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La pietra che fu scartata è ora testata d’angolo

Questo Gesù è "la pietra che, scartata da voi, costruttori, è divenuta testata d’angolo": così dice san Pietro, parlando ai capi del popolo e agli anziani dei Giudei, del divino Maestro, dopo la sua Morte e Resurrezione, per spiegare chi sia Colui del quale stanno predicando, lui e gli altri Apostoli, il Lieto Annuncio (At., 4, 11); riecheggiando, a sua volta, una frase di Gesù stesso, il quale aveva detto, parlando di sé e della sua missione: Non avete forse letto questa Scrittura: "La pietra che i costruttori hanno scartata, è diventata testata d’angolo"? (Mc., 12, 10; cfr. Lc., 20, 17), richiamandosi al Salmo 117, 22, che dice appunto: la pietra scartata dai costruttori è divenuta testata d’angolo.

Conosciamo un vecchio sacerdote, non diocesano, che svolge egregiamente la sua missione di ministro di Dio e che, nella sua beata semplicità, non sa quasi nulla di svolte antropologiche, ermeneutiche della continuità o della discontinuità, accompagnamento dei fratelli e discernimento dei peccati, anche se è stato ed è tuttora di grande beneficio per non poche anime di persone che, spinte sino al limite dell’abbandono della pratica religiosa dal pessimo andazzo della neochiesa modernista, stavano per recidere ogni legame con la Chiesa di Cristo, non per rifiuto di Cristo, ma per una ormai raggiunta, totale insofferenza nei confronti di questo neoclero eretico e semi-protestante, che, con arroganza ogni giorno crescente, spaccia le sue discutibili iniziative per moneta buona, cioè per autentica liturgia e per autentica dottrina della Chiesa cattolica. Ebbene, questo santo uomo, che non si è mai curato di astuzie e di ruffianerie con le quali, anche nella Chiesa, sovente si fa carriera, anzi, che è stato perfino imprigionato, e sia pure per pochi giorni, sotto la falsa accusa di circonvenzione d’incapace, dalla solita donna giudice di sinistra, non desiderosa d’altro che togliersi la soddisfazione di sbattere in gattabuia un prete settantenne e un paio di suore poco più giovani di lui, in questa Italia dove in gattabuia ci vanno a finire, e pure quelli assai di rado, solo assassini, mafiosi e criminali incalliti, questi sacerdote, da giovane, aveva faticato non poco per essere ordinato prete. Non perché avesse poca vocazione; al contrario, ne aveva, si fa per dire, sin troppa. E forse era proprio questo il problema. Già allora, cioè qualche anno prima del Concilio Vaticano II, la Chiesa si stava riempiendo a dismisura di furbi, di arrivisti, di cinici calcolatori; e si stava rapidamente svuotando di vocazioni autentiche, frutto di un vero cammino di conversione a Dio. Sta di fatto che giovani pieni di zelo e ardore di carità, come il nostro amico, non avevano, con ciò stesso, credenziali sufficienti per essere accolti con favore in seminario; specie se di estrazione sociale modesta, provenienti da una famiglia contadina numerosa e timorata, ma senza appoggi né raccomandazioni. Per giunta, il nostro amico non aveva troppa simpatia per i libri difficili, per il greco e il latino, nonché per le materie scientifiche; e la preparazione culturale di un sacerdote, allora, era molto, molto più esigente che non sia oggi. Più di una volta i superiori gli dissero di lasciar perdere, di tornare alle sue mucche; più di una volta lo umiliarono e gli fecero capire che era tropo zuccone per poter diventare un bravo sacerdote. E lui, niente. Si era innamorato del Signore Gesù, aveva deciso di essere prete e non era disposto a cedere, a nessun patto; neanche davanti alle frequenti mortificazioni.

Sta di fatto che, alla fine, è riuscito a essere ordinato sacerdote; e adesso lo è da quasi mezzo secolo. Solo i suoi padri spirituali lo avevano compreso, consolato e incoraggiato; tutti gli atri professori del seminario avevano fatto del loro meglio per riempirlo di complessi, per smontarlo e fargli perdere la vocazione. Non c’erano riusciti, però; alla fine, l’aveva spuntata lui, contro i foschi pronostici di tutti. Viceversa, certi suoi colleghi tanto apprezzati e lodati, certi seminaristi intelligenti e gran lettori di libri, più tardi si sono spretati, sono passati a tutt’altre faccende, salvo che la Chiesa continua a chiamarli e li invita a scrivere sui giornali di area cattolica, per esempio in qualità di psicologi: figuriamoci, uno spretato che scrive dei pezzi per le riviste cattoliche, pontificando, dall’alto della sua rinuncia all’impegno solenne che aveva assunto volontariamente, su quanto sia importane, nella vita, sapersi prendere le proprie responsabilità, saper vedere chiaro entro se stessi. Così va il mondo, così vanno le cose anche nella Chiesa. E se andavano così perfino nella Chiesa di prima del Concilio, non ci dobbiamo meravigliare troppo di come vadano le cose adesso, al principio del terzo millennio. Anche allora i più spregiudicati, i più ambiziosi, o semplicemente i più intelligenti, partivano favoriti; quelli che avevano, semplicemente il dono di una grande fede, e null’altro, o poco altro, erano invece svantaggiati. La Chiesa si godeva la sua ultima stagione di vacche grasse; e non si può dire che abbia saputo sempre valorizzare le vocazioni più sincere. E ciò basti a sfatare il mito consolatorio secondo cui, nella Chiesa cattolica, prima del Vaticano II ogni cosa andava bene, e tutti i suoi problemi son venuti solamente dopo.

Evidentemente, il male covava già dentro la Chiesa. Le dottrine moderniste, represse energicamente da Pio X, avevano continuato a strisciare, come serpenti velenosi, sotto la cenere: erano state costrette a nascondersi, ma non erano sparite, tutt’altro. Troppo forte era l’attrattiva che esse esercitavano, sia sugli intellettuali cattolici (vedi Fogazzaro), sia su una parte del clero stesso: conciliare la civiltà moderna con il Vangelo, quale traguardo desiderabile, per chi aveva accumulato un complesso d’inferiorità, in quanto cattolico, verso la cultura moderna! Pareva che la cultura moderna corresse verso chi sa quali meravigliosi progressi, e intanto la Chiesa restava ferma; anche i luterani, e da tempo, si erano alquanto aggiornati: erano più avanti dei cattolici negli studi biblici, nell’esegesi neotestamentaria, nella storia della Chiesa primitiva, per non parlare degli ultimi sviluppi degli studi teologici; così, almeno, pareva a molti, che avevano fatti proprio, senza nemmeno rendersene conto, il punto di vista protestante. E poi, l’insofferenza verso il principio di autorità; il fastidio di dover piegare la testa davanti a una realtà più grande, laddove la mala pianta dell’orgoglio umano era crescita a dismisura: ecco le ragioni profonde della rinascita modernista, durante la prima metà del XX secolo. La biografia di Ernesto Buonaiuti ne è la dimostrazione: dietro una falsa mitezza, una falsa apertura, quanta superbia, quanto rancore verso una Chiesa "chiusa", "ignorante", "arretrata"; quale invidia nei confronti dei colleghi protestanti, liberi di dire e di scrivere praticamente qualsiasi cosa, senza tema di censure o di richiami dall’autorità. Non è un caso che il modernismo abbia fatto breccia specialmente fra gli intellettuali e la parte più colta del clero: conformemente alla tendenza della cultura profana, questi teologi e sacerdoti più avvezzi a protendersi verso gli scaffali delle biblioteche, che a genuflettersi in adorazione davanti agli altari delle chiese, sono il perfetto tipo di un sacerdote mondanizzato, vanitoso, irrequieto, che non trova più la sua pace in Dio, ma che vorrebbe spingersi oltre, capire di più, insomma, che non si accontenta della fede semplice dei suoi genitori e dei suoi nonni e che ha dimenticato le parole di Gesù: Ti rendo lode, o Padre, Signore del Cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e agli intelligenti, e le hai rivelate ai piccoli! E dimentichi anche, i modernisti, del fatto che grandissime intelligenze, come san Tommaso d’Aquino, non avevano trovato affatto umiliante riconoscere i limiti della ragione; ma loro no, sedotti da un’idea gnostica del cristianesimo e ben decisi ad essere l’élite che riesce a penetrare più addentro i segreti del Vangelo… In fondo, il nodo del Vaticano II è tutto qui: dietro la parola "approfondimento" delle verità di fede (ché non si osa dire: "cambiamento"), si annida il serpente velenoso della gnosi; si annida e si nasconde l’antica pretesa di alcuni di possedere la chiave per accedere a un Vangelo speciale, di serie A, lasciando ai piccoli quell’altro, quello destinato alle masse, che è di serie B…

Questo, fra il clero colto. Intanto, fra il clero meno colto, era dilagata in silenzio, nei primi decenni del ‘900, un’altra piaga: l’indebolimento della fede, che si manifestava in tiepidezza e conformismo. Bastava rifugiarsi dietro il Magistero, dietro l’autorità del papa, o del vescovo; dietro il Catechismo, dietro l’ossequio formale verso la dottrina, dietro la pratica scrupolosa, ma un po’ arida, della preghiera e della frequenta ai Sacramenti. E poi, nient’altro. Ma quando la fede s’indebolisce, quando diventa un fatto di abitudine, manca poco perché il "credente" sia disponibile a qualsiasi manipolazione; e quando sono tornati in forze i modernisti, questo clero di poca fede non ha opposto resistenza, semplicemente perché non era abituato a vivere la fede in profondità, ad avere come unico modello di riferimento Gesù Cristo. Se un sacerdote si abitua a pensare con la testa del suo vescovo, e arriva un vescovo modernista, ecco che quel prete passa dal cattolicesimo al modernismo, in men che non si dica, senza neanche percepire il mutamento, anzi, negando che un mutamento vi sia stato. E se i teologi si mettono a scrivere cose moderniste, ecco che i sacerdoti, i catechisti, i predicatori, si mettono a ripetere cose moderniste, così, per stare nella tendenza del momento, per essere nella maggioranza.

A ciò si aggiunga un altro grande male dovuto all’indebolimento della fede: il venir meno del rigore morale. Quando la fede s’indebolisce, i vizi dell’uomo antico riemergono; e il sacerdote, spogliato della fede, è un uomo come tutti gli altri. Non bisogna meravigliarsi se cade in preda ai tipici vizi dell’uomo moderno: lussuria, orgoglio e avarizia. Questi vizi erano senza dubbio molto diffusi anche prima del Concilio, solo che venivano ben nascosti. Quanti casi di pedofilia nei seminari e, poi, nelle parrocchie, per esempio! Ma nessuno ne parlava apertamente; e, se qualcuno lo faceva, rischiava di subire l’onta della diffamazione, dopo aver subito il trauma della violenza. Lo diciamo con profonda tristezza, tuttavia bisogna pur dirlo: la Chiesa pre-conciliare non era uno specchio di virtù. La sola differenza con il periodo successivo è che, a partire dagli anni ’70, la neochiesa ha incominciato a praticare una nuova strategia: quella di minimizzare il peccato, perfino di negarlo, laddove possibile, mentre prima, almeno a parole, il peccato c’era, eccome, anche se poi si chiudeva un occhio, e magari tutti e due, per non provocare scandali. Pessima politica. E l’ipocrisia era talmente diffusa, che, quasi, quasi, certi vescovi preferivano avere in diocesi un prete che molestava i ragazzini, che un prete che andava a donne: pensando che, nel primo caso, la cosa, in certo qual modo, sarebbe finita lì; nel secondo, sarebbe finta con la perdita di un prete. E la Chiesa della metà del ‘900, benché ancora ricca di vocazioni, cominciava a non averne così tante da poter "sprecare" i sacerdoti già collaudati e attivi nella vita diocesana. Se, poi, qualcuno di essi aveva un vizietto, purché la cosa non degenerasse in scandalo pubblico, pazienza. La carne è debole, si sa. Errore imperdonabile: non solo sotto il profilo morale, ma anche sotto quello teologico: il lassismo nella vita di un sacerdote è sempre indizio di una crisi di fede. Quello avrebbe dovuto essere il campanello d’allarme; ma, il più delle volte, non gli fu data l’importanza che avrebbe meritato; il più delle volte, ci si preoccupò semmai delle apparenze.

E ora torniamo al nostro amico sacerdote. In cinquant’anni di ministero, non ha mai avuto dubbi, crisi, incertezze; non ha mai vacillato; è sempre stato saldo come una roccia, punto d riferimento per tutti quelli che l’hanno avvicinato. Eppure, a suo tempo, stava per essere rifiutato, come la pietra scartata dai costruttori. Senza dubbio ce ne sono altri, come lui. Se si studia la vita dei Santi, ci si accorge che molti, da giovani, sono stati in vario modo ostacolati, e perfino perseguitati, dai loro superiori; anche alle sante, in convento, è capitata la stessa cosa con le loro madri badesse. Se poi si guarda al Gotha della Chiesa cattolica odierna, ci s’imbatte in una quantità di monsignori intriganti e vanitosi; di biblisti raffinati, ma dalla vita poco evangelica; di canonisti, teologi, storici di fama nazionale e internazionale, però di poca o nessuna qualità specificamente sacerdotale. Bravi specialisti, e null’altro: gente di cui la Chiesa, nei momenti di difficoltà — e questo è uno di essi, forse il più grave in assoluto – può far tranquillamente a meno; mentre non potrebbe fare a meno di sacerdoti di autentica fede. Come accade a bordo di una nave, quando il mare è in tempesta: non c’è bisogno di chi sa quali ingeneri navali, e nemmeno di storici della navigazione, ma di validi e coraggiosi marinai. Lungi da noi voler fare l’apologia dell’ignoranza; diciamo però che la cultura, per un uomo di Chiesa, è importante, ma solo nella misura in cui è uno strumento al servizio della fede. Se la cultura diventa un ostacolo alla fede; se diventa una fonte di dubbi e se opera una seduzione intellettuale che prepara la strada all’apostasia, ebbene, in tal caso, dovendo scegliere, meglio, molto meglio se la Chiesa dispone di sacerdoti meno colti ma dotati d’una fede solida, robusta, nutrita del contatto quotidiano col Signore. E cosa sono le attuali disposizioni ecclesiastiche, tendenti a limitare la pratica della santa Comunione, se non una forma di diffidenza verso il nutrimento spirituale del sacerdote e dei suoi parrocchiani? Quando mai la pratica frequente della Comunione potrebbe essere pregiudizievole alla fede? Perché mai si dovrebbe scoraggiare un sacerdote dal celebrare più di una Messa al giorno? A chi dunque fa paura che il sacerdote incoraggi i fedeli a nutrirsi il più spesso possibile del Corpo di Cristo, che spegne la perenne fame dell’anima?

Fonte dell'immagine in evidenza: RAI

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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