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Come un medico di campagna scoprì l’iguanodonte

Un medico di campagna può essere anche un brillante geologo e paleontologo dilettate, e i resti fossili di un dinosauro del tutto sconosciuto alla scienza possono emergere dal terreno non solo nei deserti caldi come il Sahara o nei deserti freddi come il Gobi, ma anche in un dolce paesaggio europeo, caratterizzato da amene colline boscose e disseminato di case e villaggi, magari a pochi chilometri da una gigantesca metropoli moderna, come era Londra già nel primo quarto del XIX secolo, dopo la fine delle guerre napoleoniche.

Questo è quanto si ricava dalla vicenda del medico inglese Gideon Mantell (Lewell, East Sussex, 3 febbraio 1790-Londra, 10 novembre 1852), un uomo appassionato, tenace e intelligente, che, come molti altri personaggi che hanno dato un contributo rilevante al progresso delle conoscenze scientifiche, poiché non era ricco di famiglia, doveva dedicarsi alla sua attività di ricerca a margine della sua professione ufficiale, in pratica sfruttando i ritagli di tempo, cosa che rende ancor più meritori i suoi sforzi e la sua brillante scoperta. Ed è un tocco gentile, di sapore romantico, il fatto che la sola persona su cui egli poteva contare come collaboratrice fosse sua moglie, sposata nel 1816, Mary Ann Woodhouse, la figlia ventenne di uno dei suoi pazienti: una donna intelligente e dotata di senso artistico, in virtù del quale si assunse il compito di disegnare le illustrazioni per il libro che Mantell, dopo molti anni di ricerche e di studio, licenziò alle stampe, nel 1822, presentando al pubblico l’insieme dei fossili da lui ritrovati nelle campagne e fra le amene colline dell’Inghilterra meridionale.

La scoperta dell’iguana è stata narrata, come in un romanzo, da un ottimo divulgatore scientifico italiano di qualche decennio fa, Guido Ruggieri, autore di libri destinati a un pubblico giovanile, ma, in realtà, molto validi anche per un lettore adulto. Pur essendo principalmente un astrofilo, che si era specializzato nella cartografia lunare e in quella marziana, aveva anche forti interessi per le scienze della Terra e possedeva la virtù di saper coniugare il rigore e l’esattezza scientifica con uno stile piano e scorrevole che intrigava anche il non specialista e lo catturava sin dalle prime pagine dei suoi libri, editi di Mondadori e corredati da bellissime illustrazioni, fra i quali ricordiamo: Le meraviglie del cielo, del 1967, La Terra prima di Adamo e La scoperta del pianeta Marte, entrambi del 1971; Storia della geologia. Dall’Atlantide alla Pangea, del 1976; L’avventura dei dinosauri, del 1977, dai quali, probabilmente un’intera generazione di giovani aspiranti naturalisti ha tratto ispirazione per scoprire e orientare i suoi futuri interessi professionali.

Ecco come Guido Ruggieri ha narrato l’episodio in una limpida pagina di prosa di divulgazione scientifica (da: G. Ruggieri, La scoperta dei fossili. Il romanzo della paleontologia, 1976, L’avventura dei dinosauri, del 1977 Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1975, pp.80-82):

La vicenda dei dinosauri ebbe inizio nel 1822 nella contea del Sussex, in Inghilterra in una regione di dolci colline non lungi dalla Manica ed esattamene a sud di Londra. Non ci sono laggiù distese desertiche dove si posano scorgere affioramenti di ossami preistorici ma colli boscosi, prati verdissimi, ville, castelli e quiete cittadine dalle piccole case strette intorno alle antiche chiese gotiche. Il paesaggio sereno, punteggiato dalla sommità degli acuiti campanili, è quanto di più lontano si possa immaginare da un luogo adatto a scavare grandi rettili Eppure fu proprio lì che i dinosauri cominciarono a rivelare il loro mondo scomparso.

In tempi estremamente remoti, oltre 100 milioni d’anni fa, nel Cretaceo inferiore, l’Inghilterra meridionale era attraversata da un grande delta. C’erano nella regione fiumi, lagune, paludi, e vi ferveva una vita intensa in un ambiente tropicale. Le acque tiepide pullulavano di coccodrilli e tartarughe, nell’aria volavano spettrali pterosauri, e sulle isole e sulle terre si movevano dinosauri d’ogni forma e dimensione. Si formarono allora spessi depositi di argille e di arenarie che contengono una ricca documentazione fossile di quei tempi perduti, e che prendono il none di "formazione Wealdiana". Più tardi, nel Cretaceo superiore, il mare inghiottì il grande delta e depositò sui suoi fanghi dimenticati un’imponente serie di strati calcarei contenenti solo avanzi di creature marine; tuttavia, in varie parti dell’Inghilterra, affiorano ora in superficie le antiche rocce del Wealdiano che nascondono ossa di animali straordinari.

Da quegli strati uscì il primo reperto di un animale destinato a diventare famoso, l’iguanodonte; e ciò per l’interesse ai fossili di un medico e di sua moglie. Il medico si chiamava Gideon Mantell e risiedeva a Lewes, una piccola città situata fra le alture dei South Downs, a una decina di chilometri dal famoso centro balneare di Brighton. Vi era nato nel 1790 e vi era sempre vissuto, dedicandosi, oltre alla professione, all’appassionato studio della geologia e paleontologia della zona. Ai primi del 1822 egli stava raccogliendo i risultati di molti anni di lavoro in una pubblicazione dal titolo "The Fossils of the South Downs" ("I Fossili dei South Downs"), aiutato in ciò dalla moglie che gli disegnava le tavole dell’opera. […]

L’incontro col dinosauro avvenne in modo quasi inavvertito. In un chiaro mattino di primavera Mantell si recò a visitare un suo paziente nel distretto di Cuckfield , un’altra cittadina del Sussex a circa venti chilometri a nord-ovest di Lewes; e, per la bellezza del tempo, portò con sé la moglie in calesse. Durante la visita, la signora Mantell si trattenne fuori e, quasi per gioco, rovistò in un cumulo di pietre che era stato posto a lato della strada per riparare il selciato, sconnesso dall’inverno. Le accadde così di trovarsi fra le mani dei frammenti in cui erano incastrati degli oggetti bruni e lucidi che si rivelarono subito per denti fossili. Erano però, a quanto sembrava, dei denti strani e inconsueti.

Quando il medico uscì dall’abitazione del paziente, la moglie gli mostrò gli strani reperti; e Mantell rimase colpito e sorpreso. Egli conosceva bene la roccia su cui erano impiantati, una durissima arenaria color arancione diffusa nella zona di Cuckfield, in quella serie che oggi è chiamata wealdiana. Egli sapeva altresì, che le arenarie ferruginose del Sussex s’erano depositate in un’età in cui dominavano rettili, non mammiferi; anzi, secondo quel che si credeva allora, in un’epoca in cui non c’erano mammiferi. Eppure quei denti, per la loro struttura, sembravano aver appartenuto a un grosso mammifero erbivoro, forse un rinoceronte o un animale analogo. C’era, in ciò, qualcosa di nuovo e di sconcertante; e Mantell lo comprese chiaramente. Egli provò allora la sottile, esaltante sensazione di trovarsi di fronte a un’autentica scoperta, forse una grande scoperta.

Tornato a Lewes, Mantell si affrettò a includere nella sua opera sui fossili (che sarebbe stata stampata poco dopo a Londra, in maggio) la descrizione e la figura dei denti, senza pronunciarsi sul loro conto e dichiarando di averli trovati sul bordo della strada. Intanto il loro enigma lo stava assillando; enigma complicato dal fatto che, pochissimo tempo prima, egli aveva trovato, nella stessa arenaria portatrice dei denti, alcune ossa provenienti sicuramente da un rettile ma straordinariamente grandi e robuste. Ora gli si affacciava alla mente una possibilità; ed era che i denti, anche se non sembravano di rettile, fossero in diretta relazione col proprietario delle ossa. Mantell fantasticò sul misterioso, gigantesco essere che avrebbe dovuto, stranamente, unire caratteri di rettile e di mammifero; e sentì che quella fantasia si radicava in lui, quasi fosse un’intima certezza. Decise allora di trovare altre ossa ed altri denti per dar figura a quei fantasmi del lontano passato.

Per prima cosa, Mantell compì un sopralluogo alla cava di arenaria dove aveva trovato le ossa dell’animale e parlò con i cavatori, sia lì, presso Cuckfield, che in altre cave della zona, mostrando loro i suoi denti, ma non ottenne alcun riscontro: nessuno di quegli uomini aveva mai visto niente del genere, benché tutti, per via del loro lavoro, avessero acquisito una notevole dimestichezza con vari tipi di fossili. Anzi, mostrarono un vivo stupore per l’aspetto insolito di quei reperti, simili a dei denti di iguana, e aggiunsero che non avrebbero creduto alla loro esistenza se non li avessero avuti, così, sotto gli occhi. Anche la ricerca di altri denti si rivelò del tutto infruttuosa. La faccenda si faceva sempre più oscura; Mantell, però, possedeva un temperamento simile a quello di un cane da presa e, una volta fiutata la pista, non si sarebbe lasciato sviare facilmente, né scoraggiare dalle difficoltà o dalle incomprensioni.

La mossa successiva fu quella di recarsi a una riunione della Società geologica, a Londra, per mostrare agli esperi i suoi "tesori". Di nuovo, tuttavia, andò incontro a una fiera delusione. I pareri furono quanto mai discordi: molti attribuirono quei denti ad un grosso mammifero e qualcuno arrivò persino ad attribuirli a un pesce; nessuno, però, fra i depositari di cotanto senno, mostrò di aver neanche lontanamente intuito il grandissimo valore che essi rivestivano per la paleontologia. Però ci voleva altro per "smontare" un tipo ostinato come Mantell; il quale, essendo amico del celebre geologo Charles Lyell, il futuro autore dei fondamentali Principles of Geology (che avrebbero visto la luce nel 1830), il quale, essendo amico, a sua volta, dell’ancor più famoso biologo Georges Cuvier, ed essendo in partenza per Parigi, portò con sé i denti e li fece esaminare dal collega francese (su Lyell, cfr. il nostri articolo: Attualismo geologico contro catastrofismo: una mancata lezione di umiltà per gli scienziati, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 21/09/2012; vedi anche: Sola, sulle scogliere battute dal mare, una ragazzina dodicenne scopre interi fossili di dinosauro, sempre su Arianna, il 18/08/2008, e Quando ippopotami e leoni delle caverne passeggiavano in Trafalfgar Square, pubblicato sul sito della Accademia Nuova Italia il 20/11/2017). Al suo ritorno, però, Lyell riferì a Mantell che, a giudizio di Cuvier, si trattava di denti di rinoceronte, che lo scorrere millenario dell’acqua doveva aver portato a depositarsi negli strati di roccia più antichi. Mantell, da parte sua, non poteva essere d’accordo con una simile spiegazione: non già per infantile orgoglio di scopritore, ma perché sapeva bene di aver trovato quei denti saldamente incorporati nell’arenaria, e non soltanto appoggiati su di essa, come sarebbe stato se a trasportarli fosse stata l’acqua. A suo modo, anche le scienze naturali sono scienze esatte: è possibile, anzi, quasi inevitabile un certo grado di approssimazione, ma sempre nel rispetto dei parametri fondamentali e, soprattutto, mai contraddicendo l’evidenza della logica: altro è un fossile incastrato in una roccia, altro è un fossile depositato sopra di essa.

Mantell, pertanto, fece l’unica cosa che poteva fare: tornò alla cava di Cuckfield, scavò ancora, e, finalmente, i suoi sforzi vennero premiati: anche se non trovò altri denti, portò tuttavia alla luce delle ossa di un animale di grandi dimensioni, precisamente le ossa di una zampa, che egli attribuì alla medesima creatura cui erano appartenuti i denti. Di nuovo fece pervenire il tutto a Cuvier; e, per la seconda volta, il grande luminare di fama internazionale fece fiasco, laddove lo sconosciuto medico di campagna aveva visto giusto: attribuì quei resti alla zampa di un ippopotamo. Instancabile, Mantell ricominciò a scavare, sempre nella cava di Cuckfield, e stavolta portò alla luce un reperto aguzzo, che i paleontologi interpellati qualificarono come il corno minore di un rinoceronte africano. Insomma, nessuno era disposto a riconoscere l’estrema antichità di quei resti e, soprattutto, ad ammettere che appartenevano tutti alla stessa creatura: un animale vissuto non centinaia o migliaia, ma milioni di anni prima dell’uomo. Mantell seguitò a scavare, ma non trovò più nulla di interessante; allora raccolse tutti i suoi reperti, più che mai convinto che fossero parti di una sola creatura, di un rettile ancora sconosciuto, e si recò al Collegio dei Chirurghi di Londra, passando in rassegna il ricchissimo materiale esistente, centinaia di campioni di denti di rettili di tutte le specie e di tutte le latitudini. Sentiva, istintivamente, di essere nel giusto, e che la sua teoria era valida; ma, naturalmente, una teoria scientifica è destinata a rimanere tale, cioè nient’altro che una semplice ipoetesi, fino a quando non viene confermata da precisi dati di fatto, verificabili e controllabili.

Ci piace concludere la rievocazione di questa fortunosa scoperta, tornando alle pagine di Guido Ruggieri, dotate di humour e di senso del pathos al tempo stesso (Op. cit., pp. 82-84):

Aiutato dal curatore del museo, Mantell passò uno dopo l’altro i cassetti contenenti denti ed ossa di rettili, facendo confronti su confronti col suo materiale. Non trovò nulla. Si sentì pieno d’amarezza e pensò che le sue ricerche erano giunte a un vicolo cieco. Ripose i suoi fossili, si avviò all’uscita accompagnato dal curatore e fu per salutarlo quando gli si accostò un giovane studioso, certo Samuel Stutchbury, che si trovava in quei giorni al museo e che, incuriosito, chiese di vedere i denti. Il medico glieli mostrò e l’altro, dopo averli esaminati un momento, disse che somigliavano moltissimo a quelli di una grossa lucertola, un’iguana dell’America centrale, che egli aveva appena finito di montare. Fu come una folgorazione! Mantell corse, letteralmente, insieme al curatore, al laboratorio doveva aveva lavorato Stutchbury e dove campeggiava il grosso sauro, guardò le mascelle dell’animale e, immediatamente, non ebbe più dubbi: i denti che egli possedeva erano di un’iguana gigantesca.

La battaglia era vinta! Quando il medico di Lewes uscì dal Collegio sulla vasta piazza di Lincoln’s Inn Fields, e ne attraversò i giardini, le tenui tinte del cielo di Londra gli parvero più accese e le facciate dei palazzi intorno come schiarite. E, mentre egli camminava, la scoperta prendeva forma nel suo intimo, esaltante. Tutto andava a posto: la grandezza delle ossa ritrovate, la robustezza dei piedi che avevano dovuto sostenere un peso enorme, perfino il corno perché molti rettili portano sul muso, o sulla testa, delle escrescenze a forma di corna. L’essere gigantesco s’era finalmente rivelato ed egli ne immaginava già il nome: l’avrebbe chiamato"Iguanodon", ossia "dai denti d’iguana".

Il genere Iguanodon, infatti, venne istituito nel 1825 e ricevette il nome dal suo tenace scopritore, Gideon Mantell: era, in assoluto, uno dei primi dinosauri ad essere scoperti e ciò aiuta a spiegare le incomprensioni che il medico dovette affrontare, e le attribuzioni erronee e, forse, frettolose, da parte degli esperti da lui interpellati. D’altra parte, questa vicenda ribadisce un aspetto caratteristico della ricerca scientifica: la grande maggioranza degli scienziati si muove sempre all’interno del paradigma al momento stabilito, e solo pochi hanno la fantasia e l’audacia concettuale di spingersi oltre, prendendo in considerazione, per spiegare dei fenomeni naturali altrimenti misteriosi, anche delle possibilità che esulano dal paradigma stesso. Al principio degli anni ’20 dell’Ottocento, i geologi e i paleontologi sapevano che l’Inghilterra meridionale era stata parte del delta di un grande fiume tropicale, e quindi essi potevano benissimo ammettere che ippopotami e rinoceronti vi avessero pascolato; ma immaginare un bestione come quello teorizzato da Mantell, e, soprattutto, così immensamente antico, era un altro paio di maniche. Per ammettere una simile eventualità, anche solo come ipotesi di lavoro, ci voleva davvero molta indipendenza di giudizio. E in effetti, con i suoi dieci metri di lunghezza complessiva, dal capo alla coda (e forse anche due o tre metri in più, negli esemplari più grossi) e le sue tre tonnellate e mezzo di peso, quintale più, quintale meno, l’iguanodonte è un colosso erbivoro che, prima della coraggiosa intuizione di Mantell, i biologi e gli stessi paleontologi avrebbero fatto molta fatica a immaginare…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Vidar Nordli-Mathisen su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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