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È venuto a distruggere le opere del diavolo (1 Gv 3, 8)

Ma che cosa è venuto a fare Gesù Cristo, sulla terra, in mezzo agli uomini? Questa domanda potrebbe apparire addirittura assurda, o quanto meno incongrua, nella sua ovvietà, almeno per un cattolico, anche fra i meno istruiti; e parliamo d’istruzione religiosa, naturalmente, non d’istruzione scolastica o professionale. La risposta, infatti, dovrebbe essere talmente semplice, per non dire scontata, che perfino un bambino della Prima comunione dovrebbe essere in grado di rispondere ad essa correttamente e senza alcun imbarazzo. Si tratta, infatti, di una questione centrale della religione cattolica; anzi, per meglio dire, si tratta della questione centrale. Beninteso, oltre al fatto che sta a monte di essa, vale a dire saper rispondere alla domanda su chi sia Gesù Cristo, è semplicemente ridicolo pensare che un cattolico non trovi la maniera di rispondere in maniera soddisfacente a queste due domande: chi è Gesù e che cosa è venuto a fare nel mondo. Eppure abbiamo imparato, in quarant’anni d’insegnamento, a non dare mai nulla di scontato, riguardo a ciò che la gente dovrebbe sapere, e magari, invece, no sa: e se quest’aurea regola vale per i giovani, vale, e a maggior ragione, per gli adulti. I giovani, infatti, se non altro, sanno di non sapere e sono disposti a correggersi e a imparare, almeno fino a un certo punto; gli adulti, presumendo di sapere già quel che si dovrebbe sapere, e dando per pacifico che gli altri pensino che essi lo sappiano, sovente uniscono la presunzione all’ignoranza, con i bei risultati, si fa per dire, che abbiamo sotto gli occhi tutti i santi giorni.

In questi ultimi anni, in particolare, abbiamo serie ragioni per dubitare che un grande numero di cattolici saprebbero rispondere appropriatamente alla domanda che abbiamo posto all’inizio, e, forse, anche a quell’altra, che le fa da preliminare. La neochiesa gnostica e massonica, impregnata di relativismo, naturalismo, modernismo e razionalismo, è riuscita a intorbidare le acque a tal segno, che, ormai, perfino riguardo alle verità basilari ed essenziali del cristianesimo, regna la più spaventosa confusione; e non è certo raro il caso che delle vere e proprie eresie vengano snocciolate come ovvie verità della fede cattolica, specie da quando sono proprio influenti membri della gerarchia a spararle sempre più grosse, senza alcun limite né alcun pudore, anzi, con la deliberata intenzione di sbalordire, sconcertare, scandalizzare, confondere le pecorelle del gregge che era stato affidato alle loro cure. Dunque, partiamo dalla identità di Gesù Cristo: Egli è la seconda Persona della santissima Trinità, il Figlio Unigenito del Padre celeste; e da Lui e dal Padre procede lo Spirito santo, che è lo Spirito di Verità operante nel mondo, fra quanti hanno creduto in Lui. Gesù Cristo si è Incarnato nella Persona di Gesù di Nazareth, vero Dio e vero uomo al tempo stesso; tuttavia non va identificato, puramente e semplicemente, con Gesù di Nazareth. Gesù di Nazareth è stato l’Incarnazione terrena del Figlio di Dio; ma il Figlio di Dio esisteva fin da prima che il mondo fosse, anzi, tutte le cose sono state create dal Padre per mezzo di Lu: Tutto è stato fatto per mezzo di Lui; e senza li Lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste (Gv 1, 3). E ancora ritornerà, per giudicare i vivi e i morti; e siederà alla destra del Padre. Secondo certi teologi di tendenza modernista, il Gesù storico e il Gesù cosmico sono la stessa cosa, o meglio, essi preferiscono tacere sul secondo e concentrarsi unicamente sul primo; e anche di questo, si limitano a considerare l’aspetto umano, al punto di dichiarare certa la sua morte, perché è un fatto storico definitivamente acquisito, ma non la sua resurrezione, che è oggetto di fede, dunque non dimostrabile. Di questa opinione è anche il falso papa Bergoglio, che si è espresso esattamente in questi termini: e ognuno vede quanto sia giusta e fedele alla vera dottrina una simile dichiarazione, fatta in pubblico, dal successore di san Pietro.

Alla domanda su che cosa è venuto a fare nel mondo, cioè per quale ragione si è Incarnato, si può rispondere in vari modi, ma con un unico significato. Si può dire che è venuto a portare a compimento le Scritture, ad avverare la Promessa, a ripristinare l’Alleanza di Dio con gli uomini, ma non l’Antica Alleanza, ormai superata e insufficiente, bensì la Nuova Alleanza, realizzata mediante il suo sangue divino, versato da Gesù sulla croce in remissione dei nostri peccati: e anche questa sembrerebbe una cosa ovvia da dire, pure bisogna dirla e specificarla, perché non mancano i sedicenti teologi i quali, in omaggio all’amicizia e alla stima nei confronti dei nostri fratelli maggiori, sostengono, assurdamente, che l’Antica Alleanza è sempre valida e che Dio non l’ha mai revocata, intendendo l’Alleanza col popolo d’Israele: il che, se fosse vero, renderebbe automaticamente un non senso sia l’Incarnazione del Verbo, sia l’istituzione della Chiesa cattolica e la nascita della religione cristiana. Basterebbe, infatti, il giudaismo; basterebbe che tutti si facessero giudei: e Gesù, in tal caso, sarebbe semplicemente un profeta, proprio come dice anche il Corano, ma con il piccolo dettaglio che un giudeo non lo riconosce affatto come tale, bensì come un falso profeta, e che come un falso profeta è ricordato, esecrato e maledetto, Lui e tutti i suoi seguaci, nel Talmud, che è il testo fondamentale dei giudei di stretta osservanza. E, di nuovo, di questa assurda ed eretica opinione è anche il falso papa Bergoglio; ma su quella strada si era già posto Giovanni Paolo II e, prima di lui, il Concilio Vaticano II, specialmente a partire dalla dichiarazione Nostra aetate, del 1965. Quanto a noi, diremmo, con l’apostolo Giovanni (1, 3-8), che il Figlio di Dio si è fatto uomo ed è nato nel mondo per distruggere le opere del diavolo; e così, infatti, abbiamo detto, una volta, a un caro e dotto amico, fervente cattolico, animato da una fede molto più salda e pura della nostra. Il quale, però, ci replicò che Gesù è venuto nel mondo per insegnarci l’amore. Infatti, non vi è contraddizione fra le due cose: sono l’una la necessaria integrazione dell’altra; sono le due facce di una stessa medaglia. Come dice, ancora, lo stesso testo di Giovani, appena due versetti più avanti (3, 10): Da questo si distinguono i figli di Dio dai figli del diavolo: chi non pratica la giustizia non è da Dio, né lo è chi non ama suo fratello. Del resto, amare come Gesù ci ha insegnato — e non secondo le passioni disordinate della carne — significa, immancabilmente, attirarsi l’odio del diavolo: le gelosie, le inimicizie, le calunnie, le persecuzioni, forse anche la morte. È impossibile seguire Gesù senza attirarsi l’ira del diavolo; è impossibile, come dice ancora l’apostolo Giovanni, piacere a Dio, se si vuol piacere al mondo: Non vi meravigliate, fratelli, se il mondo vi odia (1 Gv 3, 13). Caino ha ucciso Abele perché le sue opere erano malvagie e venivano dal diavolo, mentre le opere di suo fratello erano buone ed erano gradite a Dio. Chi si diletta del male, odia il bene; se un cristiano riceve il plauso del mondo, dovrebbe chiedersi, con sgomento e con raccapriccio, in che cosa ha sbagliato, in che cosa ha tradito il suo Signore Gesù Cristo. Gesù è stato messo in croce da uomini malvagi, a motivo della sua infinita bontà; e, come Lui stesso ha insegnato, non vi è servo che sia superiore al padrone. Se il mondo vi odia, sappiate che prima do voi ha odiato me. Il mondo vi amerebbe se foste suoi, ma non lo siete, perché, scegliendovi, io vi ho fatto uscire dal mondo. Per questo il mondo vi odia (Gv 15, 18-19). E ancora: Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi. Se hanno ascoltato me, ascolteranno anche voi (id, 15, 20).

Dunque: il Verbo si è incarnato per distruggere le opere del diavolo, cioè per fondare la Nuova Alleanza, basata sull’Amore: Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici (Gv 15, 13). Sono due maniere di dire la stessa cosa. Ma che significa "distruggere le opere del diavolo"? L’opera del diavolo è il peccato: perciò Gesù è venuto per sconfiggere il peccato. Chi commette il peccato viene dal diavolo, perché il diavolo è peccatore fin dal principio. (…) Chiunque è nato da Dio non commette peccato, perché un germe divino dimora in lui, e non può peccare perché è nato da Dio (1 Gv 3, 8-9). Stendiamo un velo pietoso sulle affermazioni blasfeme di padre Sosa Abascal, per il quale il diavolo è solo una immagine figurata del male; prendiamo atto che solo pochissimi anni fa un generale dei gesuiti che avesse rilasciato pubblicamente una tale dichiarazione, anzi, un qualsiasi sacerdote che si fosse espresso in questi termini, sarebbe stato immediatamente richiamato dai suoi superiori, e le sue asserzioni sarebbero state formalmente smentite per bocca della Chiesa docente; prendiamo atto pure del fatto che solo la presenza del falso papa Bergoglio, del suo stile, delle sue ripetute empietà, consentono a sacerdoti indegni, come padre Sosa, di abbandonarsi a simili espressioni, incuranti e sprezzanti del male che esse provocano ai fedeli, del turbamento, della sofferenza, del senso di smarrimento causato alle anime. Resta un altro punto da chiarire: che il diavolo agisce attraverso le tentazioni, ma che l’uomo è libero di assentire o rifiutare, perché dotato di libero arbitrio. Il diavolo non è un’astrazione, è una presenza reale; ma anche la libertà umana non è un’astrazione, ma un dato oggettivo: nessuno pecca, se non vuole peccare: in questo senso l’apostolo Giovanni dice che chi opera il male è figlio del diavolo, mentre chi è giusto è figlio di Dio; si tratta di una figliolanza adottiva, che deriva dalle libere e precise scelte di ciascun uomo. Chi sceglie il male, sceglie di essere figlio del diavolo; chi sceglie il bene, sceglie di essere figlio di Dio. E qui sorge un altro problema, sempre a causa di errate interpretazioni della dottrina per opera dei neoteologi e dei neopreti buonisti e permissivi, più che mai incoraggiati dal falso papa, buonista e permissivo a oltranza, fino al punto di asserire che Dio stesso è pago che gli uomini rimangano nel loro peccato, se non sono capaci di liberarsene (vedi il capitolo ottavo di Amoris laetitia, § 303).

Oggi, infatti, va di moda, fra il clero progressista e neomodernista, sottolineare in maniera univoca che Dio odia il peccato, ma non il peccatore. Come esempio di ciò, abbiamo recentemente ricordato un articolo di don Giuseppe Moretti, dehoniano, nel quale egli, fra l’altro, asserisce che Gesù sta sempre dalla parte di chi ha sbagliato; la sua ira distrugge il peccato e non il peccatore, si abbatte sul male e non su chi lo commette (cfr. il nostro articolo: Il dio in cui, bontà nostra, possiamo ancora credere, pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 05/01/2018). L’idea è giusta, ma espressa in maniera univoca: sembra che il male, il peccato, siano diventati delle astrazioni. E in quale maniera, di grazia, si potrebbe distruggere il peccato, ma non il peccatore, e abbattere l’ira sul male e non su chi lo commette? Saremmo curiosi di saperlo; ce lo spieghi, don Moretti, e ce lo spieghi anche Bergoglio, che insiste continuamente su questo concetto. Il male non è un fantasma, né il peccato è una nebbia evanescente: dove c’è il male c’è colui che lo compie; dove c’è il peccato c’è il peccatore che lo commette, che lo sceglie, deliberatamente e consapevolmente (altrimenti non sarebbe peccato). Ed è ingannevole parlare sempre del perdono di Dio che si estende a tutti gli uomini, se non si precisa che tale perdono è rivolto a coloro i quali si pentono, non ai peccatori impenitenti. Se Dio volesse perdonare per forza anche quelli che Lo rifiutano, anche quelli che non riconoscono di aver peccato, commetterebbe una forma di violenza, perché priverebbe gli uomini del dono più prezioso che ha fatto loro: quello della libertà. Voi sarete miei amici, se farete ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal padre l’ho fatto conoscere a voi, dice Gesù ai discepoli, nel discorso dell’Ultima Cena (Gv 15, 14-15). Don Moretti, subito dopo aver affermato che Gesù sta sempre dalla parte di chi ha sbagliato, che è a dir poco un’espressione ambigua, come tante altre simili fatte da Bergoglio, e che la sua ira distrugge il peccato e non il peccatore, che è incompleta e fuorviante, cita l’episodio di Gesù e la donna adultera: ma si guarda bene dal riportare le decisive parole che Gesù le rivolge: Vai, e d’ora in avanti non peccare più (Gv 7,11): se si omette quel e non peccare più, si fa di Gesù un impostore, perché gli si fa esprimere un concetto che è lontanissimo, per non dire opposto, alle sue intenzioni. Gesù è venuto nel mondo per combattere il peccato, questo è il punto capitale; ma, per farlo, ha bisogno della libera collaborazione degli uomini, cosa che, per un cattolico, si chiama "fede": chi ha fede, crede in Lui e domanda il suo aiuto per poter vivere la vita di grazia, e così non pecca, perché, come dice san Giovanni, è divenuto figlio di Dio. Ma Gesù non salva nessuno controvoglia; e mai, nel modo più assoluto, incoraggia qualcuno a perseverare nel peccato, perché ciò sarebbe contrario alla sua natura divina e alla sua missione salvifica. Gesù è venuto nel mondo per salvare gli uomini, non per condannarli; tuttavia, chi Lo rifiuta si condanna da solo. Questa è la seconda parte della verità, che il neoclero tralascia, colpevolmente, di dire: ossia che perseverare nel peccato equivale a vanificare il sacrificio di Cristo e conduce inevitabilmente alla dannazione. Ancora: Dio infatti ha tanto amato il mondo, da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio. E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie (Gv 3, 16-19). Infatti, il Dio di Gesù Cristo non vuole schiavi, ma amici; e l’amico sa quello che fa e perché lo fa…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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