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12 Marzo 2016L’Italia nata dalla disfatta della Seconda guerra mondiale è stata l’Italia della Resistenza; la Resistenza è stata fatta, in gran parte, dalle forze politiche e militari del Partito Comunista italiano; ergo, l’Italia del 1945 è stata sottoposta a un curioso esperimento culturale: sfruttando le istituzioni democratiche e la prassi democratica nell’ambito della cultura, della scuola e dell’informazione, i peggiori nemici della democrazia hanno potuto raccontare al Paese la loro "verità", e farla passare come la versione ufficiale e "definitiva" della storia italiana, intrisa di trionfalismo, di bugie e di mistificazioni, sì da occultare la realtà di una spietata guerra civile e da sostituirla con quella di un nuovo Risorgimento, la Resistenza appunto, eroica lotta per la libertà del popolo italiano, alla quale la nazione doveva essere eternamente debitrice per la ritrovata democrazia.
È in questo modo che, per quasi settant’anni, è sparita la memoria di coloro che erano stati fatti sparire: i forse 30.000 morti ammazzati (ma la cifra è quanto mai ipotetica) a guerra ormai conclusa, nell’aprile e nel maggio del 1945, specialmente nel cosiddetto "Triangolo della morte" emiliano, ma anche nelle altre zone dell’Italia centro-settentrionale; la memoria degli infoibati, e non solo di quelli della Venezia Giulia, nonché il dramma dell’esodo dei 350.000 profughi istriani, fiumani e dalmati, equiparati dalla pubblicistica comunista ad altrettanti "fascisti"; la memoria delle donne e delle bambine stuprate perché "repubblichine", o dei preti assassinati in odium fidei, cioè per il solo fatto d’essere preti; i furti, le rapine, le violenze d’ogni tipo, e, sovente , le vendette personali, che, in quei tragici giorni, che ben si possono definire "i giorni di Caino", si scatenarono senza pietà, ma che vennero poi passate sotto silenzio da tutti gli storici "ufficiali", la cui unica preoccupazione fu quella di magnificare le gloriose imprese dei partigiani, anche a costo di far passare l’attentato di via Rasella per una coraggiosa azione di guerra, e l’assassinio del vecchio filosofo Giovanni Gentile, per una legittima e doverosa punizione inflitta a un pericoloso ideologo della dittatura.
Si volle far credere che la primavera del 1945 fu una specie di grande festa nazionale, e si nascose il fatto che coincise con un orribile macello a danno dei vinti, e anche di molte persone che non avevano altra colpa se non quella di non condividere le ideologie di sinistra e di rappresentare, per il solo fatto di esistere, dei potenziali ostacoli alla marcia trionfale verso la rivoluzione comunista. Perché era questo il vero e principale obiettivo dei partigiani comunisti, e specialmente dei membri dei G. A. P. (Gruppi di Azione Patriottica) che agivano in città, in piccoli gruppi, insanguinando le strade con i loro assassinii mirati: preparare la strada alla seconda fase, dopo la sconfitta dei Tedeschi, ossia l’instaurazione del regime sovietico, cosa che andava preparata togliendo di mezzo, o terrorizzando, i membri della borghesia, la classe nemica del proletariato; e, naturalmente, anche il clero cattolico e tutti coloro i quali, in un modo o nell’altro, avrebbero potuto ostacolare tale disegno (nel caso del Friuli, ad esempio, quei partigiani che non condividevano l’idea di cedere ai "compagni" slavi vaste zone di confine: come si vide nell’eccidio della malga di Porzûs).
Fra questi "nemici del popolo" vi erano anche i seminaristi, futuri preti, non importa se si trattava di ragazzini di tredici o quattordici anni. Andavano eliminati anche loro; oppure bisognava fare in modo di spaventarli a morte, di farli abiurare, di indurli a lasciare il seminario e a rinunciare alla loro vocazione religiosa. Così, mentre nel Nord Italia non mancarono i preti che incitarono i partigiani, anche comunisti, a prendere la via dei monti, li aiutarono a rifornirsi di armi, benedirono la lotta fratricida che conducevano senza riguardo ai mezzi (vedi il caso di don Giuseppe Faè nel paesino di Montaner, in provincia di Treviso, al quale abbiamo dedicato un paio di articoli; ma furono davvero molti i don Faè, fra il 1944 e il 1945), i partigiani comunisti assassinarono complessivamente, e specialmente nelle zone "rosse" dell’Emilia e della Romagna, almeno un centinaio di sacerdoti, e persino dei giovanissimi seminaristi, sovente per la sola ed unica ragione che costoro rappresentavano una ideologia incompatibile con l’instaurazione della società comunista, così come la concepivamo loro, ossia in termini staliniani.
Fra le vittime di questa rabbiosa caccia all’uomo vi fu anche un ragazzino di 14 anni, Rolando Rivi, nato a San Valentino, frazione di Castellarano, in provincia di Reggio Emilia, il 7 gennaio 1931 e ucciso dai partigiani comunisti, dopo essere stato rapito, picchiato e seviziato per tre giorni, il 13 aprile 1945, la cui unica colpa era stata quella di andare in giro con l’abito da sacerdote, in una zona dove l’odio anticristiano era giunto all’esasperazione. Non esisteva neppure alcuna giustificazione di ordine "militare": la Linea Gotica stava crollando sotto i colpi dell’ultima offensiva anglo-americana, i Tedeschi e i fascisti erano ovunque in rotta, e la fine della guerra era solo questione di pochi giorni, forse di ore, non solo in Emilia, ma in tutta Italia e anche nel resto d’Europa.
Così ha ricordato quell’episodio la giornalista Simonetta Pagnotti in un articolo apparso sulla rivista settimanale «Credere. La gioia della fede» (Milano, Edizioni San Paolo, n. 27, 6 ottobre 2013, pp. 27-29):
«Aveva l’età dei ragazzi che si preparano all’esame di terza media quando fu sequestrato, torturato e poi barbaramente ucciso dai partigiani comunisti del battaglione "Frittelli", brigata "Modena montagna". Era il 13 aprile del 1945, a un passo dalla fine della guerra. "Un prete di meno", dissero i suoi assassini. In realtà Rolando Rivi era un semplice seminarista che non dimostrava i suoi 14 anni. Ma non voleva rinunciare alla tonaca nera che allora usavano i "pretini". "Non voglio toglierla, significa che io sono di Gesù", diceva con ostinazione. Oggi una delle rare foto d’epoca ci restituisce l’immagine di quel cappello rotondo troppo grande, le orecchie pronunciate, gli occhi scuri e intensi di un adolescente con in testa pensieri grandi e un fisico che non vuole crescere, ancora da bambino.
Il 5 ottobre [del 2013] Rolando viene proclamato beato a Modena. Il martirio di Rolando non è "a favore di una fazione contro l’altra: muore per tutti e nell’evento contenuto un alto valore civile", spiega monsignor Antonio Lanfranchi, vescovo di Modena. […]
San Valentino figura sulle guide turistiche per la sua pieve romanica. Rolando Rivi si è formato proprio qui. Era un leader riconosciuto, uno di quei bambini che sanno trascinare i coetanei, nel bene e nel male. Lui la sua scelta l’aveva fatta. Una scelta semplice e tenace come la fede dei suoi genitori, cristiani e contadini, papà Roberto e mamma Albertina. Rolando era nato nella frazione del Poggiolo, a pochi metri in linea d’aria dalla chiesa, il 7 gennaio del 1931, secondo di tre fratelli. Una famiglia di fede solida, serena e laboriosa. "Diventerà un santo o un mascalzone", dice di lui la nonna. Frequenta le elementari in paese. È pieno di amici ma decide che il suo migliore amico è Gesù.
Fin da subito è un testimone. Serve Messa, guarda l’esempio del suo parroco, don Olinto Mazzochini, e decide che da grande sarà come lui. La Comunione e la Cresima rafforzano la sua scelta. I suoi non lo spingono ma nemmeno lo ostacolano. Rolando ha 11 anni, finisce le elementari con un giudizio più che brillante ed entra nel seminario di Marola. Ha le idee chiare. Diventerà prete e poi missionario. Siamo nel ’42. Dopo due anni i tedeschi occupano la struttura e i seminaristi devono tornare a casa. Anche Rolando quell’estate rientra a San Valentino. Il clima è cambiato. Il paese è vessato dalle incursioni dei tedeschi e dei partigiani., i sacerdoti sono malvisti e rischiano la pelle. Siamo nel triangolo della morte, senario di numerosi crimini commessi da sedicenti "rossi". Rolando non si vuole togliere l’abito, nonostante il suo vecchio parroco sia appena stato trasferito in un luogo più sicuro dopo essere stato aggrediti e picchiato da alcuni partigiani comunisti. Il nuovo parroco è don Alberto Camellini, ha solo 25 anni ed è al suo primo incarico. Sarà uno dei testimoni al processo contro i suoi assassini.
Si arriva così al 10 aprile del ’45. Dopo la Messa del mattino Rolando va a studiare in un bosco vicino a casa. I genitori trovano i suoi libri e un biglietto lasciato dai partigiani, in cui si dice di non cercarlo. Ma Rolando non torna. Il papà e il giovane parroco si mettono in viaggio e scoprono la terribile verità. Rolando è stato sequestrato, portato in un casale a Piane di Monchio, nell’Appennino modenese, torturato per tre giorni e infine ucciso il 13 aprile, alle tre del pomeriggio. Due scariche di rivoltella, al cuore e alla testa. La tonaca l’hanno usata per farne un pallone e poi appesa come un trofeo. Prima di morire, ha chiesto ai suoi assassini di pregare per mamma e papà.»
Per oltre mezzo secolo ci è stato raccontato, dai maestri, dai professori e dai libri di scuola, che la Resistenza (con la lettera maiuscola) è stata la pagina più bella e luminosa della nostra storia contemporanea; che i partigiani erano eroici e disinteressati combattenti della libertà; che i comunisti furono la punta di diamante di quel grande movimento di popolo, finalizzato alla rinascita morale e materiale della nostra povera Patria, trascinata nel disonore dalla dittatura fascista e avvilita nel consesso delle nazioni dal peso della disfatta. Non è che tutti mentissero: mentivano quelli che sapevano la verità; per la maggior pare, ripetevano quel che avevano sentito dire, quel che tutti dicevano, a cominciare dalle più alte istituzioni dello Stato: ma il risultato è che al popolo italiano è stata scippata la verità, è stata nascosta, e non gli è stato permesso di sapere che, oltre ai sette fratelli Cervi, fucilati dai fascisti, ci furono anche i sette fratelli Govoni, massacrati dai partigiani comunisti; che, mentre i genitori dei primi ebbero infiniti attestati di stima e di solidarietà morale, a quelli dei secondi non fu riservata nemmeno una parola di condoglianze; e che ci sono stati occultati i nomi di un ragazzino come Rolando Rivi, ucciso perché voleva diventare prete, o di una ragazza di ventitre anni, Norma Cossetto, stuprata innumerevoli volte prima di essere gettata in una foiba, con un pezzo di legno infilato nella vagina, forse da partigiani comunisti slavi, perché italiana, o forse da sedicenti partigiani comunisti italiani, perché figlia di borghesi.
Il fatto che queste verità siano state occultate ha reso possibile un fatto straordinario: la diffusione dell’ideologia comunista in un Paese che, se avesse saputo ciò che i comunisti avevano fatto durante la guerra civile, vogliamo crede che l’avrebbe rigettata con sdegno; la marcia, apparentemente inarrestabile, e culminata nei moti studenteschi del 1968, di quella ideologia, che si auto-presentava come l’ideologia risolutiva, quella che avrebbe realizzato la fine del millenario sfruttamento dell’uomo sull’uomo; e la sua glorificazione da parte di una intera generazione di intellettuali, che erano e si dicevano comunisti, in diverse varianti, ma con l’unico obiettivo finale di porre fine alla storia e realizzare il Paradiso in terra, mediante l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione. Ad essi si affiancavano un gran numero di preti e di cattolici di sinistra, i quali, con diverse motivazioni e numerose sfumature, erano d’accordo sul fatto che il progresso coincidesse con una futura società "socialista" (forse questa parola faceva meno paura ai pusillanimi), e che il Vangelo altro non sia che una sorta di anticipazione del «Manifesto» di Marx ed Engels. La mistificazione storica si spinse tanto avanti da conquistare posizioni accademiche in tutto il mondo: solo così si possono spiegare fatti sconcertanti, per non dire incredibili, come — tanto per citarne uno, fra mille altri — il conferimento del Premio Nobel per la Letteratura a un Dario Fo, giullare blasfemo e scadentissimo letterato, mentre tale riconoscimento veniva ostinatamente negato ad un poeta della statura di Mario Luzi, forse appunto perché troppo scopertamente cattolico.
Viene da chiedersi come sia stato possibile che la verità storica sia stata sequestrata per più di sessant’anni ad un popolo intero; come sia stato possibile che sessanta milioni di Italiani si siano lasciati raccontare una versione totalmente mistificata della loro storia più recente, quando i testimoni e gli stessi protagonisti della guerra civile erano ancora vivi e sarebbe bastato chiedere alla gente qualsiasi, ai contadini, ai piccoli commercianti, a coloro che nel 1944-45 avevano venti o trent’anni, chi fossero i partigiani, quale percezione avesse di loro la popolazione, come si comportassero nel corso delle loro azioni, sia in montagna che in città. Invece il popolo italiano ha preferito studiare la storia sui libri e fidarsi di quel che dicevano i professori: ma sia i libri che i professori erano stati forgiati alla scuola del conformismo intellettuale e ripetevano, anche in buona fede, quel che credevano vero, senza prendersi la briga di andare a verificarlo. Ma forse, in qualche modo, gl’Italiani volevano essere ingannati: la verità avrebbe fatto male, e preferirono ignorarla…
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