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Dio non vuole ciò che ripugna ai fini della natura

È un pensiero di Dante Alighieri, e si trova nel De Monarchia (2,2); ricavato, indirettamente, dal pensiero di san Tommaso d’Aquino — nonché di Aristotele -, suona così: Illud quod naturae intentioni repugnat, Deus nolit, ossia: ciò che ripugna all’intenzione della natura, è anche contrario al volere di Dio. Ed è uno di quei pensieri dalla profondità abissale, che affascinano e catturano la mente, sollecitano infiniti approfondimenti e riflessioni, e offrono un prisma attraverso cui leggere e interpretare tutti quegli aspetti della realtà che ci lasciavano perplessi, perché facevamo fatica a farli rientrare in un quadro complessivo di carattere razionale. Naturalmente, è un pensiero tipicamente aristotelico, col suo finalismo esplicito: la natura tende alla realizzazione di certi fini; le cose non si muovono a caso; vi è un ordine nell’universo, e anche dentro noi stessi, un ordine che può sfuggire all’occhio superficiale, ma senza il quale ogni singola cosa piomberebbe nella nebbia, e il mondo non sarebbe altro che un caos, inutile e insensato.

Poiché la cultura moderna, da Galilei in poi, ha sdegnosamente rifiutato ogni tipo di finalismo, succede che un tale concetto, pur essendo in armonia con il buon senso, oltre che con secoli di tradizione filosofica e teologica, ci appaia oggi come una specie di masso erratico, abbandonato dagli agenti atmosferici a grande distanza dal suo luogo di origine: un qualcosa di strano nel nostro paesaggio mentale, una eccentricità, se non peggio. Eppure, proviamo a riflettere: non è forse vero che vi sono cose che sono in accordo con la natura, e altre che ad essa ripugnano? E non è evidente che, se una cosa ripugna alla natura, non può essere voluta da Dio, ma, al contrario, Dio non la vuole, la disapprova, la proibisce? Non qualsiasi cosa provenga dalla natura, è buona in se stessa; e non tutto ciò che procede dalla natura va accettato senz’altro, così come si presenta. In noi stessi vi sono degli istinti, degli impulsi, che evidentemente sono naturali, e che, altrettanto evidentemente, non sono buoni, e che sarebbe un errore gravissimo prendere come se fossero tali, assecondandoli e concedendo loro di manifestarsi pienamente. Al contrario, su tali istinti ed impulsi è necessario che noi esercitiamo la massima sorveglianza, affinché non prendano possesso della nostra volontà e non ci portino su strade pericolose, provocando la nostra stessa distruzione, oltre che il male altrui. La natura che noi conosciamo, che noi viviamo, è la natura ferita dal Peccato originale; non è la natura uscita buona e perfetta dalle mani del Creatore. Nondimeno, anche così ferita, essa conserva, sia pure velata, la luce dello splendore originario; anche così stravolta, in essa si scorge ancora qualche traccia della primitiva perfezione. Pertanto, è banale l’obiezione di chi sostiene che, secondo natura, i deboli soccombono, ma che questa non può essere l’intenzione del Creatore: perché è ovvio che la ragione ci è stata data per correggere, in un certo senso, quel che la natura, ferita deal Peccato originale, non è più in grado di dare spontaneamente, anzi, tende a negare. Il cristianesimo non è certo un naturalismo, al contrario, è l’opposto del naturalismo; ma non perché la natura sia la sua controparte negativa, bensì, semplicemente, perché la natura é stata coinvolta dalla disobbedienza di Adamo ed Eva nelle tragiche conseguenze del Peccato.

Quanti pretendono di contrapporre la "sanità" della natura alla "malattia" del cristianesimo, e sono stati tanti, tantissimi negli ultimi tre secoli, dall’illuminismo in poi – è addirittura un luogo comune della cultura moderna, al punto che fa quasi notizia se qualche pensatore o scrittore non vi si uniforma — considerano, della natura, solo ciò che di volta in volta, torna utile al loro ragionamento. Invece bisogna avere il coraggio di guardare la natura nel suo insieme, nella totalità delle sue manifestazioni: "naturale" è che tutte le creature cerchino la luce, e dunque, sul piano spirituale, che esse cerchino la verità; ma "naturale" è anche che il più forte prevarichi sul più debole, e che il più debole soccomba, se non vi sono degli opportuni interventi per dotarlo delle difese necessarie a sopravvivere. Non è segno di onestà intellettuale contemplare solo la natura amica; bisogna saper guardare in faccia la natura anche quando essa è nostra nemica.

Che la natura non sia buona in se stessa, nella condizione presente delle cose, lo vede, se vuole, anche chi non si arrende che di fronte all’evidenza. Si osservino due bambini, lasciati liberi di giocare per un po’ di tempo, senza l’intervento degli adulti: due bambini molto piccoli, dai due ai quattro, cinque anni, prima dell’asilo o della scuola d’infanzia. Non ci vorrà molto perché uno dei due s’impadronisca dei giocattoli più belli, o si metta comunque a infastidire l’atro, o l’altra, di solito il più piccolo, o quello più timido, più remissivo: così, per il puro e semplice gusto di molestarlo. Se l’adulto non interviene, potrebbe anche fargli del : non certo per cattiveria – a quell’età la morale non è ancora entrata in gioco – ma perché tale è l’impulso che porta gli esseri umani a prevaricare sui loro simili, e anche sul resto del creato. Vogliamo lasciare un bambino di quell’età libero di fare quel che vuole con un piccolo animale? Prima o poi, bisognerà intervenire per salvare l’uccellino, o il gattino, o il cucciolo di cane, da una brutta fine: potrebbe anche ucciderlo, magari senza volerlo con piena consapevolezza, ma solo così, per il gusto di stringerlo, di strapazzarlo, di trattarlo come se fosse un animaletto di pezza. E non sarà il disperato squittire, miagolare o guaire della bestiola, a fermarlo o impietosirlo; così come non serviranno a fargli deporre la sua prepotenza, le lacrime del compagno più piccolo. C’è qualcosa di tremendo, nell’egoismo e nella inconsapevole crudeltà del bambino piccolo, che persegue ferocemente il suo piacere o il suo potere, a danno di qualcuno che non può difendersi nei suoi confronti: è il paradigma e il simbolo vivente della condizione umana, segnata da quella che la teologia morale chiama concupiscenza. È la tendenza al male, al peccato; in questo caso, trattandosi di un bambino in età pre-morale, una tendenza al male inconsapevole, ma pur sempre al male. E quel male, con buona pace di Rousseau, viene proprio dalla sua natura: non da altro.

Oppure prendiamo il tema della libertà sessuale, tanto caro a quanti, in nome degli impulsi naturali, rivendicano la perfetta liceità di qualsiasi comportamento, purché espresso nelle forme di una reciproca intesa fra soggetti consenzienti e, possibilmente, adulti. Oggi si parla molto, anche troppo, del cosiddetto amore omosessuale (in realtà omoerotico, la sessualità essendo una faccenda che riguarda il maschile e il femminile, sempre e comunque). Come è stato giustamente osservato anche sotto l’aspetto strettamente fisiologico, per esempio dalla dottoressa Silvana De Mari, il rapporto fra due maschi è contrario alla natura, per la semplice e inoppugnabile ragione che l’apparato escretore è stato "pensato" dalla natura per svolgere la funzione di eliminare le feci e non per surrogare le funzioni, e quindi gli organi, dell’apparato riproduttivo: una verità addirittura lapalissiana, che è costata una quantità di querele alla dottoressa da parte di chi non vuole accettare la "natura", quando la natura smentisce le sue teorie, ma la cita come modello solo quando pare confermarle. Per essere ancora più chiari: sia l’aspetto doloroso della penetrazione anale, sia la frequenza delle malattie sessualmente trasmissibili che essa provoca, sono una conseguenza di questa evidente discrepanza tra le finalità della natura e la pretesa, da parte dell’uomo, d’imporre alla natura dei comportamenti che vanno contro di essa. In termini ancora più semplici: se la natura ha "inventato" il principio maschile e quello femminile, qualche ragione ci sarà. La natura non fa niente per gioco e non produce cose inutili o insensate; la pretesa di piegarla a dei fini completamente diversi da quelli che essa persegue, è la stessa che si nota nella medicina, e soprattutto nella biologia e nella genetica, più spregiudicate, le quali, appunto, "giocano" con la natura, per trasformarla in qualcosa di completamente diverso da ciò che essa è, anzi, di opposto. Strano: quegli stessi che si ergono a paladini del diritto di morire "senza accanimento terapeutico", in realtà intendendo la libertà di morire sospendendo le terapie, e quegli stessi che, per difendere la cosiddetta libertà di scelta della madre, si fanno assertori dell’aborto volontario, cioè della soppressione del nascituro, andando nel primo caso contro la medicina e nel secondo contro la natura, nel caso della sodomia pretendono poi di sostenere che essa è perfettamente naturale, sia come istinto che come pratica, e infatti hanno chiesto e ottenuto il suo riconoscimento sotto forma di una specie di parodia del matrimonio; ma non potranno mai dimostrare ciò che è palesemente falso, ossia che la natura ha "programmato" il maschio per avere rapporti con un altro maschio, anziché con la donna; né, soprattutto, che una tale unione, intrinsecamente e necessariamente sterile, possa stare sullo stesso piano di necessità e dignità dell’unione fra l’uomo e la donna, che è benedetta da Dio in quanto feconda.

Il nostro modello, pertanto, non deve essere la natura, che è imperfetta, ma Dio, che è perfetto: Siate voi dunque perfetti, dice Gesù rivolto alla folla, come perfetto è il Padre vostro nei cieli (Matteo, 5, 48). La natura deve essere, in certi casi, "corretta", perché inadeguata o insufficiente, in altri deve essere seguita come una madre e una maestra: sia che la seguiamo, sia che la "correggiamo", tuttavia, il nostro criterio fondamentale dovrebbe essere quello di seguirne il solco, fin dover possibile e dove opportuno, e poi procedere in qualche altro modo, mai, però, rifiutandola o contraddicendola frontalmente, mai con la pretesa di "rifarla" e di capovolgerla, e, soprattutto, mai allontanandosi da essa per un fine che sia peggiorativo, ma sempre per un fine migliorativo, tenendo conto di ciò a cui le creature, e l’uomo specialmente, sono chiamate ad essere. La domanda fondamentale, perciò, non dovrebbe essere: cosa ci suggerisce di fare la natura?, bensì: a quale fine tende la nostra natura? E, per rispondere a questa domanda, bisogna tener presente che l’uomo è solo in parte una creatura naturale, con un fine naturale; per l’altra parte, invece, è una creatura che ha una dimensione soprannaturale e tende ad un fine soprannaturale. Il fine naturale dell’uomo è simile a quello degli altri mammiferi, degli altri animali e degli altri esseri viventi: conservare il proprio essere, accrescersi, riprodursi. Il suo fine soprannaturale è quello di cercare la verità, e la verità, per la creatura, è arrivare a conoscere, adorare e servire il Creatore.

Tutte le filosofie relativiste sono nemiche della verità, perché negano che questa esista, oppure – il che è lo stesso – che sia raggiungibile dall’uomo; e tutte vorrebbero rinchiuderlo e imprigionarlo entro un orizzonte puramente immanentistico, consegnando alla sua transitorietà e caducità, come se la morte fosse il suo destino. Dio, però, non ha ci ha creati per la morte, ma per la vita; così come non ha creato il mondo per il nulla, ma per la pienezza. Se noi fossimo stati creati per la morte, non si riscontrerebbe, né in noi stessi, né nell’universo, quell’ordine che, invece, vi si riscontra; e non vi si riscontrerebbero quelle finalità che sono inscritte nella natura stessa delle cose. La prima delle quali è la ricerca delle perfezione: tutte le cose tendono ad uno stato di perfezione, cioè tendono a realizzare il proprio essere nella maniera più piena, più ordinata, più veritiera e più felice: infatti, dire che le cose sono fatte per la perfezione è lo stesso che dire che esse sono fatte per la felicità. La felicità della creatura consiste nel raggiungere la propria perfezione: e siccome tutte tendono ad essere perfette, anche se nessuna vi riesce interamente, ciò è il segno che la felicità è il loro destino, e non l’insensatezza di un’esistenza destinata a perdersi nel nulla e nella morte. Nel caso dell’uomo, la perfezione consiste nel realizzare quella somiglianza con Dio che è inscritta nel suo disegno originario, in quanto creatura fatta ad immagine di Lui. Vi sono, però, due maniere di tendere a tal fine: una, gonfia di superbia, è quella di chi vorrebbe farsi egli stesso simile a dio, senza riconoscere il proprio legame creaturale e, anzi, quasi in competizione con Lui: è la strada del mago, ovvero del demonio. L’uomo che vuol farsi il dio di se stesso finisce, inevitabilmente, per diventare la scimmia del demonio, e, nello stesso tempo, lo strumento e il servitore del demonio. L’altra strada è quella del pieno riconoscimento del Creatore, l’adorazione e l’infinita gratitudine nei suoi confronti, per poter partecipare così alla sua vita, alla vita divina: mistero che si realizza, quaggiù, mediante la grazia, e nell’altra vita, mediante l’eterna beatitudine. Una terza possibilità è quella di vivere inconsapevolmente, alla giornata, dominati dalla precarietà, compiacendosi della finitezza, e coltivando il malefico pessimismo dei relativisti, che è una dottrina di morte; frattanto, stordendosi con dosi massicce di piacere grossolano e a buon mercato: come il drogato che cerca di non pensare, a furia di "sballi", alla morte e alla dissoluzione che l’attende.

Dobbiamo fare, pertanto, una scelta: o vivere secondo la legge naturale, che Dio stesso ha inscritto nella nostra anima, tenendoci aperti, nel medesimo tempo, alla rivelazione soprannaturale, opera della grazia divina, che, sola, ci consente d’intravedere la Verità, e il cammino che conduce verso di essa; oppure chiuderci al nostro destino, che è un destino di libertà, felicità e perfezione, per renderci più miserabili delle bestie che strisciano e conducono un’esistenza priva di speranza; oppure ancora, inseguire il folle miraggio di esser simili a dio, con le nostre sole forze, empiamente, meritandoci il castigo eterno. Non vi sono altre alternative. Con la natura, dunque, fino a che essa ci conduce verso il nostro fine naturale, e ci preserva per il nostro fine soprannaturale; oltre la natura, se vogliamo puntare alla nostra perfezione, cioè alla felicità: che è il nostro destino, se lo vogliamo…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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