
Esiste la libertà di peccare?
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11 Febbraio 2018La virtù: questa parente povera, un tempo così onorata e corteggiata, e oggi, come direbbe Dante, così dispetta e scura. Che cosa è successo? Perché la famiglia, la scuola, la società, hanno smesso di parlarne? Perché abbiamo smesso di considerarla un valore? Perché, soprattutto, abbiamo smesso di praticarla? Le parole tendono a scomparire quando scompaiono i concetti che esse designano: se non si parla più della virtù, è perché la nostra società ha smesso di crederci. Si tratta perciò di vedere se essa sia qualcosa di cui la società può prendersi il lusso di fare a meno, oppure se, al contrario, è una cosa essenziale, indispensabile per il buon funzionamento della vita sociale e anche per il bene delle singole persone.
La cosa che suscita maggiore perplessità è il fatto che la Chiesa, che dovrebbe essere la più interessata a custodire la virtù come un bene prezioso, da tramandare ed insegnare alle giovani generazioni, ma anche agli adulti, ha praticamente smesso di farlo. Non ne parla più. Parla degli stranieri e dei migranti, in primissimo luogo; poi delle persone "ferite"; paragona se stessa a un ospedale da campo, invita i sacerdoti ad "accompagnare" le persone nel loro percorso di vita, senza guardar tanto per il sottile alla meta verso cui tale percorso è diretto; ma della virtù, basta, non si dice più nulla.
Il Catechismo di san Pio X, sul quale si sono formate le generazioni che oggi hanno dai sessant’anni in su, dava questa definizione della virtù: una disposizione costante dell’anima a fare il bene. Si noti la concretezza di tale definizione: non è una disposizione dell’anima a desiderare il bene, né, semplicemente, ad amare il bene, ma a fare il bene, senza "se" e senza "ma". Perché tutti son capaci di dire che desiderano il bene e che vorrebbero farlo e vederlo realizzato, ma farlo davvero, questo significa uscire dal limbo delle buone intenzioni e impegnarsi seriamente, con tutto se stessi, verso lo scopo desiderato.
La Chiesa, oggi, o forse dovremmo dire la neochiesa, la contro-chiesa massonica e apostatica che si spaccia per la vera Chiesa di Gesù Cristo, non parla più della virtù, allo stesso modo che ha quasi smesso di parlare del peccato. Sembra che peccare sia un diritto, e che il peccatore meriti sempre e comunque la massima comprensione, tutto il rispetto possibile e una misericordia pressoché illimitata. Attenzione: è vero che, come persona, chiunque, perciò anche il peccatore, merita comprensione, rispetto e misericordia; ma il peccatore è una persona che ha deliberatamente e pervicacemente rifiutato l’amore di Dio e disprezzato la sua giustizia, e, con ciò stesso, ha anche rotto il patto di solidarietà con gli altri uomini: ha compiuto un atto di superbia e di ribellione contro il Creatore, dunque un atto illegittimo, perché ha fatto un pessimo uso del dono della libertà. Pertanto, quell’atto non merita né comprensione, né rispetto, e meno ancora misericordia: sarebbe una falsa misericordia e darebbe l’impressione, a lui e a tutti quanti, che la religione cattolica sia una cosa poco seria, dove si predica bene e si razzola male impunemente, e dove chiunque può fare tutto quel che vuole, senza poi neanche prendersi il disturbo di pentirsi dei propri peccati, e passare tranquillamente a riscuotere la misericordia e il perdono di Dio. Non è così. Il figlio prodigo, tanto volentieri citato da codesti buonisti a tempo pieno, quando torna alla casa del padre, che aveva offeso e abbandonato, si getta ai suoi piedi ed esclama, con sincero pentimento: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te! Non sono più degno di essere chiamato tuo figli. Trattami come l’ultimo dei tuoi servi.
Così come il peccato non è un diritto, previsto e garantito per statuto, ma una rottura dell’ordine voluto da Dio e mirabilmente assicurato tramite la sua infinita e sapiente Provvidenza, allo stesso modo la virtù non è un di più che viene riservato alle anime sante o agli uomini eccezionali; al contrario: la virtù è il normale comportamento che gli esseri umani dovrebbero tenere, per vivere la vita buona davanti a se stessi, al loro prossimo e davanti a Dio. Non è un lusso essere virtuosi, ma un dovere; e non è un merito eccezionale praticare il bene, bensì un dovere ordinario, cui nessuno può pretendere di sottrarsi, né in via di principio, né in via di fatto. Naturalmente, sappiamo che la natura umana è fragile e che le cadute sono sempre possibili, anzi, che sono frequenti; nondimeno, il credente sa che la forza e la perseveranza necessarie per vivere la vita buona sono un dono di Dio; che è possibile chiederlo e ottenerlo, con l’umiltà e la penitenza; e che, con l’aiuto della grazia, non vi è tentazione che non possa essere sconfitta, non vi è peccato che non possa essere evitato. L’uomo, infatti, da solo, non è niente e non può fare niente (cfr. la similitudine evangelica della vite e i tralci, Giovanni, 15, 1-8); ma, se resta unito al suo Creatore, diviene capace di far grandi cose. Grandi cose ha fatto per me l’Onnipotente, e santo è il suo Nome (Luca, 1, 49) dice la creatura che più di tutte si è innalzata al di sopra della fragilità umana, la Madonna, non per suo merito, ma come premio della sua immensa fede.
Forse, se la neochiesa la smettesse di paragonarsi a un ospedale da campo, se la smettesse di compatire i peccatori e di assecondare il vittimismo delle persone deboli, e ricominciasse a parlare, con spirito di carità, e quindi anche con fermezza, in maniera maschia e inequivocabile, come sempre la vera Chiesa ha fatto, del male, del peccato e della bellezza della virtù; se si rivolgesse con forza alle anime generose, accendendo il desiderio del bene e l’orrore del male nei cuori sensibili; se praticasse la virtù, con l’esempio dei suoi sacerdoti e dei suoi vescovi, e mostrasse che essa è uno stile di vita possibile, realistico, abituale, e niente affatto eccezionale; se si sbarazzasse dei preti lussuriosi e dei cardinali avidi e sodomiti, se buttasse fuori a pedate i ministri indegni, i pedofili, gli affaristi senza scrupoli collusi coi banchieri criminali, farebbe certo qualcosa di buono per le anime, per la società e anche per se stessa: perché una chiesa che non parla più della virtù e del peccato, del bene e del male, del premio e del castigo eterno, è una chiesa morta o moribonda, arrivata al capolinea, che non ha più niente da dire alla mente e al cuore delle persone. E invece che cosa vediamo, praticamente ogni santo giorno? Lo spettacolo indegno di una pseudo chiesa che giustifica e che persino glorifica il peccato; vediamo dei sacerdoti che si vantano di essere fornicatori, omosessuali, increduli, superbi, iracondi; che ostentano comportamenti discutibili, che parlano in modo tale da scandalizzare le anime, che non mostrano nemmeno un briciolo di timor di Dio, anche se si riempiono sempre la bocca con la parola "misericordia". Ma la vera misericordia è tutt’altra cosa: è richiamare al bene il peccatore, è rappresentargli la gravità del suo peccato, e prospettargli la serietà delle sue conseguenze, per lui stesso e anche per gli altri. Il peccato non è mai solo un fatto privato: è sempre, in qualche misura, un fatto collettivo, perché le sue ripercussioni turbano l’intero ordine della creazione. Perciò il peccato, che è un male morale, diviene anche, automaticamente, una piaga sociale: e le cronache ce ne mostrano esempi innumerevoli. La corruzione politica e amministrativa, per esempio, che inceppa e turba gravemente l’ordine sociale, da che cosa deriva, se non dal fatto che moltissime persone sono corruttibili, perché hanno perso ogni senso morale? Sono diventate avide di denaro, di potere, di sesso, e perciò si lasciano comprare dal primo offerente, come se fossero bestiame al mercato: prese all’amo della loro ingordigia, della loro ambizione e della loro lussuria.
Il momento storico che stiamo vivendo riflette il sempre più grave allontanamento dell’uomo da Dio; e, nello stesso tempo, lascia intravedere un disegno oscuro, diabolico, che di tale distacco si sta avvalendo, e che lo ha largamente favorito e incoraggiato. C’è qualcosa di tenebroso, o piuttosto c’è qualcuno, dietro la decadenza morale del nostro tempo, che non è solo il frutto di uno "spontaneo" processo di secolarizzazione, iniziatosi con l’avvento della modernità, se non prima ancora, ma è anche il regista nascosto della presente decadenza. La lussuria, la superbia e l’avidità dell’uomo moderno sono state fomentate in ogni modo e, alla fine, centuplicate, da una sistematica campagna di contro-educazione mirante a distruggere il senso del bene e a far percepire come legittima la pratica del male. La letteratura, la filosofia, la sociologia, la psicanalisi, il cinema, la televisione, l’arte, il teatro, lo spettacolo, la musica, il fumetto, i giochi elettronici, e mille e mille altre cose, pubbliche e private, sono sempre più dirette, intenzionalmente, a far emergere il fondo oscuro presente nell’anima umana, e a mettere a tacere la voce della sana coscienza, insieme al richiamo di Dio.
Di questa campagna diabolica mirante al pervertimento delle anime fa parte la tendenza, ormai diffusa, a guardare con sospetto o con derisione al concetto e alla pratica della virtù. Della virtù, come della bontà, non si parla più da tempo, non solo perché le sue azioni sono scese in ribasso, ma anche perché parlarne o praticarla apertamente significa esporsi a una malevola attenzione da parte degli altri: degli amici, specialmente nell’ambito degli adolescenti e dei giovani; e perfino dei critici letterari o teatrali e degli esponenti della cultura accademica, nell’ambito di chi pratica gli studi superiori e universitari. Una ragazza che tiene in conto la propria purezza, viene derisa, anche crudelmente, dalle compagne, persino molestata; e un fidanzato che vuol "rispettare" la sua ragazza diventa lo zimbello dei coetanei. Un professore di università, da parte sua, non trova nulla di strano davanti al desiderio di uno studente di preparare una tesi di laurea su Genet, o Fassbinder, o Sade, o sul teatro della crudeltà, o sullo sberleffo atroce dei surrealisti, o sul sadismo di un Mirbeau, ma vi sono molte probabilità di vederlo storcere il naso se gli si parla di autori buoni, che hanno solo insegnato e perseguito la virtù: Giuseppe Fanciulli, per esempio, o Domenico Giuliotti, o Bonaventura Tecchi, o Nicola Lisi. Roba noiosa, da sbadiglio; merce fuori moda. Ma perché, caro lei, vuol fare una tesi proprio su costoro? Allo stesso modo, e parliamo per esperienza di cose viste e vissute, i bravi professori cattolici di sinistra gongolano se si può fare il panegirico di don Lorenzo Milani o di qualche altro prete, che essi amano rappresentare come "scomodo" e "ribelle", mentre è stato, poniamo, semplicemente discutibile e poco cristiano, e, qualche volta, squallido; lo tira fuori a proposito e a sproposito, ne celebra la genialità pedagogica e le preclare qualità pastorali; ma non fa certo i salti di gioia se gli si propone una tesi su san Giovanni Bosco, o su san Giuseppe Cafasso, che pure hanno fatto del bene, sul terreno sociale, mille volte più di quegli altri. E perché? Perché erano troppo ligi alla dottrina, troppo fedeli al vero Vangelo, insomma non abbastanza ribelli, non abbastanza "contro" qualcosa o qualcuno. Se almeno vi fosse stata in loro qualche piccola ombra, qualche sospetto di eresia, che so, alla Rosmini: se almeno avessero detto peste e corna, qualche volta, della Chiesa. Invece no: sempre obbedienti e fedeli, sempre amorevoli verso di essa, pur nella coscienza dei suoi difetti e delle colpe di alcuni suoi membri. Insomma, armi inutilizzabili per essere brandite contro la Chiesa e contro l’idea della virtù: che i bravi cattolici di sinistra, non potendola biasimare apertamente, perché ciò sarebbe troppo palesemente incompatibile con la Parola di Gesù, la sminuiscono e la denigrano, definendola "virtù borghese", con lo stesso linguaggio dei marxisti di trenta o quarant’anni fa: come se esortare a non mentire, non rubare, non ammazzare, fosse espressione di una "virtù borghese" e non della virtù umana, puramente e semplicemente.
Nessuna ripresa di ordine morale sarà possibile se non torneremo a parlare ai giovani della virtù e, soprattutto, se non torneremo a darne loro l’esempio. Fino a quando i genitori mostreranno, con i loro comportamenti ed il loro stile di vita, di disprezzare il bene, la fedeltà, l’onestà, la sobrietà, il pudore, la rettitudine, il senso dell’onore e il rispetto di sé, oltre che degli altri, e la loro propensione ad inseguire le passioni più disordinate, non esiste la benché minima speranza che la nostra società possa uscire dalla grave crisi spirituale nella quale si dibatte da tempo, e in cui pare destinata a sprofondare. Non vi è più degna eredità, che un genitore possa lasciare ai suoi figli, che l’amore e la pratica della virtù, e l’odio per il male e il peccato. E non vi è poema pedagogico che possa superare l’esempio vivente di un genitore che sbaglia, che scivola fuori dalla retta via, ma poi se ne pente, e lo dichiara apertamente e cerca di rimediare, riconoscendo con lealtà il proprio fallo. Quanto alla Chiesa, è chiaro ed evidente che essa deve riformarsi in maniera radicale sul piano morale, oltre che su quello dottrinale, se vuole uscire dal punto morto in cui si è cacciata, a forza di parlare sempre dell’uomo, dei suoi diritti, delle sue aspettative, dei suoi bisogni, e sempre meno, o addirittura mai, dei suoi doveri verso Dio: le due cose, la morale e la dottrina, vanno di pari passo, perché un buon pastore d’anime è un uomo pio e misericordioso, ma è anche un intransigente innamorato della verità e dell’ordine voluto da Dio. Perciò un vero pastore d’anime non potrà mai accondiscende ai vizi e alle turpitudini del mondo: vorrà piacere solo a Dio, anche a costo di dispiacere agli uomini; anzi, è necessario che dispiaccia al mondo, perché il mondo, specialmente oggi, è sotto il potere del diavolo, e nessuno può servire due padroni. Perciò bisogna scegliere: non è più tempo d’indugiare…
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