosa d’intollerabile, qualcosa che indigna, non solo per ciò che rappresenta in se stessa, ma anche per l’invasione di campo nelle faccende di pertinenza della politica, cioè dello Stato; non è, tuttavia, se vogliamo essere lucidi e se vogliamo essere onesti, qualcosa di totalmente, di radicalmente imprevisto e imprevedibile; era, anzi, prevedibilissima, e non da ieri, non dall’elezione di Bergoglio, e neppure dal Vaticano II: era ed è inscritta nella logica intrinseca delle cose.

Lo Stato è una costruzione umana, storica, che nasce da un atto di forza: tutti gli Stati, anche i più piccoli, nascondo così, da un atto di forza nei confronti di qualche altro soggetto. Può essere anche un atto di forza incruento, ciò talvolta accade; ma vi è, comunque, il sottinteso che, se necessario, le forze che mirano alla fondazione dello Stato sono pronte e disposte ad usare la forza, sia verso l’esterno, sia verso l’interno: sono pronte a respingere le minacce che vengono dal di fuori, e a reprimere i disordini che possono sorgere dal di dentro. Il fine dello Stato è assicurare la pace e la giustizia in questa vita. Quando uno Stato non riesce ad assolvere a queste due funzioni essenziali, ricorre a un uso improprio della forza, cioè adopera la forza non per il bene dei cittadini, ma per preservare indefinitamente se stesso, trasformandosi in un organismo parassitario che si nutre del lavoro e delle tasse dei cittadini, ma che, in cambio, non offre più le due cose essenziali, pace e giustizia, e, spesso, neppure le cose necessarie, benché non essenziali (perché potrebbero essere sostituite dall’iniziativa privata): lavoro, pensioni, sanità, istruzione, trasporti. Per realizzare i suoi fini, lo Stato deve porsi come un valore assoluto: vale a dire, non può ammettere l’esistenza di un principio che sia ad esso superiore, perché, in tal caso, non sarebbe legittimato interamente a esigere il rispetto delle sue leggi. Qualcuno, infatti, potrebbe appellarsi a quel principio superiore, per negare fedeltà e obbedienza a questa o quella legge dello Stato, a questa o quella decisione dello Stato (per esempio, una sentenza giudiziaria).

La Chiesa, da parte sua, la Chiesa cattolica romana, è una costruzione umana, ma, nello stesso tempo, una costruzione divina: l’ha fondata Gesù Cristo, che, per quanti credono in lui, è il Verbo incarnato. Pertanto, il credente che prende sul serio la propria religione, si pone in un’ottica analoga a quella del cittadino nei confronti dello Stato; però con una importante differenza: la diversità dei fini. Il fine della Chiesa è la salvezza delle anime, vale a dire portare le anime a Dio, non a un Dio qualunque (come dice e ripete Bergoglio), ma al Dio del Vangelo: a Gesù Cristo, con tutto quel che Egli ha insegnato e con le promesse che ha fatto agli uomini. Il fine della Chiesa è, quindi, un fine soprannaturale; e la vita terrena, per il credente, è un pellegrinaggio, una realtà transitoria, che non va in alcun modo assolutizzata. Chiesa e Stato possono quindi coesistere, perfino sostenersi reciprocamente, fino a quando si muovono nella distinzione e nella complementarità dei rispettivi ruoli e dei rispetti scopi. Non ci si può tuttavia nascondere la diversità delle due prospettive: nazionale quella dello Stato (almeno dacché lo Stato moderno si è definito come Stato nazionale, mentre in passato esistevano molti Stati plurinazionali, sostenuti da un’altra idea, quella dinastica, ad esempio l’Austria-Ungheria), universale quella della Chiesa cattolica. Ciò significa che se, per lo Stato, il bene nazionale deve venire prima di tutto, per la Chiesa ciò che viene prima di tutto è il Regno di Dio. Ora, è ben vero che il Regno di Dio – sono parole esplicite di Gesù Cristo — non è di questo mondo; ma è altrettanto vero che, per comune consenso, esso incomincia in questo mondo, nel senso che ciascun credente si sforza di realizzarlo, per quanto sta in lui, fin da ora, in questa vita terrena ed entro un orizzonte terreno, anche se l’opera sarà compiuta dalle generazioni future. Al suo centro c’è l’amore per Dio e, come riflesso, per il prossimo; e il prossimo è chiunque, anche il non cattolico, e anche chi non appartiene alla propria comunità nazionale. Può accadere, pertanto, e ora sta accadendo, che le due prospettive, del cittadino e del credente, divergano.

La divergenza si mostra nei momenti di crisi epocale, cioè di crisi del sistema; se la crisi è limitata, non emerge. Per esempio, una crisi finanziaria e una crisi economica, per quanto gravi, non bastano a far esplodere la differenza di prospettive fra Stato e Chiesa; ma una migrazione di popoli, con tutto ciò che essa comporta sul breve, sul medio e sul lungo periodo, sì. È davanti a una situazione di quel genere che si vede come l’alleanza, o la complementarità fra Stato e Chiesa, si reggano su basi piuttosto fragili, legate alla stabilità del sistema. Finché il sistema complessivo è stabile, il trinomio Dio, Patria e Famiglia è efficace, funziona, e ciascuna delle sue componenti si appoggia sulle altre, ed è da esse sostenuta. Ma le cose cambiano davanti a una crisi di sistema, la quale fa emergere le radiali differenze di fondo. Qualcuno potrebbe pensare che fino a quando ciascuno dei due, lo Stato e la Chiesa, resta nei propri limiti, non dovrebbero sorgere problemi, essendo diverse, anche se complementari, le loro aree di competenza e le loro finalità: pace e giustizia fra gli uomini, da parte dello Stato; raggiungimento della vita eterna, da parte della Chiesa. Ma non è così. Una crisi di sistema, infatti, fa emergere con evidenza ciò che, in condizioni normali, rimane implicito: che, cioè, non è mai possibile stabilire una netta e obiettiva linea di separazione fra i due ambiti. Che cosa succede se lo Stato chiede al cittadino, che è anche un credente, di obbedire a delle leggi che sono in contrasto con la meta della vita eterna, perché implicano una grave offesa a Dio? E che cosa succede se la Chiesa chiede ai fedeli, che sono cittadini dello Stato, di non obbedire a certe leggi e di non accettare certe decisioni prese dallo Stato? Che cosa succede, in poche parole, se l’interesse nazionale viene a configgere con il bene, così come esso viene insegnato e predicato dalla Chiesa quale imperativo morale? Evidentemente, si apre un conflitto, o, quanto meno, si attua un divorzio: ciascuna delle due parti se ne va per proprio conto.

Questo è quanto accadde nell’ultima grande migrazione di popoli conosciuta dal nostro continente, quella avvenuta fra il IV e il X secolo. La Chiesa, istituzione universalistica, non vide nei barbari soltanto dei nemici da respingere, ma dei popoli da convertire: inviò dei missionari presso di loro, li evangelizzò, li accolse nel suo seno, dopo averli trasformati da nemici in suoi difensori. Questa fu la parabola degli Slavi, degli Ungari, dei Vichinghi: non quella dei Saraceni, i quali non erano disposti a convertirsi ma che, anzi, volevano conquistare e convertire l’Europa alla religione di Maometto, come già avevano fatto con il Vicino Oriente e l’Africa Settentrionale. L’Impero Romano, quando si divise, ebbe un destino diverso nelle due partes, così come diverso fu l’atteggiamento della Chiesa verso di esso. L’Occidente, più debole, venne sopraffatto dagli invasori e fu da essi conquistato: la Chiesa separò i suoi destini da quelli dello Stato, e si sostituì allo Stato nel vuoto delle sue funzioni; intanto lavorò pazientemente per la conversione degli invasori, e ne favorì l’assimilazione: da questa fusione sarebbe nata l’Europa. In Oriente lo Stato era più forte, resistette agli assalti esterni per altri mille anni e, all’interno, volle mettere bene in chiaro che non accettava un potere ecclesiastico autonomo e superiore a sé, ma lo volle sottomettere (cesaropapismo): il contrario di ciò che era accaduto in Occidente, con l’episodio dell’umiliazione di Teodosio da parte del vescovo di Milano, sant’Ambrogio (episodio che si sarebbe ripetuto, in forma ancor più spettacolare, a Canossa, con l’imperatore tedesco Enrico IV, sei secoli dopo). Insomma: in presenza di una crisi di sistema, se lo Stato è forte, tende a sottomettere la Chiesa ai proprio fini; se lo Stato è debole, è la Chiesa che cerca di piegarlo ai propri fini, oppure, se lo giudica perduto, lo abbandona al suo destino, e punta a ricostruire una nuova società sulle sue rovine, utilizzando proprio le forze che ne hanno determinato il crollo. A nostro giudizio, è giusto che la ragion d’essere della Chiesa prevalga su quella dello Stato: perché lo Stato ha una funzione limitata nel tempo (anche se si può misurare sulla scala di un millennio, come per Bisanzio o Venezia) e nello spazio (perché abbraccia solo una comunità che, per quanto vasta, non coincide con l’umanità intera), mentre la Chiesa si rivolge all’eternità e all’intero globo terracqueo, fino all’ultimo gruppo di Eschimesi dispersi fra i ghiacci dell’Artico; e, se una popolazione extraterrestre prendesse piede sul nostro pianeta, si rivolgerebbe pure ad essa. Riconosciamo perciò volentieri che la funzione spirituale della Chiesa è perenne e insostituibile; quella dello Stato è transitoria, parziale e può essere sostituita, in circostanze particolari, da altri soggetti. Si può infatti sostituire la forma di questa o quella comunità politica e territoriale, ma non si può sostituire la Verità eterna del Vangelo di Gesù.

Ciò detto, restano da vedere due cose. Non c’è chi non abbia notato l’analogia fra la situazione geopolitica dei nostri giorni e quella che si determinò ai confini dell’Impero Romano, specialmente a partire dal IV secolo dopo Cristo. Anche noi stiamo assistendo a un imponente fenomeno migratorio, che, superficialmente, potrebbe ricordare quello dei popoli germanici, slavi, turco-tatari, mongoli e iranici, i quali produssero il crollo dell’Impero di Occidente e ridisegnarono la carta etnica dell’Eurasia fino al tempo in cui gli ultimi invasori, Ungari e Vichinghi, si sedentarizzarono e si cristianizzarono, integrandosi nella civiltà europea. Ma l’analogia è puramente superficiale. Infatti, le migrazioni dei popoli nel IV secolo nascevano da fatti reali, da mutamenti climatici e dalla spinta aggressiva di altri popoli più remoti, assai temuti e aggressivi, come gli Unni, gli Alani, gli Àvari e, nel caso dell’India, gli Unni Bianchi o Eftaliti. Le migrazioni attuali, invece, sono pianificate e fomentate da un disegno delle grande finanza internazionale, che si serve della suggestione psicologica per indurre alla partenza soprattutto le persone del ceto medio africano e asiatico, persone che possono pagare migliaia di euro per il viaggio e che, nei rispettivi Paesi, godono di una discreta prosperità economica. I migranti non provengono che in piccola misura dai Paesi più poveri e straziati dalla guerra, quelli del Sahel, o la Siria e l’Iraq, ma da zone pacifiche, come il sud della Nigeria (non dal Nord di essa, dove pure infuria il terrorismo di Boko Haram). Ciò significa che non sono migrazioni causate da necessità, ma dal miraggio di trovare, in Europa, il Paese di Cuccagna; e, se non sono causate da vera necessità, allora sono anche contenibili e arrestabili, e non, come ci viene fatto credere, qualcosa di fatale e d’inarrestabile, cui bisogna per forza adattarsi, magari cercando di coglierne l’aspetto positivo: quale, non si sa: ed è risibile la tesi di Boeri circa l’indispensabilità dei migranti per pagare le pensioni agli italiani (ma questo è un altro discorso: lo Stato italiano non si cura dell’interesse nazionale). Pertanto, la prima cosa da vedere è se la Chiesa abbia realmente il diritto-dovere di predicare l’accoglienza, per ragioni morali, di persone che giungono simulando la condizione di profughi, ma senza esserlo, com’è provato anche dalla percentuale schiacciante di giovani maschi, con poche donne e pochissime famiglie; o se il suo vero dovere non sarebbe, invece, quello di predicare agli africani e agli asiatici di restare nei loro Paesi, presso le loro famiglie, lavorando per migliorare le condizioni di vita e per utilizzare bene le risorse, ingenti, che il Nord del mondo destina allo sviluppo del Sud, e che vanno un larga misura perse fra le maglie della corruzione dei loro regimi politici. Invece di favorire gli scafisti, come fanno tanti preti buonisti ed incoscienti, nel traghettare i migranti attraverso il Mediterraneo, il clero farebbe bene a impegnarsi per responsabilizzare i popoli del Terzo Mondo e far capire loro che devono prendere in mano il proprio destino, non inseguire il mito fasullo di un’Europa ove troveranno automaticamente la ricchezza. E che dire, poi, del fatto che i migranti sono al 90% di fede islamica e la neochiesa di Bergoglio non solo non può, ma proprio non vuole convertirli? Anche qui c’è una differenza stridente con la situazione del IV secolo d. C., quando la Chiesa aveva sia la capacità, sia la volontà, di convertire i popoli che penetravano oltre il limes.

La seconda cosa che resta da vedere è se i cattolici si siano chiariti le idee circa il Regno di Dio: se, cioè, vogliono davvero realizzarlo in questo mondo, nel qual caso non sono altro che marxisti e rivoluzionari travestiti da cattolici, o se, pur nell’amore del prossimo e della giustizia, si ricordano le parole di Gesù, che quel regno non è di questo mondo, e che il mondo, al contrario è in gran parte sotto il potere di satana. Questa lacerazione è implicita nella coscienza cristiana, ma è divenuta drammatica a partire dal Vaticano II, quando la Chiesa ha voluto andare verso il mondo, facendo propria, sostanzialmente, e perfino in teologia, la prospettiva antropologica. Qui il chiarimento dovrà aver luogo non tanto fra la Chiesa e lo Stato, ma fra la vera Chiesa cattolica e quella falsa, apostatica e massonica, che si spaccia per la vera e pretende di parlare a suo nome. L’appello alle coscienze del falso papa Bergoglio, affinché tutti i migranti siano accolti e le chiese si trasformino in dormitori, sale mensa e gabinetti per i migranti islamici, dietro i veli di un falso vangelo che è, in realtà, il tradimento del Vangelo e il suicidio della Chiesa e del cristianesimo, si basa su una falsa premessa: che la Chiesa abbia il dovere di costruire qui, ora, la città ideale. Bergoglio, forse, non ha mai meditato sant’Agostino, il primo filosofo della storia: la città terrena e la città di Dio sono incompatibili, perché una si regge sull’amor di sé, l’altra su quello di Dio. Perciò si deve scegliere…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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