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4 Febbraio 2018I gesuiti si sono impadroniti con estrema spregiudicatezza della Chiesa cattolica e l’hanno trascinata a viva forza in piena eresia modernista; ma loro, i gesuiti, quando hanno cominciato a diventare modernisti? Con Teilhard de Chardin? Con Karl Rahner? Con Pedro Arrupe? Quando si sono trasformati, da truppe scelte del papa e difensori a oltranza dell’ortodossia, in punte avanzate dell’eresia e artefici dell’apostasia pianificata e generalizzata? E quando hanno concepito il disegno inaudito d’impadronirsi della cattedra di san Pietro, loro che, per statuto, non possono diventare papi, né vescovi? Chi li ha "illuminati" nelle vie dell’eresia, chi li ha spinti fuori strada: i teologi della liberazione? O Dossetti e la scuola di Bologna? O l’esempio di don Milani e della disobbedienza che è diventata una virtù per ogni parroco di campagna, specie se coniugata in senso politicamente corretto, progressista, papuerista e neomarxista? Domande difficili. E allora proviamo a partire dai fatti concreti, anche da quelli in apparenza più umili; andiamo a cercarli, a scovarli come fanno i cani da tartufi, con la loro pazienza e perseveranza, e lasciamo stare, per intanto, le ipotesi di portata generale, più o meno imbevute di dietrologia e teorie del complotto.
Ci siamo imbattuti in uno scritto, oltretutto anonimo, de La Civiltà Cattolica, datato 4 settembre 1943, che ci è sembrato simile alla luce di un lampo che si accende nel buio della notte e rischiara, per un attimo, un paesaggio altrimenti invisibile. La data parrebbe non sospetta: il 1943, in pieno secondo conflitto mondiale: chi andrebbe a pensare che la deriva modernista dei gesuiti fosse già nell’aria a quell’epoca? Molto prima della "guerra fredda", addirittura alla vigilia della guerra civile italiana? Il fascismo era appena caduto e il Concordato fra Mussolini e Pio XI era ancora relativamente fresco d’inchiostro; di opzione preferenziale per i poveri, nemmeno il più pallido presentimento (magari perché i poveri, la vera Chiesa di Cristo, li ha sempre amati, senza tanto sbandierarlo); e al Concilio mancavano circa vent’anni. Eppure… Eppure, nel DNA della Compagnia di Gesù era forse già in atto l’inizio di un processo misterioso, profondo, dapprima quasi impercettibile: una vera e propria mutazione genetica. I gesuiti avevano già incubato la malattia del modernismo, la smania della secolarizzazione, l’ambizione di portare il mondo nella Chiesa anziché la Chiesa nel mondo. Non tutti, beninteso; anzi, solo pochissimi; e perfino quei pochissimi, probabilmente, non del tutto consapevoli della strada che si accingevano ad imboccare. Del resto, quella strada, forse, l’avevano già imboccata molto, ma molto tempo prima: forse al tempo di Matteo Ricci e della questione dei riti cinesi (e dei riti malabarici); forse al tempo delle reducciones del Paraguay. Insomma, forse fin dal XVII e del XVIII secolo, allorché, evangelizzando terre lontane, avevano cominciato a insuperbire – come Ordine, non come singoli individui -, a considerare quelle zone come cosa loro, di loro esclusiva competenza, nonché come laboratori nei quali sperimentare audaci e quasi spericolate forme d’inculturazione, le quali, non a caso, alla fine vennero condannate dai pontefici romani. Comunque, già allora si sentivano abbastanza forti e abbastanza "più avanti" degli altri cattolici, da pensare, per conto loro, che bisognava cambiare radicalmente i metodi di evangelizzazione per conquistare il mondo, ma andando il più possibile incontro al mondo; e senza permettere ad alcuno di ficcare il naso in quel che andavano facendo in quei laboratori. E quel che sta succedendo oggi in Cina, dove il papa gesuita si accinge a riconoscere la falsa chiesa controllata dal governo comunista, e a gettare a mare la vera chiesa cattolica cinese che, finora, ha resistito a mille persecuzioni per restare fedele a Roma, potrebbe esserne la conferma.
Dunque: nel momento più grave, per l’Italia, della Seconda guerra mondiale, con la Sicilia conquistata e quando già l’armistizio con gli Alleati è stato firmato in gran segreto dal generale Castellano, ma non ancora reso pubblico, un ignoto gesuita de La Civiltà Cattolica se la prende, con toni aspri, impietosi, addirittura spietati, con un mite scrittore cattolico, Nicola Lisi (Scarperia, 1893-Firenze, 1975), e con il suo ancor più mite romanzo Diario di un parroco di campagna, uscito nel 1942, che richiama, nel titolo, il celebre romanzo di Georges Bernanos del 1936, ma differisce molto, come stile e come contenuto, dal modello francese. Non è questa la sede per soffermarci sulle qualità artistiche e letterarie dell’opera di Lisi, né sul confronto con il romanzo di Bernanos, anche se diamo per acquisito che il giudizio di certa critica, che vede nel secondo l’espressione di un cattolicesimo tragico, evangelico, e nel primo quella di un cattolicesimo quasi bucolico, ispirato ai Fioretti di san Francesco, è sicuramente inadeguata, mal posta e, perciò, del tutto fuorviante (cfr., per una inquadratura generale, il nostro vecchio articolo: Una pagina al giorno: l’agnellino azzurro di Nicola Lisi, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 28/07/2008). In questa sede, quel che ci preme evidenziare è che Lisi, scrittore toscano che visse sempre appartato e che sempre evitò ogni genere di militanza politica, volle interpretare, sin dall’inizio del suo percorso letterario ed umano, un cristianesimo radicale, ma intimo, spirituale, raccolto e quasi schivo, fortemente radicato nella civiltà contadina e profondamente vissuto in un clima di serenità e di meraviglia "francescani", sì, ma non certo di evasione. Lisi era stato fra i primi collaboratori de Il Frontespizio, la principale rivista culturale d’ispirazione cattolica degli anni Trenta, e, prima ancora, con il Calendario dei pensieri e delle pratiche solari, aveva voluto offrire una sponda, insieme a Carlo Betocchi e Piero Bargellini, a quel mondo rurale ancora "sano" ma sempre poco rappresentato dagli scrittori italiani, e, nello stesso tempo, un punto d’incontro fra la società civile e l’autentico, "primitivo" sentimento religioso del popolo.
Oggi, anacronisticamente, potremmo anche catalogare Lisi, certamente suo malgrado, fra gli intellettuali cattolici "tradizionalisti", ma, all’epoca, l’espressione non avrebbe avuto senso: dopo che san Pio X aveva duramente represso l’eresia modernista, e dopo che la Chiesa era venuta a patti con il regime fascista, nessuno si sarebbe sognato di considerare "tradizionalista" un cattolicesimo che ambiva, semplicemente, a vivere il Vangelo nell’intimità della coscienza e lasciare che operi quella trasformazione dell’anima, dalla quale soltanto può scaturire anche una realtà sociale più "giusta". Allora, almeno in teoria, tutti i cattolici la pensavano così, sia pure con sfumature diverse; allora, a quel che risulta, nessuno si sarebbe permesso di considerare tali idee "conservatrici", meno ancora di bollarle come "infantili" e di descriverle, volgendole quasi in parodia, come una fuga nell’idillio, nel disimpegno, addirittura come una scorribanda nella futilità e nella vacuità di un "cristianesimo senza problema". Perché una tale critica sarebbe stata, oltre che alquanto ingenerosa sul piano letterario, del tutto inverosimile sul piano spirituale e religioso: sarebbe potuta nascere solo nel cervello di un cattolico di sinistra, figura sociologica che allora non esisteva, specie dopo che la guerra di Spagna aveva messo in chiaro da che parte stava la Chiesa e da che parte stava la Terza Internazionale, e la loro assoluta incompatibilità, suggellata dal sangue di decine e centinaia di frati, suore e sacerdoti passati per le armi dai repubblicani antifranchisti. E invece, sorpresa!, abbiamo scoperto che un tale cervello esisteva, e sia pure in forme ancora lontane, ovviamente, da quelle che avrebbe assunto negli anni ’60 del Novecento, per esempio nella figura di un Giulio Girardi; in forme pressoché inconsapevoli del proprio cripto-socialismo, e, tuttavia, abbastanza eloquenti in tal senso. Ed era, precisamente, l’anonimo gesuita che, poco dopo la pubblicazione del Diario di un parroco di campagna, prese la penna e la intinse nel veleno, per formulare una stroncatura totale, senza il più piccolo spiraglio di credito per lo scrittore toscano.
Ecco la recensione al Diario di un parroco di campagna, non firmata, pubblicata su La Civiltà Cattolica (vol. III, quaderno 2237, Roma, 4 settembre 1943, p. 365):
È un libro fatto di inezie, che cerca di sostenersi con lo sforzo di un’arte descrittiva paziente e meticolosa, la quale però finisce presto per stancare. Per 246 pagine l’autore fa parlare delle note di un diario – che comprende un triennio classificato in anno del "freddo", dei "pellegrini", dei "fiori" – un attempato parroco di campagna, a cui è venuto in mente di esporre le sue osservazioni e i piccoli avvenimenti, che crede possano giovargli riletti in futuro e riuscire di utilità al suo successore. Potrebbe sembrare indiscreto domandare se veramente i due fini siano raggiungibili dai due ipotetici lettori. Certo il lettore cristiano, che vede nel sacerdote, sia pure parroco della più minuscola parrocchia rurale, il Ministro di Dio e il padre del suo popolo, rimane deluso nel cercare inutilmente in tutte queste note una scintilla di zelo, un sentimento di trepidazione per la salute delle anime affidategli, che dimostri quello spirito di carità e di dedizione, di cui sono ricchi i nostri buoni parroci. Al contrario la figura che si viene delineando in queste pagine, oltre alle tinte formalmente anacronistiche e quasi puerili, accusa una vacuità di spirito ozioso, che si pasce di leziosaggini e di infantili preoccupazioni. La promessa del titolo si risolve in una delusione, che il lettore difficilmente saprà perdonare all’Autore.
Stroncatura totale, impietosa e dettata dalla più becera incomprensione del vero spirito dell’opera, che richiama quella, "laica" e non meno tagliente, del critico letterario e giornalista Gino Raya (G. Raya, Il romanzo, Milano, Vallardi editore, 1950, p. 345): Il diario di un parroco di Lisi rappresenta un triennio così vuoto, tanto per quel povero parroco del Mugello, che per noi, che sembra persino ambiziosa l’attesa di un paio di lettori da parte di Lisi. Ora, che un critico letterario superficiale e distratto non abbia minimamente saputo cogliere la profondità del libro di Nicola Lisi, nascosta allo sguardo grossolano dietro un velo di apparente semplicità e quasi d’infantilismo, passi; ma che i gesuiti de La Civiltà Cattolica, nel momento in cui l’Italia intera andava in pezzi (si faccia attenzione alla data: 4 settembre del 1943!) non abbiano saputo far di meglio che sparare a zero contro un romanzo cattolico che, pur scritto da un laico, rivela un maggiore spirito religioso e una più alta coscienza della missione di un vero ministro di Dio, di quanti se ne possano trovare in molta dotta pastorale ecclesiastica, allora come oggi, questa è una cosa meno ovvia e scontata, e che merita, perciò, qualche ulteriore riflessione. Crediamo che un gesuita come Pedro Arrupe, negli anni ’70 e ’80 del Novecento, cioè trenta o quarant’anni dopo la pubblicazione del Diario di un parroco di campagna (che, fra parentesi, fu accolto benissimo dal pubblico, smentendo il fosco ed astioso pronostico del Raya) non avrebbe potuto esprimersi, nella sostanza, in maniera più dura e categorica, e partendo da presupposti ideologici più squisitamente modernisti, di quel che seppe fare l’anonimo estensore della recensione. Giungiamo così all’inattesa conclusione che, in piena Seconda guerra mondiale, quando ancora nessuno poteva dire con assoluta certezza come sarebbe andata a finire la partita in corso per il potere planetario, nel seno della Compagnia di Gesù fermentavano già le tendenze progressiste, moderniste e di sinistra che sarebbero poi "esplose" sotto il pontificato di Giovanni Paolo II e che, trattenute a stento, si sarebbero prese la rivincita definitiva con le strane dimissioni di Benedetto XVI e l’elezione del gesuita Jorge Mario Bergoglio, colui che ha espresso fin dai primi giorni l’inaudita pretesa di "cambiare la Chiesa".
Ripetiamo: non c’interessa, in questa sede, insistere nella difesa del romanzo di Nicola Lisi dal punto di vista artistico. Ci preme evidenziare come sia un libro di profonda, sentita spiritualità: un libro nel quale il cristianesimo, non che assumere forme infantili, si colora dello stupore dell’anima davanti al mistero del modo, di chi vede la Rivelazione di Dio anche nelle piccole cose quotidiane. In altre parole, Dio si rivela agli uomini nella straordinarietà di ciò che è ordinario; perché, se per il giovane curato di Bernanos tutto è grazia, per l’anziano don Antonio, il parroco del Mugello di Nicola Lisi, tutto è meraviglia di Dio. E che un libro del genere, in quel momento storico, abbia attirato gli strali velenosi dei gesuiti, ci pare altamente significativo. Ciò sta a indicare, secondo noi, che qualcosa stava succedendo, fin d’allora, all’interno del più potente ordine religioso della Chiesa cattolica; qualcosa che solo in seguito sarebbe parzialmente emerso, e solo oggi si rivela in piena luce. Una sorta d’irrequietezza, forse di superbia intellettuale; una scontentezza per la tradizione, quasi un fastidio verso un cattolicesimo tradizionale, visto, improvvisamente, non come un tesoro prezioso da serbare, ma come un’eredità quasi imbarazzante, che deve essere superata ed archiviata. Noi vogliamo ben altro, sembra dire l’ignoto recensore; questo cattolicesimo "da cartolina" non ci basta più. Par di vedere, in filigrana, parole e gesti della neochiesa dei gesuiti come Sosa Abascal…
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