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Gesù Cristo, solo modello di vita perfetta

C’è un autore inglese che, da noi, è quasi sconosciuto: Gerard Manley Hopkins (1844-1889), poeta notevolissimo, precursore del modernismo anglosassone (termine strettamente letterario, che non ha nulla a che fare col modernismo teologico) di Yeats e di Pound, il quale visse del tutto ignorato dai suoi contemporanei, anche perché, per modestia, non volle pubblicare le sue opere che apparvero solamente postume, ben trent’anni dopo la sua morte, nel 1918. Tanta modestia nasceva da una ragione, diciamo così, professionale: Hopkins si era convertito dall’anglicanesimo al cattolicesimo all’età di ventidue anni, ricevendo il Battesimo dal cardinale Henry Newman, nel 1866; poi era stato ordinato sacerdote ed era entrato nell’ordine dei Gesuiti, perciò riteneva ingiusto cercare per sé la gloria terrena, in quanto voleva vivere il cristianesimo come una offerta totale di sé a Dio. Obbediente ai suoi superiori, si trasferì a Dublino come professore di letteratura greca e latina presso quella Università, pur desiderando ardentemente di poter fare ritorno in Inghilterra, dove aveva lasciato tutti gli amici e gli affetti. Negli ultimi anni fu tormentato da crisi depressive, che traspaiono nei suo versi bellissimi e vibranti; era anche afflitto da un complesso per la sua bassa statura, che rese il suo carattere sempre più solitario e introverso. Rimase là dove i suoi superiori lo volevano e morì in Irlanda, si può dire ignorato dal mondo; solo una generazione più tardi la cultura di lingua inglese seppe che su questa terra era passato uno dei maggiori poeti dell’età vittoriana, ma era vissuto nell’ombra e nel nascondimento. A ciò si aggiungano le tensioni e i conflitti che probabilmente logorarono il suo animo sensibile e scrupoloso, a causa di una omosessualità latente, che affiora in alcune delle sue poesie, nelle quali egli appare dominato dal fascino della bellezza maschile. A giudizio di John Bailey (1925-2015), uno dei maggiori critici letterari britannici, tutta la vita di Hopkins si è svolta sotto il segno della malinconia, del fallimento e del senso d’impotenza e di sconfitta. Eppure egli fu un predicatore apprezzato, un cattolico pieno di fede, che seppe innalzarsi fino alla contemplazione dell’amore di Dio e trasmettere agli altri la forza trascinante del sentimento religioso; forse di lui si può dire quel che Stazio dice al Virgilio dantesco: facesti come quei che va di notte, che porta il lume dietro e sé non giova, / ma dopo sé fa le persone dotte… (Purgatorio, XXII, 67-69), cioè spinse verso la fede e sorresse gli altri, anche se lui, personalmente, solo a stento poté intravvedere quella pace che è il premio di coloro i quali si abbandonano in Dio, senza riserve.

Le sue poesie toccano il vertice della bellezza e della potenza espressiva nel poemetto Il naufragio del "Deutschland" (The Wreck oof the "Deutschlan"), ispirato ad un fatto storico realmente accaduto. Durante il Kulturkampf, la durissima campagna anticattolica scatenata in Germania dal Cancelliere Otto von Bismarck, in nome della presunta "civiltà", in seguito alla promulgazione delle leggi Falk, cinque monache francescane tedesche furono costrette, fra gli altri, a lasciare la Germania e trovarono la morte nel naufragio della nave a bordo della quale stavano viaggiando, dirette in America, in seguito all’espulsione dalla loro patria, il vapore del Norddeutscher Lloyd, Deutschland, salpato da Bremerhaven e diretto a New York col suo carico di emigranti. Il naufragio ebbe luogo il 6 dicembre 1875 a Kentish Knock, nel Mare del Nord, al largo dell’estuario del Tamigi. La poesia di Hopkins fu composta nell’immediatezza del fatto, che lo aveva colpito molto, tra gli ultimi giorni del 1875 e i primi del 1876, e, come tutte le altre, non avrebbe visto la luce se non alla fine della Prima guerra mondiale, nel 1918. Il tema del naufragio del Deustschland è stato ripreso, più recentemente, dallo scrittore Anthony Burgess, nel suo terzo romanzo del "quartetto Enderby", Il testamento Clockwork o Enderby’s End, del 1974. L’episodio delle cinque suore tedesche dimostrava, per Hopkins, che l’era delle persecuzioni era ricominciata, o forse non era mai finita, e che chi segue Gesù Cristo si carica dell’odio del mondo e deve affrontare difficoltà e tribolazioni, ma, in compenso, trova proprio in Gesù il modello perfetto, l’"eroe" la cui imitazione è capace di dare un senso alla vita di ciascun essere umano.

Ed ecco uno dei sui sermoni edificanti, nei quali egli dispiega una prosa limpida e chiara, assai più facilmente accessibile dei suoi versi, sovente oscuri per l’originalità della forma metrica e sintattica, nel quale propone ai fedeli l’imitazione di Gesù Cristo quale "eroe" della loro vita d’ogni giorno (da: G. M. Hopkins, Poesie e prose scelte da diario, dalle prediche e dalla corrispondenza, a cura di A. Guidi, Parma, Guanda Editore, 1965):

Nostro Signore Gesù Cristo, fratelli miei, è l’eroe nostro, un eroe che tutto il mondo vuole. Voi sapete come sono state scritte le fiabe: pongono un uomo di fronte al lettore e glielo mostrano generalmente bello, audace; lo chiamano il mio eroe, il nostro eroe. Le madri fanno spesso un eroe del figlio loro; le ragazze del loro innamorato, e le buone mogli del loro marito. I soldati fanno un eroe di un gran generale; un partito, del suo capo; una nazione, di ogni grande uomo che le porti gloria, re o guerriero o uomo di Stato o pensatore o poeta, o chiunque egli sia.

Ma l’eroe è lui, Cristo.

Egli è anche l’eroe di un libro o di alcuni libri, dei divini Vangeli. È il guerriero e conquistatore, di cui è scritto che uscì conquistando e a conquistare. È re, Gesù di Nazaret, re dei Giudei, sebbene quando egli giunse al suo regno la gente non ve lo accolse e ora, il suo popolo avendolo respinto, noi Gentili siamo i suoi eredi. È uomo di Stato, che tracciò nel proprio sangue il Nuovo testamento e fondò la Chiesa cattolica romana, che è infallibile. È pensatore, e ci insegnò divini misteri. È oratore e poeta, come appare dalle sue parole e parabole eloquenti. È l’eroe di tutto il modo, il desiderio delle nazioni.

Ma è, inoltre, l’eroe delle singole anime […]: le vergini lo seguono ovunque egli vada; i martiri lo seguono per un mare di sangue e per grandi tribolazioni; tutti i suoi servi prendono in braccio la sua croce e lo seguono. E persino coloro che non lo seguono guardano tuttavia a lui con ardore, lo riconoscono eroe, e vorrebbero rispondere al suo appello […].

Tutte le cose che concorrono a fare bello e amabile un uomo si riscontrano in Gesù Cristo. Di corpo, egli era supremamente bello […]. Vengo ora alla sua mente. Fu il genio più grande che sia mai vissuto. Voi sapete che cosa è il genio, o fratelli: bellezza e perfezione della mente. La perfezione della forma corporea distingue un uomo dagli altri uomini suoi simili; e la mente del pari può eccellere in bellezza sopra le altre menti, e questo è il genio. Quando questo genio sia debitamente istruito ed educato, è la saggezza; senza educazione il genio è imperfetto, come all’opposto la saggezza è imperfetta senza il genio. Ma Cristo eccelse e nel favor degli uomini e di Dio: ora questa saggezza, nella quale egli superò tutti gli uomini, dovette fondarsi sopra un impareggiabile genio. Cristi fu pertanto il più grande genio che sia mai esistito […].

Una prova [del suo genio] anche più bella l’abbiamo nelle sue proprie parole: Discorso della Montagna, parabole e tutti i suoi detti riferiti nel Vangelo. Noi, fratelli miei, ci abbiam fatto talmente l’abitudine da non esserne più colpiti, a quel modo che ne è colpito un estraneo il quale li oda per la rima volta; altrimenti diremmo anche noi: mai uomo parlò come parla quest’uomo […].

Se desiderate un’altra prova anche maggiore dl suo genio e della sua saggezza, guardate questa Chiesa cattolica che egli fondò, i suoi ordini, la sua costituzione, i suoi riti e sacramenti. Assai più in alto che la bellezza del corpo, più in alto che il genio e la saggezza, bellezza della mente, viene in terzo luogo la bellezza del suo carattere, del suo carattere di uomo. I suoi stessi nemici, coloro che non credono in Lui, ammettono che un così nobile carattere non fu mai visto nella natura umana […].

E questo uomo, il ritratto del quale ho tentato tracciarvi, è, o fratelli, il vostro Dio. È stato nel passato il vostro fattore; nel futuro sarà il vostro giudice. Fatene, nel presente, il vostro eroe. Dedicate un po’ di tempo a pensare a lui, onoratelo nei vostri cuori. Potete lodarlo nel vostro lavoro o sul vostro cammino. Ripentendo senza fine: gloria al corpo di Cristo nella sua bellezza, gloria al corpo di Cristo nella sua stanchezza, gloria al corpo d Cristo nella sua passione, morte e sepoltura, gloria al corpo d Cristo risorto, gloria al corpo di Cristo nel santissimo Sacramento, gloria all’anima di Cristo, gloria al suo genio e alla sua saggezza, gloria ai suoi imperscrutabili pensieri, gloria alle sue parole di salvezza; gloria al suo sacro Cuore, gloria al suo coraggio e alla sua virile umanità, gloria alla sua mitezza e alla sua misericordia, gloria a ogni battito del suo cuore, alle sue gioie, dolori, desideri, timori, gloria in ogni cosa a Gesù Cristo.

Hopkins,  in questa pagina, ci ricorda l’assoluta centralità del modello di Gesù Cristo per la nostra vita: cosa di cui troppo spesso tendiamo a dimenticarci. Gli altri modelli, se ne abbiamo, sono del tutto secondari: anch’essi, nella misura in cui si sono avvicinai alla perfezione morale, hanno scelto Lui quale modello da imitare. Il mistero di Cristo è essenzialmente questo: che Egli, vero Dio e vero uomo, ha saputo vivere da uomo, e con le sole forze umane, ma con l’aiuto della Grazia, accessibile a ogni uomo di buona volontà, quella vita perfetta, piena di amore e di giustizia (le due cose sono inseparabili) che consiste nell’essere perfettamente conforme alla volontà del Padre; e ciò è stato possibile perché Egli ha annullato radicalmente la sua propria volontà e si è fatto una cosa sola con la volontà del Padre. Il male è nella sopravvivenza del nostro egoismo, il bene è nel farsi una cosa sola con la volontà di Dio. Finché si prende a modello Cristo, nulla può andar male; il male comincia quando l’uomo pretende di vivere la propria vita come se fosse cosa sua, come se ne fosse lui il padrone, come se non esistessero limiti alle sue brame e ai suoi appetiti. Naturalmente esistono diversi gradi di male, come esistono diversi gradi di bene: il male assoluto consiste nel prendere la strada opposta alla volontà di Dio il bene assoluto (umanamente parlando, e cioè sempre imperfettamente parlando) nel farsi tutt’uno con Lui. Deviare, in maniera non decisiva né definitiva, dalla volontà di Dio, conduce al peccato veniale; la strada non è ancora smarrita, ma vi sono serie possibilità che lo sia, se l’anima persiste nell’errore, cioè nel rifiuto dell’amore di Dio.

L’amore di Dio è amore di carità, agàpe, charitas. Chi ama come Dio ci ama, non può sbagliare; l’errore comincia quando si ama in maniera puramente umana, cioè egoistica. Dio ci vuole felici, e per essere felici ci si deve uniformare alla sua volontà, che è assolutamente buona. Ecco allora che la legge morale non è una cosa estrinseca, che viene calata dall’alto e che sacrifica i nostri legittimi bisogni e le nostre sane aspirazioni al contrario è la via tracciata per noi che conduce a Dio e alla sua pace ala beatitudine in Lui. L’infelicità, sia in questa via sia nell’altra (la dannazione eterna) è il frutto di un orientamento sbagliato e di una ribellione all’offerta d’amore di Dio. Come un Padre amorevole, Egli ci mostra la via che porta alla felicità; se noi non volgiamo prestargli ascolto se vogliamo fare a modo nostro, se pretendiamo di farci legge a noi stessi, imbocchiamo strade sbagliate, che ci allontanano da Lui, cioè ci allontanano dalla felicità. Ci allontaniamo anche da noi stessi, in realtà: perché il nostro vero centro interiore, e quindi anche la nostra armonia e la nostra realizzazione, consistono nella relazione con Dio, relazione dì’amore  e fiducia assoluta. Senza di essa noi siamo solo dei miseri tronconi mutilati, come alberi cui siano state tagliate le radici: non possiamo vivere, ma solamente sopravvivere, in una disordine sempre crescente, sempre più grave. Or, Dio nessuno l’ha visto; ma gli uomini hanno visto Cristo, e Cristo è il Verbo Incarnato: Dio che si è fato uomo per venire incontro al nostro bisogno di luce, di chiarezza, di pace, e  per supplire alla nostra fragilità. C’è un solo modo di accoglierlo: essere umili. Con la superbia, l’uomo si imprigiona in se sesso e trasforma la propria vita in un inferno; e la superbia intellettuale è probabilmente la peggiore piaga della civiltà moderna; quella che ha più radicalmente allontanato gli uomini da  Dio. Ma gli uomini, lontani da Dio, sono nulla, sono peggio che nulla: sono dei bruti, sempre pronti a uccidersi fra di loro, come Caino che uccise suo fratello Abele. Ne possiamo dedurre che la civiltà moderna è la civiltà del diavolo, ossia il risultato di un progetto malefico di rifiuto e allontanamento da Dio: mai come in essa, infatti, a quel che sappiamo, gli uomini sono stati altrettanto separati da Dio, estranei a Dio, nemici di Dio. E quindi, ecco il paradosso, anche nemici di se stessi.

Prendere Cristo a modello di vita è la via più sicura per tornare all’unione con Dio e, quindi, anche alla riconciliazione con se sessi. Questo è quanto ha inteso dire Gerard Manley Hopkins ed è molo triste vedere quali siano, invece, gli "eroi" che milioni e milioni di persone, e specialmente di giovani, scelgono di avere come modelli da imitare nella loro vita, a cominciare dalle star del rock o del cinema, o peggio ancora dagli squallidi vip sfornati in serie da reality televisivi come Il grande  fratello o L’isola dei famosi. Cristo ha costantemente lottato contro le proprie debolezze e non ha mai permesso che intralciassero la sua assoluta fedeltà a Dio. Si pensi alle tentazioni nel deserto: Cristo non era insensibile alle tentazioni, ma le ha affrontate e vinte, faccia a faccia, senza flettere neppure per un istante. Una cattiva, anzi, una pessima teologia morale, figlia della cosiddetta svolta antropologica, vorrebbe ora convincere i cattolici che il problema non è il peccato, ma la mancata fedeltà a se sessi: come se fosse possibile essere fedeli a se sessi e contemporaneamente infedeli a Dio. Ma anche a quest’ultima obiezione essi rispondono alzando la posta della loro deviazione dalla retta dottrina, e affermando che Dio ci vuol vedere realizzati, fino a scusare in noi ciò che è peccato, fino a perdonare in anticipo i nostri peccati e fino a non aspettarsi, da noi, se non una vita di peccato. Gravissimo a dirsi, perfino certi documenti magisteri ali del papa (di questo papa, Francesco), come l’esortazione apostolica Amoris laetitia, autorizzano una simile, aberrante interpretazione. Ciò è completamene falso. Noi non possiamo ricavare alcun bene se non facendo la volontà di Dio; e la volontà di Dio è che noi siamo felici: ma per essere felici, dobbiamo fare quel che Lui vuole, non quel che volgiamo noi. Il padre gesuita James Martin si è  spinto tanto oltre, ad esempio, da sostenere che non c’è nulla di male nell’omosessualità e che molti santi, senza dubbio, erano omosessuali; inoltre, che il vero peccato è l’omofobia. Ora, se guardiamo proprio al caso di Hopkins, troviamo la risposta. L’omosessualità, se è una tendenza originaria e non un vizio acquisito (come sovente avviene), non è, di per sé, peccaminosa, tuttavia è espressione di un disordine oggettivo; il peccato, pertanto, non è nascere omosessuali, bensì indulgere nella sua pratica e magari, cosa peggiore di tutte (perché di scandalo alle altre anime) alla sua ostentazione e glorificazione. Ed ecco, invece,

la via che la sana teologia morale traccia all’uomo, e che vale per ogni situazione in cui l’uomo si trova tentato di cercare il proprio piacere ignorando il vero bene, il quale è tutt’uno con il progetto divino: chiedere a Dio l’aiuto per contrastare le proprie tendenze disordinate e mantenersi fedeli alla purezza che Egli desidera per noi. E la desidera per il nostro bene, ovviamente, non per il nostro male: come un padre che vorrebbe risparmiare ai suoi fogli inutili sofferenze, e perciò li mette in guardia dal seguire la strada facile, ma pericolosa, del piacere, e li richiama affettuosamente sulla strada del dovere, che è la stessa del bene e della giustizia. Se poi essi non  lo vogliono ascoltare, se non lo vogliono seguire, le conseguenze saranno dolorose: ma avranno fatto ogni cosa da soli, utilizzando in maniera pessima i doni ricevuti da Dio, a cominciare dal più preziosi di tutti: il libero arbitrio.

Pertanto, è inaccettabile che certi sedicenti teologi, oggi, predichino una morale che disgiunge l’idea del bene, magari equiparato, in pratica, al piacere, e contrabbandato sotto le mentite spoglie di una pseudo realizzazione di se stessi, dall’idea della dell’agàpe, dell’amore divino, comprensivo della giustizia: nessuna giustizia, infatti, è presente nel disordine morale, e quindi, necessariamente, nessuna felicità vera…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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