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Il discorso del Lirico, testamento di Mussolini

Tutti gli storici dell’Italia contemporanea, i quali, volenti o nolenti, si sono confrontati con l’ultimo discorso pubblico di Mussolini, e l’unico di tutto il periodo della Repubblica Sociale Italiana, hanno dovuto ammettere, magari a denti stretti, che è stato un gran successo, e, probabilmente, il migliore della sua lunga carriera oratoria. Non solo: che il suo viaggio improvviso a Milano, il 16 dicembre 1944, fu, in se stesso, un successo di vaste proporzioni, inaspettato per quasi tutti, poiché amici e nemici tendevano a immaginare il Duce come una specie di sopravvissuto. Non solo: quell’episodio dimostrò al mondo intero che Mussolini, girando con poca scorta e parlando davanti a migliaia di persone, nel pieno della duplice guerra — la guerra mondiale, che batteva alle porte, sulla Linea Gotica, a soli 300 km. in linea d’aria, e la guerra civile, che imperversava specialmente sui monti, a pochi chilometri dal capoluogo lombardo e intorno a quasi tutte le città dell’Italia settentrionale, per giunta parlando in una città che era stata pesantemente bombardata dagli angloamericani, tanto che il Teatro alla Scala era stato distrutto l’anno prima, e per questo dovette ripiegare sul Teatro Lirico — era ancora assai più popolare di quanto nessuno immaginasse, molto più lucido e grintoso, molto più presente a se stesso e alla realtà circostante. Quale altro leader mondiale avrebbe osato tentare la prova d’un simile exploit, per giunta nel bel mezzo di una situazione disastrosa, praticamente sotto ogni punto di vista, da quello alimentare, igienico e sanitario a quello strettamente militare, coi nemici pressoché padroni del cielo, e con degli alleati arroganti che facevano crescere ogni giorno il malumore della popolazione, già esasperata da infinite privazioni, sofferenze e delusioni? Non certo Hitler, il quale, dopo l’attentato del 20 luglio 1944, se ne stava più che mai rintanato, e non osava mostrare la faccia davanti al suo popolo, se non per brevi, spettrali apparizioni. Mussolini, con quella iniziativa, aveva saputo sorprendere tutti, spiazzando amici e nemici, come ai tempi della sua gioventù; il suo fiuto di vecchio e consumato capopopolo, di rivoluzionario dalle mille risorse, pur nel declino della sua salute fisica e nelle penose circostanze politico-militari in cui era venuto a trovarsi, non l’aveva ingannato: la gente lo amava ancora, nonostante tutto; e lui, da parte sua, era ancora capace di trovare le corde giuste, di far vibrare la folla, di magnetizzarla, d’infonderle fiducia nel futuro, persino di convincerla di una sempre più improbabile vittoria. Inoltre, aveva dimostrato di possedere ancora del coraggio fisico, come ai bei vecchi tempi: se i partigiani avessero voluto ammazzarlo, quella sarebbe stata un’occasione d’oro; ma nessuno osò disturbare il discorso, né il passaggio del Duce per le di Milano. I tempi del coraggio, per i partigiani milanesi, sarebbero venuti solo quattro mesi dopo; quando Sandro Pertini dirà che, incontrando Mussolini sulle scale dell’arcivescovado, dopo il colloquio con Raffaele Cadorna presso monsignor Schuster, se lo avesse riconosciuto, lo avrebbe abbattuto a colpi di pistola, dichiarazione poi ritrattata e corretta in altre, successive, interviste, ma perfettamente in linea con l’atteggiamento tenuto da lui e da molti altri partigiani socialisti e comunisti nei giorni della cosiddetta insurrezione, intorno al 25 aprile 1945: i giorni di Caino, delle vendette e delle stragi, più che della "liberazione".

Ora, quel che gli storici continuano a chiedersi, bagno di folla a parte, è se Mussolini, pronunciando il suo ultimo, veemente discorso, passato alla storia appunto come "il discorso della riscossa", credesse davvero alle cose che diceva; se davvero si illudeva che la sorte della guerra potesse capovolgersi, magari per effetto delle famose armi segrete naziste, delle quali Hitler gli aveva parlato con tanta convinzione, e che, si sapeva, erano ormai quasi completate e pronte a colpire il nemico. Gli studiosi del fascismo e i biografi di Mussolini vorrebbero capire se il discorso del Teatro Lirico sia stato solo il patetico canto del cigno di un morituro — posto che fu, senza dubbio, anche questo — o se, oltre che un bell’esempio di prosa oratoria, infiammata e trascinante, si possa ravvisare, in esso, anche un significato politico profondo, non meramente propagandistico, che ne farebbe un testamento spirituale, proiettato, però, verso la dimensione del futuro.

Ce lo siamo chiesti anche noi, con molta serietà; perché l’ultimo discorso di un uomo che ha lasciato, nella storia d’Italia e del mondo, il segno che ha lasciato Mussolini — indipendentemente dal giudizio, negativo o positivo, che si voglia dare ad esso — ci sembra che meriti di essere letto e meditato con una certa attenzione, rifiutando la tesi preconcetta di chi non vede in tutta la parabola della R.S.I. null’altro che degradazione politica e perfino morale (si pensi al film di Pasolini Salò o le 120 giornate di Sodoma, e a innumerevoli romanzi e opere letterarie), una umiliante sudditanza verso i Tedeschi e una involuzione di tipo quasi criminale, a dispetto della dimensione sociale della Carta di Verona del 14 novembre 1943; e che, pertanto, anche nel discorso del Lirico non è disposto a scorgere che pietose menzogne o il delirio di una mente paranoica.

Oggi è possibile non solo leggere integralmente quel discorso, ma anche udirne la registrazione; basta fare un clic sul computer e ci si può immergere in quella strana, febbricitante atmosfera. Per completare il quadro, bisogna solo tener presente che, qualche giorno prima, aveva nevicato; faceva molto freddo (sarebbe passato alla storia, in tutta Europa, come uno dei peggiori inverni del secolo), la città era cosparsa di macerie, vi erano famiglie senza un tetto, senza un lavoro, senza un piatto di minestra; che molti milanesi piangevano la morte di un padre, di un fratello, di un figlio, caduti in Africa, o in Russia, o nel Mar Mediterraneo, o nei gorghi limacciosi della guerra civile; il fronte si era stabilizzato, da circa un mese, sul crinale dell’Appennino tosco-emiliano, il proclama Alexander aveva gelato le speranze di una rapida conclusione delle ostilità; gli attentati dei partigiani e le rappresaglie dei tedeschi e dei fascisti accrescevano l’insicurezza, l’orrore e l’angoscia generali. E in quelle condizioni quasi surreali, Mussolini, malato e precocemente invecchiato, tirò fuori un piglio invidiabile e riuscì a elettrizzare tutti quanti, nella "città più antifascista d’Italia", quella dove gli operai avevano scioperato contro la guerra fin da prima della sua caduta, nel marzo del 1943, e poi di nuovo nel marzo del 1944; e che era anche quella, però, ove il fascismo aveva debuttato, in Piazza san Sepolcro, il 23 marzo 1919, da poco conclusa la Prima guerra mondiale: esattamente venticinque anni prima, quando lui, di anni, ne aveva trentacinque (era nato il 29 luglio 1883), mentre ai tempi del Lirico ne aveva ormai sessantuno.

In rete lo si trova integralmente, su diversi siti; ne riportiamo il passaggio chiave, quello in cui il Duce, avviandosi a concludere, e provocando un delirio di applausi e acclamazioni, esorta gli italiani a difendere, sino all’ultimo, la Pianura Padana, quale premessa per ricacciare l’invasore anglo-americano e preparare il riscatto della Patria (da: Guido Gerosa, Mussolini: la Repubblica di Salò, Milano, Alberto Peruzzo Editore, 1986, p. 235):

Noi vogliamo difendere, con le unghie e coi denti, la valle del Po (grida: "Sì"); noi vogliamo che la valle del Po resti repubblicana in attesa che tutta l’Italia sia repubblicana. (Grida entusiastiche: "Sì! Tutta!"). Il giorno in cui tutta la valle del Po fosse contaminata dal nemico, il destino dell’intera nazione sarebbe compromesso; ma io vedo, io sento, che domani sorgerebbe una forma di organizzazione irresistibile ed armata, che renderebbe praticamente la vita impossibile agli invasori. Faremmo una sola Atene di tutta la valle del Po. (La folla prorompe in grida unanimi di consenso. Si grida: "Sì! Sì!").

Da quanto vi ho detto, balza evidente che non solo la coalizione nemica non ha vinto, ma che non vincerà. La mostruosa alleanza fra plutocrazia e bolscevismo ha potuto perpetrare la sua guerra barbarica come la esecuzione di un enorme delitto, che ha colpito folle di innocenti e distrutto ciò che la civiltà europea aveva creato in venti secoli. Ma non riuscirà ad annientare con la sua tenebra lo spirito eterno che tali monumenti innalzò.

La nostra fede assoluta nella vittoria non poggia su motivi di carattere soggettivo o sentimentale, ma su elementi positivi e determinanti. Se dubitassimo della nostra vittoria, dovremmo dubitare dell’esistenza di Colui che regola, secondo giustizia, le sorti degli uomini. Quando noi come soldati della Repubblica riprenderemo contatto con gli italiani di oltre Appennino, avremo la grata sorpresa di trovare più fascismo di quanto ne abbiamo lasciato. La delusione, la miseria, l’abiezione politica e morale esplode non solo nella vecchia frase "si stava meglio", con quel che segue, ma nella rivolta che da Palermo a Catania, a Otranto, a Roma stessa serpeggia in ogni parte dell’Italia "liberata". Il popolo italiano al sud del’Appennino ha l’animo pieno di cocenti nostalgie. L’oppressione nemica da una parte e la persecuzione bestiale del Governo dall’altra non fanno che dare alimento al movimento del fascismo. L’impresa di cancellarne i simboli esteriori fu facile; quella di sopprimerne l’idea, impossibile. (La folla grida: "Mai!").

I sei partiti antifascisti si affannano a proclamare che il fascismo è morto, perché lo sentono vivo. Milioni di italiani confrontano ieri e oggi; ieri, quando la bandiera della patria sventolava dalle Alpi all’equatore somalo e l’italiano era uno dei popoli più rispettati della terra.

Non v’è italiano che non senta balzare il cuore nel petto nell’udire un nome africano, il suono di un inno che accompagnò le legioni dal Mediterraneo al Mar Rosso, alla vista di un casco coloniale. Sono milioni di italiani che dal 1929 al 1939 hanno vissuto quella che si può definire l’epopea della patria. Questi italiani esistono ancora, soffrono e credono ancora e sono disposti a serrare i ranghi per riprendere a marciare onde riconquistare quanto fu perduto ed è oggi presidiato fra le dune libiche e le ambe etiopiche da migliaia di caduti, il fiore di innumerevoli famiglie italiane, che non hanno dimenticato, né possono dimenticare.

Già si notano i segni annunciatori della ripresa, qui, soprattutto in questa Milano antesignana e condottiera, che il nemico ha selvaggiamente colpito, ma non ha minimamente piegato.

Camerati, cari camerati milanesi!

È Milano che deve dare e che darà gli uomini, le armi, la volontà e il segnale della riscossa!

Questa, ripetiamo, non è che la parte finale del discorso del Lirico, che, molto più ampio, passava in esame, in maniera dettagliata, quasi tutti gli aspetti della situazione politica, militare, psicologica e morale determinatasi in Italia e nel mondo al principio dell’inverno 1944-45; pure, è sufficiente per fare qualche breve riflessione. Innanzitutto, cosa si deve pensare: Mussolini si lasciava trasportare dai propri desideri, dalla nostalgia, dalle necessità della propaganda di guerra, dalla sua stessa tendenza a confondere la realtà con le sue speranze, come già era accaduto altre volte, con risultati disastrosi? Oppure credeva davvero in quelle cose? A noi sembra che, paradossalmente, il punto essenziale non sia se lui credesse davvero che, giunte le cose a quel punto, la guerra potesse conoscere una svolta clamorosa e repentina, magari per opera delle armi segrete di Hitler; e neppure se davvero s’illudesse che qualcosa del fascismo sarebbe comunque sopravvissuto, e avrebbe avuto un posto nell’Italia e nel mondo futuri. La cosa essenziale è capire se Mussolini stava pensando, o si stava illudendo, o stava facendo semplicemente della propaganda, ma da italiano; se, cioè, riusciva a vedere le cose da italiano, oppure se vedeva l’Italia con un occhio "straniero", e giudicava il fascismo e gli italiani non per ciò che erano, ma per ciò che avrebbe voluto che fossero. In questo secondo caso, è evidente che egli era fuori della realtà e che i suoi giudizi erano viziati da una sorta d’incapacità di vedere le cose nella loro reale prospettiva; difetto molto grave, certo, per un politico. Noi propendiamo a credere di sì. Ma era un politico, poi, Mussolini? A questa domanda, crediamo si debba rispondere di no. Forse, l’enigma Mussolini è racchiuso in questo malinteso: la storia lo ha giudicato da un punto di vista politico, perché egli fondò il fascismo e perché prese il potere e lo tenne per un ventennio; ma fondare un movimento con quelle caratteristiche così strane, che ancor oggi non si è riusciti a mettersi d’accordo se sia stato una "cosa" di destra o di sinistra, e poi governare l’Italia per un ventennio (ma sarebbe durato sino alla sua fine naturale, come per Franco in Spagna, se non ci fosse stata la guerra di mezzo), son cose che non richiedono, di per sé, del genio politico. Creare il fascismo, un’idea che diventò un modello politico a livello mondiale, fu, prima di tutto, un atto creativo, quasi un’opera d’arte: e siamo nell’età delle avanguardie, dei futurismi, dei cubismi, eccetera, oltre che del dannunzianesimo e dei superomismi. Prendere il potere fu relativamente facile: il potere non c’era più, gli ultimi governi liberali erano pressoché inesistenti, bastava una piccola spinta e si sarebbero dissolti: come difatti accadde. Governare per vent’anni (o per trenta, o per quaranta…) fu possibile, anche senza un particolare genio politico, per la totale insipienza delle opposizioni: le quali, messe tutte insieme, non arrivavano ancora a controbilanciare il peso specifico di un uomo pragmatico, ma deciso, il quale, dopo aver "visto" le carte degli altri, si era reso conto che non serviva chi sa quale sforzo per ridurli all’impotenza. È un po’ come quando si deve giudicare la vittoria di uno sportivo in una grande competizione: per farsene un’idea esatta, bisogna vedere chi erano i suoi avversari; se erano di classe, si è trattato di una grande vittoria; ma se valevano poco, altri dieci avrebbero potuto vincere, al suo posto.

Ma se non è stato un vero genio politico, che cosa è stato, Mussolini? Solo un geniale visionario, o, peggio, un abile illusionista, come dicono quasi tutti gli storici stranieri, tipo Denis Mack Smith, e moltissimi italiani, a cominciare da Luigi Barzini junior (il quale, peraltro, il suo libri sugli italiani lo scriveva per il pubblico statunitense, avendo spostato oltre Atlantico l’asse dei suoi interessi e, quindi, anche delle sue simpatie)? Crediamo sia stato soprattutto un geniale tribuno, innamorato del’Italia e, a suo modo, un poeta, nel senso più ampio del termine: uno che vedeva l’Italia non com’era, ma come la sognava: più bella, più grande, più orgogliosa, più conscia di sé. Senza la guerra e la sconfitta, forse ci sarebbe riuscito: senza dubbio fu il solo italiano del XX secolo che ebbe un’idea così alta della Patria. La sua grandezza e la sua debolezza nascono da questo rapporto contraddittorio con la realtà: italiano fino alla radice dei capelli, era nondimeno un italiano atipico: una specie di romano sopravvissuto al crollo dell’Impero di Roma e ricomparso nel XX secolo. Molti suoi errori di valutazione – in particolare, aver sottovalutato l’enorme potenza degli Stati Uniti; ma anche Hitler cadde nel medesimo errore — dipendono da questo suo difetto di realismo. Era un pragmatico e, allo stesso tempo un sognatore o, se si preferisce, un romantico: combinazione rara e quanto mai disarmonica, ma possibile. La sua fedeltà all’alleanza con la Germania, per esempio, ha qualcosa di romantico; tanto più che egli, personalmente, ammirava la Germania, ma non l’amava affatto (stato d’animo tipicamente italiano) e, se non fosse stato per la miopia e l’egoismo anglo-francese, non si sarebbe mai legato a Hitler per la vita e per la morte. Pertanto, valutare l’opera politica di Mussolini solo in termini strettamente politici, equivale a impostare male la prospettiva. Per Mussolini, la politica era solo il mezzo: il fine, era fare gli Italiani e, con essi, la grandezza della Patria. Megalomania? Crediamo che il suo amore per l’Italia sia stato la cosa più sincera della sua vita, ricca di simulazioni. L’amò nel 1914-15, quando si schierò per l’intervento e si fece cacciare dal Partito Socialista e dall’Avanti, indi volle andare a combattere al fronte; l’amò nel 1919, quando fondò il fascismo; l’amò nel 1940, quando, con delle pessime carte in mano, si vide costretto a entrare in gioco; e l’amò ancora nel settembre del 1943, quando, "liberato" dai tedeschi sul Gran Sasso, accettò di fondare la Repubblica Sociale. Se non l’avesse amata, avrebbe lasciato che Hitler ne facesse una seconda Polonia. E nondimeno, è chiaro che il suo amore lo accecava e gl’impediva di vedere l’Italia e gl’italiani per quello che erano.

Un illusionista, oltre che un illuso? Forse, almeno in parte. Credeva a quel che voleva credere; e, durante la dittatura, come sempre avviene, questo difetto aumentò a dismisura, grazie soprattutto ai mediocri cortigiani che lo attorniavano — e che lui stesso preferiva avere intorno, non fidandosi degli uomini intelligenti e di carattere; perché stimava poco gli uomini e non aveva amici. Peraltro somigliava un poco a Francesco Crispi: un Crispi dal quale aveva ereditato perfino l’ansia di vendicare Adua. Ma somigliava anche a Cola di Rienzo, al cui tipo ideale apparteneva, pieno com’era delle memorie della grandezza di Roma antica. Ciò non significa che la sua politica sia stata puro illusionismo, come insinuano tanti storici poco equanimi. Molte cose le fece per davvero: la legislazione sociale, le bonifiche, il riassetto finanziario, l’autosufficienza cerealicola; altre cose le vagheggiò, ma non le fece, a cominciare dal corporativismo, e, poi, le socializzazioni. Il suo punto debole era l’Italia: con un Paese più solido e più unito alle spalle, avrebbe potuto fare molto. Ma i poteri forti avevano deciso di eliminarlo, e, quando la guerra andò male, fu facile, per essi, ridestare l’odio contro di lui, che, nel corso del ventennio, si era trasformato quasi ovunque in consenso. Riapparve l’antico vizio italiano di parteggiare per il nemico esterno, pur di vedere nella polvere il proprio nemico interno. Quando appesero il suo cadavere a testa in giù, a Piazzale Loreto, non gli caddero soldi dalle tasche: altra cosa poco italiana. Quasi un’anomalia.

Rileggere il discorso del Lirico, in ogni caso, fa quasi tenerezza, specie per quell’accenno alla divina Provvidenza. Ma un capo di Stato italiano che sfida, contemporaneamente, la plutocrazia anglosassone e il comunismo sovietico, cioè il mondo intero: quando più si è visto un altro politico italiano capace di parlar con tale fierezza in faccia a tutti, e con un piede già dentro la propria fossa?

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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