
Chi detesta la voglia di pulito?
15 Novembre 2017
La misura è colma: e adesso, che fare?
15 Novembre 2017Il 22 gennaio 1899 il papa Leone XIII indirizzava la lettera apostolica Testem benevolentiae al cardinale James Gibbons di Baltimora, e, attraverso di lui, a tutto l’episcopato degli Stati Uniti, per condannare esplicitamente gli errori dell’americanismo, visto come una forma particolare dell’eresia modernista (che sarebbe stata a sua volta condannata da Pio X con il decreto Lamentabili e con l’enciclica Pascendi, entrambi del 1907. Al centro della condanna c’era la pretesa, da parte di alcuni esponenti del clero statunitense, di percorrere una sorta di "via americana" al cattolicesimo, ossia di adattare la prassi e la dottrina della Chiesa alle particolari circostanze di una nazione posta al di fuori dell’Europa e a maggioranza protestante. In quel documento ufficiale, Leone XIII ribadiva, invece, la tradizionale posizione della Chiesa e l’inalterabile insegnamento del Magistero: la Chiesa è una e non esistono diverse maniere di essere cattolici, a seconda del luogo di residenza, pertanto anche la dottrina deve essere una ed una sola. Ma non era in ballo solo la questione della diversità locale, come, per esempio, era avvenuto con la questione dei riti cinesi e dei riti malabarici; era in ballo, e in misura anche maggiore, la questione della modernità. Gli americanisti sostenevano che la Chiesa cattolica deve adattarsi alle particolari condizioni di un Paese progredito, in altre parole che non si poteva essere cattolici in America come lo si poteva essere nella vecchia Europa, perché negli Stati Uniti la modernità aveva introdotto dei cambiamenti decisivi nei modi di vivere, di sentire e di pensare. Ma è appunto qui che Leone XIII vede profilarsi il pericolo più grave, in una richiesta di adattamento della prassi e della stessa dottrina cattolica alle esigenze del progresso; e ribadisce che il compito della Chiesa e del romano pontefice è quello di preservare inalterato il Deposito della fede.
A quasi centoventi anni di distanza, possiamo vedere ora, in prospettiva storica, che Leone XIII aveva toccato, in quel documento, un punto centralissimo nella vita della Chiesa dei tempi moderni. La caratteristica essenziale della modernità è il carattere cogente, ultimativo e totalitario della prassi di cui costantemente si alimenta, in nome del progresso: la modernità è l’ideologia che capovolge il rapporto tradizionale fra teoria e prassi e proclama che è la teoria che deve adeguarsi alla prassi, non viceversa. Ciò si spiega considerando che l’empirismo, l’utilitarismo e il pragmatismo (tutti di origine anglosassone) sono alla base della filosofia moderna: una volta che la filosofia si sottomette alla prassi, tutta l’impalcatura ideale di una società si subordina volontariamente alle situazioni concrete, e il fatto domina sull’idea. Tradotte nella vita della Chiesa, queste idee significano, né più, né meno, che non deve esserci una dottrina unica, assoluta, alla quale i fedeli devono uniformarsi, ma che è la realtà concreta della vita dei fedeli che deve essere riconosciuta dalla dottrina, e incorporata in essa. Se la dottrina insegna che il divorzio è un peccato mortale, perché configge con l’indissolubilità del Sacramento del matrimonio, però, nella pratica, molti cattolici ricorrono al divorzio, in base a questa impostazione la dottrina dovrebbe modificare la propria posizione, e accettare che, almeno a talune condizioni, la separazione e il divorzio diventino moralmente ammissibili, con tutto ciò che questo comporta, ad esempio la separazione dei figli dal loro nucleo originario e la prospettiva, o la possibilità, di un nuovo matrimonio per i coniugi divorziati. L’ideologia del progresso, cuore della modernità, presenta i cambiamenti sociali in atto come qualcosa che la società deve riconoscere, indipendentemente da ogni valutazione morale, solo perché il progresso va sempre avanti (o crede di andare avanti) e quindi bisogna prendere atto di una tale "avanzata", né ci si può opporre ad essa in nome di valori assoluti, ormai percepiti come "astratti" e "irrealistici", se non decisamente "retrogradi".
La realtà viene fatta coincidere con l’esistente: ciò che esiste e ciò che è giusto che esista diventano una cosa sola. Se la Chiesa accettasse questo principio, si suiciderebbe, e, quel che è peggio, tradirebbe la propria missione e la propria ragion d’essere: la custodia fedele e la trasmissione del Deposito della fede, così come l’ha ricevuta dagli Apostoli, e questi da Gesù Cristo. Eppure, oggi stiamo assistendo esattamente al compimento di questo processo: a una progressiva accettazione, da parte della Chiesa, ora tacita, ora perfino esplicita, dei cambiamenti sociali e dei comportamenti morali, e perfino dei cambiamenti nella trasmissione del Magistero, presentando tale accettazione come uno sforzo per "includere" tutti, per non "escludere" alcuno (principio già, di per se stesso, eretico) e non per ciò che realmente essa è: una resa incondizionata alle tendenze della modernità, anche in ciò che hanno d’ingiusto, d’immorale e di anticristiano. Siccome nella Chiesa ci sono delle persone omosessuali, dice il gesuita James Martin, che ha molto seguito nella Chiesa cattolica degli Stati Uniti, tanto vale dichiarare che l’omosessualità non è peccato e tanto vale, come ha fatto il vescovo spagnolo Julian Barrio, consacrare sacerdoti due omosessuali notori, nonché attivisti nelle organizzazioni LGBT. È quasi imbarazzante far notare l’estrema rozzezza intellettuale, oltre alla miseria morale, di questa prospettiva, che ha pure l’improntitudine di presentarsi come "sincera" e nemica delle "ipocrisie": l’esistenza delle situazioni di fatto non comporta affatto il dovere di modificare dottrina e morale in base ad esse; se ci si mette su questa strada, qualunque aberrazione diventa possibile (ad esempio: il riconoscimento giuridico della pedofilia), posto che questa si diffonda abbastanza nella società, da far sì che qualcuno si faccia paladino della sua "causa", in nome della non discriminazione, della tolleranza, dell’accoglienza e dell’uguaglianza di tutti gli uomini davanti a Dio e davanti alla legge; il che, sia ben chiaro, non è più cattolicesimo, ma relativismo, cioè il suo esatto opposto.
Che la mentalità del mondo sia penetrata ormai largamente nel tessuto della Chiesa e che abbia contaminato una quantità di pastori e di sacerdoti, è un fatto che sta sotto gli occhi di tutti, e non c’è alcun bisogno di provarlo. Quando un insegnante di una scuola cattolica, come è accaduto nel 2016, in Belgio, al professor Léonard, viene licenziato per aver definito l’aborto un omicidio, si tocca con mano questo fatto: evidentemente, il direttore di quella scuola cattolica ha pensato che le famiglie degli alunni non avrebbero accettato che un insegnante potesse dire una cosa simile, e ha voluto accontentarle, placando la loro ira, e prevenendo le minacce di ritirare le iscrizioni dei pargoletti, allontanando la pietra dello scandalo; peccato soltanto che l’affermazione del professor Mercier sia perfettamente in linea con il Magistero, mentre la decisione di licenziarlo, per aver detto quella frase, non lo è. Come se non bastasse, il clero belga ha immediatamente scaricato il malcapitato, e i vescovi belgi sono arrivati al punto di definirlo un "provocatore". Avrebbero dovuto dire, se fossero stati un po’ più sinceri: un "rompiscatole". Uno come il professor Mercier, infatti, viene a rompere le uova nel paniere a tutto quel clero, a tutta quella parte della Chiesa, che altro non domandano se non di poter continuare a vivere in pace, tollerati dalle autorità laiche, accettati dall’opinione pubblica, non invisi alla stampa e agli altri mezzi d’informazione, anzi, addirittura visti con simpatia, se si acconciano a dire ciò che piace alla gente, ciò che scusa il peccato e giustificata l’errore, magari anche scagliando qualche frecciata contro la Chiesa, se questa si pone in mezzo come una pietra d’inciampo. Così fanno, dalle nostre parti, tutti quei vescovi e sacerdoti progressisti e tutti quegli intellettuali cattolici di sinistra che sono ogni giorno in qualche salotto televisivo radical-chic, graditi ospiti di qualche condutture massone, anticlericale e anticristiano: si pavoneggiano, sorridono alle telecamere, gongolano di piacere all’applauso del pubblico, e intanto sparano enormità e inanellano eresie, totalmente noncuranti del Deposito della fede e del loro preciso dovere di difenderlo sempre, costi quello che costi, fosse pure di affrontare, non solo l’impopolarità, le critiche o la persecuzione, ma anche il martirio. Il caso Mercier è un caso emblematico. L’aborto è stato riconosciuto come legge dello Stato in quasi tutti i Paesi occidentali; milioni di donne vi fanno ricorso volontariamente, per interrompere una gravidanza sgradita, e molte di essere sono di religione cattolica: ergo, secondo la prospettiva aperta dall’americanismo e ampliata dal modernismo, la Chiesa deve accettare il fatto, o voltare la testa dall’altra parte per non vederlo; deve, in ogni caso, astenersi dal criticare, dal denunciare, dal fare parola della cosa: perché solo così, tacendo e uniformandosi, essa dimostra di avere le carte in regola per essere accettata a pieno titolo (o quasi) nella città moderna; solo così dimostra di saper ascoltare, di saper dialogare, di sapere accettare, e di non giudicare mai nessuno, insomma di essere diventata abbastanza laica da esser considerata meritevole di sopravvivere.
Evidentemente, la coerenza, la fedeltà alla dottrina, il rispetto del Magistero e l’osservanza della morale cattolica sono cose vecchie e antiquate, passate irrimediabilmente di moda; e chi si ostina ad aggrapparvisi diventa un problema, perché intralcia il proficuo "dialogo" fra la Chiesa, ormai in ostaggio del modernismo, e il mondo: uno strano dialogo, in verità, dove a parlare, anzi, a imporre le sue "verità", è sempre uno solo dei due interlocutori, il mondo, mentre all’altro, la Chiesa, non viene chiesto se non di assentire a tutto e di "aggiornarsi". Possiamo solo immaginare cosa capiterebbe a un san Giovanni Battista dei nostri giorni, il quale dicesse bello e chiaro a un peccatore, magari a un peccatore illustre: Non ti è lecito fare questo!; il suo vescovo si affretterebbe a cacciarlo dalla sua parrocchia, se fosse un sacerdote; se fosse un laico, la stampa lo farebbe a pezzi, andrebbe a pescare i suoi vizi nascosti e inconfessabili, e, all’uopo, li fabbricherebbe, in modo da demolirne l’immagine e vanificare così le sue parole. Di quale colpa si era macchiato don Alessandro Minutella, sacerdote palermitano che è stato cacciato dal suo vescovo, Corrado Lorefice (quello che va a spasso in bicicletta dentro la sua cattedrale)? Parlava da prete cattolico; ribadiva la dottrina cattolica e la morale cattolica. Pertanto, è stato cacciato: non era più "in comunione" con la Chiesa, questa l’imputazione del suo superiore. Già: ma di quale chiesa stiamo parlando? Perché una Chiesa che si discosta dal Deposito della fede e contraddice il Magistero, non è più la Chiesa cattolica; e una chiesa che caccia don Minutella, o che commissaria, senza spiegazione alcuna, i Francescani e le Francescane dell’Immacolata, non è più la vera Sposa di Cristo, ma è diventata qualcos’altro; qualcosa che preferiamo non dover neppure nominare. Il paradosso è che, se don Minutella avesse chiamato all’altare, nel pieno della santa Messa, due donne reduci dal "matrimonio" civile, presentandole con gran sorrisi ai fedeli e auspicando che le loro nozze si possano svolgere al più presto anche in chiesa, come ha fatto il suo confratello, palermitano anch’egli, Cosimo Scordato, il vescovo non l’avrebbe cacciato, e nemmeno rimproverato: nulla, infatti, è stato intrapreso dalla gerarchia nei confronti di don Scordato. Dunque, in nome della prassi, il messaggio è chiaro: fuori i preti che non l’accettano, dentro gli altri.
A questo punto bisogna dire chiaro e forte che un cattolicesimo della prassi non esiste, non è mai esistito e non può esistere. Gesù Cristo, il solo modello perennemente valido per qualsiasi cristiano, non si è mai adattato a una simile strategia; non ha mai mostrato di considerare come la cosa più importante andare d’accordo con il mondo, essere popolare, ricevere l’approvazione in cambio del permissivismo; tutto al contrario, è sempre stato estremamente chiaro quanto alla dottrina, e intransigente in fatto di morale. Gesù è stato misericordioso, ma senza ambiguità: all’adultera, ha raccomandato: Vai, e d’ora in avanti non peccare più. Gesù chiama peccato il peccato; non parla di situazioni complesse, nelle quali ciascuno fa quel che può, meglio che può; e non si è mai sognato di dire che Dio stesso, in certe circostanze, ci domanda di venir meno a un Sacramento, per esempio quello del matrimonio, come invece appare dalla esortazione apostolica di papa Francesco Amoris laetitia. Gesù non ha mai mercanteggiato né sulla morale, né sulla dottrina: quanto a quest’ultima, ha affermato che neppure uno "iota" può essere tolto dalla Legge; e ha costantemente messo in guardia contro il pericolo, per i suoi seguaci, di uniformarsi al sentire e al pensare del mondo, come quando ha respinto san Pietro con le severe parole: Via da me, satana!, perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini. Non osiamo nemmeno immaginare quale trattamento riceverebbe Gesù, oggi, se tornasse fra di noi; non osiamo nemmeno pensare a come reagirebbe il "suo" clero, davanti alle sue chiare, recise prese di posizione riguardo al male, al peccato, al giudizio e alle sue conseguenze per la vita eterna. Gesù parlava dell’inferno e metteva in guardia contro la dannazione eterna; il clero modernista non parla mai del diavolo, della morte, del giudizio, della vita eterna. Senza dubbio Gesù, oggi, sarebbe considerato il re dei seccatori, il rompiscatole per eccellenza: verrebbe a rompere le uova nel paniere e a guastare i beati sonni di una chiesa (con la minuscola) che, per quieto vivere e per comodità, si è adagiata, distesa addirittura nei modi di pensare e di agire della società moderna. Perché Gesù non era, non è, e non sarà mai, "moderno", se con questa parola s’intende uno che è svelto a mettersi in sintonia coi tempi nuovi, che vuol navigare sempre secondo la corrente. E questo per un motivo semplicissimo: Gesù è, dunque è perenne; il Vangelo è perenne; e la Chiesa, se vuol esser fedele, deve trasmettere la perennità, non adeguarsi alle situazioni di fatto.
Fonte dell'immagine in evidenza: RAI