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23 Gennaio 2018Guardiamoci allo specchio: sappiamo ancora riconoscerci? Sappiamo ancora vedere e riconoscere noi stessi in quel volto, in quello sguardo, in quella espressione? La nostra generazione, la nostra società sarebbero ancora capaci di percepire se stesse, nella loro identità, nella loro continuità, oppure siamo già arrivati al punto che non ne sarebbero capaci, e che in quei volti, vedrebbero solo dei volti di estranei, lontani, indifferenti o incomprensibili? Se è così, allora è la fine: perché solo chi sa riconoscersi allo specchio, solo chi sa ricapitolare la propria vita, i propri valori, le proprie esperienze nella sintesi fra il passato e il presente, fra ciò che egli è stato e ciò che ora è divenuto, può dirsi ancora una persona viva. Gli altri, che non ne sono capaci, è come se fossero morti. Perdere la propria immagine è come perdere la propria ombra: significa votarsi al nulla, essere preda del nulla, vivere una vita di ombra fra le ombre, impalpabile, inconsistente, insignificante. Noi non possiamo vivere solo nel presente: sarebbe come rinunciare alla nostra anima, spogliarci di tutto quel che fa di noi quello che siamo, cioè della nostra essenza. Siamo esseri storici, perché viviamo nella storia; e siamo esseri naturali, perché siamo parte della natura; ma siamo anche, e soprattutto, esseri spirituali, perché siamo capaci di riflettere e di agire tanto sulla natura, quanto sulla storia. Se ci identifichiamo solo con la storia presente e con la natura presente, scompariamo. Eppure è quel che facciamo quando ci identifichiamo, banalmente, con l’ultimo grido dei tempi, con le ultime novità mondiali, con i più recenti ritrovati della tecnica, dell’arte, del pensiero; ed è quel che facciamo anche quando non accettiamo il trascorrere del tempo e ingaggiamo una folle e patetica battaglia di retroguardia per fingere di non invecchiare, per dimenticare che i nostri passi mortali sono diretti verso la soglia della morte.
Dunque, per essere vivi e ben coscienti, bisogna sapersi riconoscere, ad ogni momento, nello specchio della propria vita: saper dare un nome a ogni ruga, a ogni segno che lo scorrere del tempo e l’accumularsi delle esperienze ha scolpito sulla nostra anima e che si è riflesso nel nostro viso e nel nostro corpo. Noi non apparteniamo a noi stessi, a un misterioso e inafferrabile "io" che non è mai qui, del tutto presente, ma alla nostra storia e alla nostra evoluzione; e apparteniamo, ancor di più, alla storia della grazia che, a un dato momento, è scesa su di noi, e ha operato in noi la parte migliore della nostra umana vicenda; oppure è la storia della grazia che noi abbiamo rifiutata, sia consapevolmente e deliberatamente, sia scioccamente e inconsapevolmente, così, perché eravamo troppo assorbiti dalle piccole cose di quaggiù, troppo invischiati nell’effimero, troppo sedotti dal contingente. Dalla sintesi di queste due storie — la storia soprannaturale della grazia che ha operato in noi, e la storia terrena che ci ha sospinti sulle strade del mondo — deriva il nostro presente, il nostro attuale orizzonte di vita e di speranza. È un orizzonte ampio e luminoso per coloro i quali hanno saputo riconoscere il dono della grazie e l’hanno fatto fruttificare, facendosi docili strumenti della volontà e dell’amore di Dio; è limitato ed incerto per tutti coloro i quali non hanno mai riconosciuto quel dono, oppure l’hanno respinto con rabbia, con superbia, nella dissennata pretesa di affermare se stessi al posto di Dio, di far di se stessi il proprio dio. E quanto più l’orizzonte di speranza si restringe, tanto più rimpicciolisce e immeschinisce la nostra vita, tanto più essa diviene simile a uno stanco ed inutile pellegrinaggio verso il nulla. La morte è il nulla per chi non ha speranza; e noi, se vogliamo essere uomini di speranza, dobbiamo aver sempre ben chiaro che la morte è solo il principio dell’eternità. Come dice san Paolo nella Prima lettera ai Tessalonicesi (4, 13-24):
Fratelli, voglio che siate ben istruiti su ciò che riguarda i morti: non dovete continuare a essere tristi come gli altri, come quelli che non hanno nessuna speranza. Noi crediamo che Gesù è morto e poi è risuscitato. Allo steso modo crediamo che Dio riporterà alla vita, insieme con Gesù, quelli che sono morti credendo in lui.
Chi vive ignorando o disprezzando il proprio passato, è un barbaro, anzi, il peggiore dei barbari, perché non ha e non avrà mai una vera consapevolezza di sé, e cercherà fuori di sé una struttura alla quale adattarsi, una forma nella quale colare il proprio stampo. La vita va vissuta procedendo, ma, al tempo stesso, ricordando: procedere ricordando, come insegna Kierkegaard ne La ripresa. Non si può solo ricordare, ma non si può nemmeno solo avanzare alla cieca. L’orizzonte di speranza di chi non sa nulla e non ricorda nulla è sempre ristretto, ma è vasto quello di chi procede portando con sé, tutta intera, la coscienza di se stesso, della propria storia, e anche della storia nella quale si è plasmato, e alla quale appartiene. Ogni uomo, inoltre, appartiene anche all’assoluto, perciò il suo ricordare non deve mai limitarsi all’ambito del finito; c’è dell’altro che si deve ricordare, e cioè la propria cittadinanza celeste. In qualche piega del nostro essere, vi è l’oscura nostalgia di un’altra patria, di un altro mondo, al quale apparteniamo veramente, intimamente, assai più che a questo, fatto di cose labili e contingenti, che ci sfuggono come sabbia fra le dita ogni volta che cerchiamo di afferrarle. Vi sono uomini che ricordano e altri che non ricordano; chi non ricorda, vive la vita come in un sonno; chi ricorda, sa dove sono diretti i suoi passi e quale sia la maniera giusta per affrontare questo viaggio terreno. Coloro i quali ricordano, sanno anche guardarsi allo specchio e riconoscersi: perché vedono l’immagine di sé non solo come appare materialmente e oggettivamente, ma sanno anche cogliervi quella nostalgia dell’infinto che vivifica lo sguardo e vi accende una luce che invano si cercherebbe nello sguardo degli altri, di coloro i quali non ricordano e che pensano di essere qui per caso, di venire dal nulla e di ritornare al nulla: senza alcuna speranza, come dice San Paolo. In questo senso, l’uomo è quel che sente di essere e quel che desidera essere: e chi non sente d’essere nient’altro che un animale venuto dal caso e privo di un suo posto nel mondo; chi crede solo all’esistenza delle cose materiali, ed è convinto di recare offesa alla propria intelligenza ammettendo che la morte possa anche essere una porta, dopotutto, come ha sempre ha pensato gran parte dell’umanità, è come se fosse già morto, e dalla sua vita presente emana il cattivo odore di un cadavere in disfacimento.
D’altra parte, se è importante apersi guardare allo specchio e riconoscersi, è altrettanto importante sapere che lo specchio non ci rimanda l’immagine fedele della realtà, ma una realtà in qualche modo deformata. Noi non sapremo mai come siamo in realtà, finché ci specchiamo nella dimensione materiale; la dimensione materiale di per se stessa fa ombra alle cose, le deforma, le fa apparire più vicine o più lontane, più grandi o più piccole, più luminose o più oscure di quel che sono. L’unico specchio che non inganna mai, che ci rimanda fedelmente la nostra propria immagine, è Dio: ma per poter volgere lo sguardo nel suo specchio, è necessario essere in grazia di Lui, e aver sgombrato la propria anima dal fardello della concupiscenza, dall’attrazione grossolana verso le cose di quaggiù. Noi siamo nel mondo, ma non siamo del mondo; non se abbiamo scelto Gesù Cristo, non se abbiamo deciso di fare la sua volontà. Lo specchio in cui ci specchiamo non sarà mai limpido e terso, fino a quando su di esso andranno a depositarsi tutte le scorie delle nostre passioni disordinate, che c’impediscono di liberare l’anima dal giogo di questo mondo di tenebre e ci fanno volare basso, tenendo lo sguardo rivolto alla terra. Ma se ci spogliamo dell’uomo vecchio che abita in noi e, operando la conversione a Dio (metanoia), rendiamo possibile la nascita dell’uomo nuovo, allora lo specchio diverrà chiaro, e sarà fedele anche l’immagine di noi che esso ci rimanderà. È ancora una volta san Paolo a chiarire magnificamente questo concetto, con la sua caratteristica nitidezza di parola e con la plasticità delle immagini ch’egli sa evocare, nella Prima lettera ai Corinzi (13, 9-12):
La nostra conoscenza è imperfetta e imperfetta la nostra profezia. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che imperfetto scomparirà. Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma, divenuto uomo, ciò che era da bambino l’ho abbandonato. Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto.
Infatti, lo specchio entro il quale guardiamo le cose, e guardiamo anche noi stessi, è lo sguardo di Dio che si posa su di noi; è in questo senso che noi siamo conosciuti; e quando lo sguardo amorevole di Dio s’incontra con lo sguardo adorante dell’uomo, si realizza pienamente il disegno di Dio: il Creatore che si compiace nella sua creatura prediletta e la creatura la quale, a sua volta, riconosce, ama e glorifica il suo Creatore, lodando in Lui l’Autore di tutto ciò che esiste, e lodando Gesù Cristo quale Incarnazione dell’amore divino e quale tramite necessario per la redenzione dell’umanità. È come se l’Uno e l’altra si corressero incontro per abbracciarsi e per vivificare l’universo con l’ardore soprannaturale del loro sentimento reciproco. Soprannaturale anche da parte dell’uomo: perché se l’uomo può conoscere Dio, fino a un certo punto, con lo strumento della ragione naturale, per arrivare ad amarlo così come Egli deve essere amato, è necessario un dono speciale, la grazia di Dio medesimo: in altre parole, da Dio parte la scintilla luminosa che consente all’uomo di riconoscerlo così come non Lo potrebbe mai conoscere se si servisse unicamente della propria ragione naturale.
Tu non mi cercheresti se non mi avessi già trovato, scrive Pascal nei suoi Pensieri (n. 553); o forse, come è più probabile, e come aveva intuito la mistica Marthe Robin (la testimonianza è del filosofo Jean Guitton): Tu non mi cercheresti se Io non ti avessi già trovato; perché, come fece osservare la donna al suo sbalordito interlocutore, Pascal non poteva aver detto una cosa già evidente di per se stessa, vale a dire una banalità. Non sarebbe stato da Pascal. L’uomo, dunque, trova, conosce ed ama Dio, perché è Dio che trova, conosce ad ama ciascun essere umano. L’uomo non troverebbe Dio da solo, con le sue sole forze; tanto meno lo saprebbe amare così come Dio deve essere amato. Se ciò avviene, è perché Dio ha messo l’uomo in grado di farlo; ma — e qui entra in gioco la libertà dell’uomo — non si tratta di un esiti meccanico e scontato, perché l’uomo può anche rifiutare, non già di essere trovato e conosciuto, ma di essere amato: questo sì, lo può rifiutare. A Dio, infatti, tutto è possibile, tranne una cosa: obbligare l’uomo a ricambiare il Suo amore; e non perché realmente non lo possa, ma perché non lo vuole. Dio vuole che l’uomo sia libero, e questo è il prezzo da pagare per entrambi: anche per Lui: accettare la possibilità di un rifiuto. Da parte Sua, che cosa non h a fatto, perché l’uomo accolga e ricambi l’amore di Lui? Che cosa potrebbe fare di più, Dio, dopo essersi Incarnato ed essere morto e risorto per amore degli uomini; e che cosa potrebbe fare di più che rinnovare quella offerta cruenta, mediante il Sacrificio dell’Eucarestia, ogni volta che un umile prete dice la santa Messa, sia pure davanti a due o tre fedeli, in qualsiasi angolo del mondo? Ogni volta che viene celebrato il mistero dell’Eucarestia, il Verbo Incarnato torna ad offrirsi e a patire per amore degli uomini, in remissione dei loro peccati; si può immaginare un amore più grande, più costante, più smisurato di questo? Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici (Gv 15,13), dice Gesù ai suoi discepoli, durante l’Ultima Cena. Ebbene: il Sacrificio eucaristico è il perpetuo rinnovarsi del mistero di Dio, fattosi uomo, che dà la sua vita per amore degli uomini. È, questo, un pensiero sconvolgente, abissale, tale da far venire le vertigini.
E adesso torniamo alla capacità di guardarsi nello specchio e di saper riconoscere la propria immagine. Noi ci riconosciamo se vediamo in quella immagine il riflesso dell’amore di Dio: perché l’amore di Dio è la vita, come ha detto ancora Gesù Cristo: Io sono la via, la verità e la vita; e l’amore dell’uomo per Lui è la vita che riconosce se stessa. Se siamo arrivati al punto di non riconoscerci più, come troppo spesso accade; se tutta la nostra società è giunta al punto di non riconoscersi più, di non sapere più chi è, da essere divenuta estranea a se stessa, allora ciò significa che abbiamo imboccato la via della morte e non la strada della vita. Esaltando noi stessi, abusando della nostra libertà e disprezzando il timore di Dio, abbiamo costruito una civiltà della morte, dominata dalla guerra (condotta, in maniera spietata, anche sul terreno economico), dall’aborto, dall’eutanasia, dal peccato contro natura elevato al rango di legittima unione coniugale. La neochiesa ci viene a parlare incessantemente dei migranti e dei diritti dell’ambiente: umanitarismo ed ecologismo. A Dio, in ciò, non vi è che una pallida allusione, e fatta solo pro forma. Situazione paradossale: se vogliamo tornare a Dio, all’amore di Dio, alla fede in Dio, dobbiamo ignorare gli sproloqui ecologisti e umanitari della neochiesa e tornare ad abbeverarci direttamente alla Fonte perenne, cioè alla Parola di Dio e al sacrificio eucaristico (Gv 4,13-14): Chiunque beve di quest’acqua – dice Gesù — avrà di nuovo sete; ma chi beve dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete, anzi, l’acqua che gli darò diventerà in lui sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna.
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