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15 Settembre 2015
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15 Settembre 2015Il filosofo inglese Roger Scruton ha avuto il merito di riportare la discussione sul trattamento degli animali entro limiti più ragionevoli e meno emotivi, dopo le esagerazioni dei vari movimenti animalisti.
Per lui, quattro sono le fonti del giudizio morale: la legge morale naturale, la simpatia, le virtù e la "pietas". Egli ha avuto, inoltre, il grande merito di mostrare l’inconsistenza e la miseria dell’utilitarismo, un filone di pensiero profondamente radicato nella cultura filosofica del suo Paese: identificando l’utile col giusto, di fatto l’utilitarista nega a sé e agli altri il giudizio morale e mostra di ignorare quale sia la natura della felicità, che è sempre inerente alla natura razionale dell’uomo, come del resto Aristotele aveva già insegnato.
Infine, e non è cosa da poco, Scruton ha portato un contributo positivo alla discussione sui "diritti" degli animali operando una opportuna distinzione fra gli animali da compagnia, quelli da allevamento e quelli selvatici: perché, se è vero che qualsiasi animale — o almeno, a quanto ci è dato sapere, qualsiasi animale superiormente organizzato — è suscettibile di provare il dolore, è pur vero e innegabile che l’uomo ha instaurato un diverso rapporto cin queste tre categorie di animali, per cui ne derivano diversi obblighi nei loro confronti.
Ciò detto, bisogna osservare che Scruton, a nostro avviso, ha semplificato un po’ troppo i termini della questione. Secondo lui, qualunque discorso sui diritti implica una responsabilità morale; e, poiché gli animali, a suo dire, non sono capaci di senso morale, ne trae l’ovvia conclusione che gli animali, a rigor di termini, non possono essere soggetto di diritti. Al tempo stesso, egli sostiene che l’uomo, detentore del senso morale, ha, nei loro confronti, dei doveri: quindi gli animali, e specialmente gli animali più prossimi all’uomo nella loro relazione reciproca, pur non potendo vantare alcun "diritto", di fatto hanno quello di non essere inutilmente e sadicamente maltrattati, perché ciò violerebbe i doveri che l’uomo ha nei loro confronti.
Ma è proprio vero che gi animali, in tutti i casi, sono privi di senso morale? E, se anche così fosse, non è contraddittorio sostenere che gli animali non hanno diritti, ma che l’uomo, nondimeno, ha dei doveri verso di essi? Se l’uomo, infatti, sente di avere dei doveri nei loro confronti; se avverte di non poterli trattare come cose, come esseri non senzienti, ciò non suggerisce che, in fondo alla propria anima, egli dubita dell’assunto iniziale, vale a dire che gli animali sono sprovvisti di diritti, in quanto sprovvisti di senso morale? Se l’uomo fosse ben certo e convinto che gli animali non hanno senso morale (che non hanno "anima", come si diceva un tempo), perché mai dovrebbe farsi degli scrupoli nei loro confronti; perché mai dovrebbe trattarli con un certo riguardo, e non, cme sosteneva Cartesio, come se fossero puramente e semplicemente delle macchine dotate di voce e movimento?
C’è un momento, peraltro, in cui la riflessione di Scruton su questo argomento sfiora il punto in questione: ed è quando egli prende in esame il caso specifico degli esperimenti che si fanno sugli animali, a fini medici o, in genere, a fini di ricerca scientifica. Per un attimo, egli si rende conto — e lo confessa — di avere spinto la riflessione sull’orlo dio un abisso inesplorato: l’abisso del dolore universale, nel quale è cosa ardua, per non dire un azzardo, ignorare il dubbio che la "natura" animale non differisca poi tanto, alla fine dei conti, da quella degli esseri umani; se sono capaci di soffrire, e di essere coscienti della propria sofferenza, chi siamo noi per sentenziare che sono del tutto sprovvisti di senso morale? Davvero un cane che si lascia morire sulla tomba del padrone ignora il senso morale? Davvero agisce in tal modo solo per una forma "irragionevole" di abitudine, al punto di cancellare in se stesso il richiamo dell’istinto, che è, in primissimo luogo, istinto di conservazione di sé e della propria vita?
Ci piace riportare la pagine in questione, perché il lettore possa fare direttamente le proprie deduzioni in merito (da: Roger Scruton, «Gli animali hanno diritti?»; titolo originale: «Animal Rights and Wrongs», Demos, 1996; traduzione dall’inglese di Daniela Damiani, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2008, pp. 83-85):
«Non c’è alcuna persona — capace di sentimenti di partecipazione – che creda si possano usare gli animali a nostro piacimento, solo alo scopo della conoscenza. Tuttavia, molti sostengono che gli esperimenti su animali vivi siano sia necessari per i progressi scientifici (particolarmente in ambito medico) sia leciti se controllati in modo accurato.
Io credo si debba valutare il problema con lo stesso metro con cui abbiamo considerato quello del bestiame. Bisogna esaminare il sistema della sperimentazione animale nel suo insieme, la sua funzione e cosa di buono ne scaturisca; tenere in dovuto conto il destino di questi animali e gli speciali doveri di cura che sono loro dovuti. Da ultimo, dobbiamo stabilire i principi di base per ciò che non può essere fatto (malgrado i vantaggi apportati dai risultati) e fondare il nostro ragionamento — che non può essere ridotto a un calcolo meramente utilitaristico – su simpatia e "pietas", e sul loro concetto di virtù.
La ricerca medica ha bisogno di sperimentazione su creature vive che non possono essere esseri umani, , se non in quei casi in cui il consenso può essere plausibilmente chiesto e ottenuto. I vantaggi della ricerca medica non vanno solo alle persone, ma sono anche nell’interesse degli animali di cui ci occupiamo e si deve partire dal presupposto che i benefici a lungo termine per tutti controbilanciano i costi di sofferenza e disagio a breve.
Il dovere di cura, dovuto agli animali impiegato nella ricerca media, implica che ci si debba assicurare che le loro vite valgano la pena di essere vissute e che la loro sofferenza sia ridotta al minimo. Anche entro questi limiti, tuttavia, ci sono cose che una persona corretta non farà, poiché urtano profondamente i sentimenti di simpatia e rispetto. La vista di animali superiori — sui quali la sperimentazione interferisce a tal punto da menomare le loro capacità di movimento, percezione o reazione – è talmente angosciante che è necessaria una certa dose di mancanza di cuore per poter condurre quegli esperimenti. E ciò che può essere fatto solo da una persona insensibile non dovrebbe accadere. Se, da una parte, il caso è paragonabile all’allevamento industriale, da un’altra è anche fondamentalmente diverso: di norma, un esperimento è condotto su un animale sano, che è prescelto per questa disgraziata esperienza, nel corso della quale potrebbe essere deliberatamente ucciso. L’inarrestabile corso della scienza farà sì che gli esperimenti continuino — ma ciò è parte di quello che è sbagliato in tale inarrestabile corso.
Qui si giunge a una questione così profonda da farmi dubitare che il comune senso morale possa fornire una risposta. Come ho accennato poc’anzi, il progresso della medicina non è in alcun modo un bene positivo assoluto: non c’è motivo di rallegrarsi nel guardare all’emergente società priva di gioia ormai costituita da vecchi. Sebbene non si possa deliberatamente rinunciare a scoprire e conoscere, c’è del vero nel detto che l’ignoranza — o almeno un certo tipo di ignoranza — è una benedizione. Nel passato, la "pietas" poneva degli ostacoli lungo il percorso della conoscenza, ostacoli che avevano una certa funzione, poiché impedivano alla generazione esistente di prendere il controllo delle risorse della Terra e le assoggettava alla causa della sostenibilità a lungo termine. La scienza medica può aver giovato ai viventi, ma ora minaccia quelle risorse che i morti hanno risparmiato per noi e dalle quali dipende chi non è ancora nato. Una volta, gli animali erano sacrificati agli dei da chi accettava serenamente l’idea che presto li avrebbe seguiti nell’oblio; oggi sono sacrificati alla scienza da persone che coltivano l’empia speranza di poter prolungare la loro permanenza in questa vita per sempre. Può essere moralmente accettabile, eppure qualcosa nel cuore umano vi si ribella.»
Vorremmo partire dalla constatazione che Scruton è decisamente troppo ottimista quando parte dal presupposto che «non c’è alcuna persona — capace di sentimenti di partecipazione – che creda si possano usare gli animali a nostro piacimento, solo alo scopo della conoscenza». Ci sono invece moltissime persone, a cominciare dagli scienziati, che non tengono in alcun conto, per principio, la sofferenza animale: basti vedere quella famoso pagina de «Il Saggiatore» in cui Galilei, il padre nobile della moderna concezione scientifica, descrive senza batter ciglio, né mostrare il benché minimo imbarazzo o senso di disagio, la vivisezione di una cicala, fatta al solo ed unico scopo di comprendere l’origine del suono da essa prodotto; e, cosa ancora più notevole, il fatto che generazioni e generazioni di scienziati, di storici della scienza e anche di comuni lettori non hanno mai trovato nulla a ridire in proposito, come si può vedere sfogliando un qualsiasi testo scolastico che riporti la "favola dei suoni", ove si sprecano le più alte lodi per la sete di conoscenza di Galilei e per la sua "umiltà" scientifica, ma neppure una parola, mai, di "pietas" nei confronti dell’animale che viene sacrificato.
In secondo luogo, ci sembra che Scruton la faccia un po’ troppo semplice, e che ricada nel deprecato atteggiamento utilitarista, allorché sostiene che, nella sperimentazione su animali vivi, «i benefici a lungo termine per tutti controbilanciano i costi di sofferenza e disagio a breve». È una frase che lascia profondamene perplessi: chi siamo noi per giudicare che la sofferenza altrui — di un nostro simile, ma anche di un animale — è una faccenda di breve termine, che viene controbilanciata dai vantaggi generali a lungo termine? Per colui che sta soffrendo, e che sta soffrendo a causa di una sofferenza che noi gli abbiamo imposto, sulla base del nostri insindacabile giudizio, forti di una superiorità materiale che ci consente di disporre di lui come meglio ci aggrada, ciò che prova è un male assoluto: la tortura, volontariamente inflitta, e la morte. Non è un male relativo: è un male assoluto, perché coincide con il massimo del dolore e con l’annullamento totale del suo essere (stando almeno a quanto sappiamo, o crediamo di sapere: noi, personalmente, abbiamo qualche dubbio sull’annullamento totale di chiunque e di qualsiasi cosa, ma, dal punto di vista di Scruton, che è fortemente razionalista e pragmatico, ci son o pochi dubbi che, per l’animale, la morte sia la fine totale). Dunque, per noi umani è cosa relativamente facile — troppo facile, ci sembra — assolvere la nostra coscienza, affermando che il fine giustifica i mezzi: si tratta di un machiavellismo di bassa lega, tanto più ingiustificato in quanto lo stesso Scruton non si nasconde, poche rughe più avanti, l’esistenza di un mistero insondabile, davanti al quale si è tentati di arretrare, tanto spaventano le sue profondità abissali: il mistero del dolore.
Se l’animale è privo di senso morale, e se tale assenza giustifica la sua manipolazione, la sua vivisezione e la sua uccisione da parte dell’uomo, che un senso morale ce l’ha, ne dovrebbe conseguire, a rigor di logica, che un trattamento equivalente dovremmo, o quanto meno potremmo, riservare, anche a quegli esseri umani che la natura ha privato del raziocinino e, dunque, del senso morale: i portatori di handicap mentali. E non parliamo, poi, del feto dei nascituri: Scruton, lo sappiamo, nega che l’aborto sia perfettamente lecito, perché mette in dubbio che il diritto del più forte, la madre, prevalga sul più debole, il bambino non ancora nato. Ma è coerente questa posizione con le premesse, vale a dire che l’esistenza di diritti naturali, a cominciare dal diritto alla vita, si giustifica solo con il criterio del possesso di un senso morale? Se così fosse, allora né gli esseri umani portatori di handicap, né i nascituri dovrebbero possedere alcun diritto. È una conclusione ripugnante eppure sfidiamo chiunque a negare che essa non sia perfettamente in linea con le premesse. E allora?
Quando, poi, Scruton evoca la visione di un animale vivo che viene sottoposto a vivisezione, egli parla di angoscia da parte dello spettatore: ma qui il filosofo cede il passo al moralista emotivo, contro i suoi stessi principi. Se una cosa è lecita e giusta, non dovrebbe provocare particolare turbamento, tanto che vi si assista di persona, quanto che non la si veda con i propri occhi. Quel senso di angoscia insopportabile è la spia di un difetto nel ragionamento. Non si prova angoscia, né turbamento nel manipolare un oggetto inerte; ma l’animale, appunto, è un essere vivente: dunque, l’essere vivente in quanto tale, e non solo l’essere umano (più o meno dotato di senso morale) è soggetto di diritti. Questo annoi sembra che emerga dalla forza dei fatti e non soltanto da un ragionamento astratto, né da uno stato d’animo emotivo.
Scruton, poi, mette in dubbio la liceità della sperimentazione sugli animali vivi, prospettando che essa contribuisce a fondare una società di vecchi, priva di gioia. È gratuito equiparare la vecchiaia alla tristezza, ma andiamo oltre: è gratuito, a nostro avviso, equiparare l’invecchiamento della società ad un male in se stesso, perché un tale atteggiamento implica che noi possiamo decidere chi abbia il diritto di vivere e chi no, come se fossimo al di fuori e al di sopra del quadro di riferimento, mentre non lo siamo affatto; vi siamo, anzi, pienamente immersi, proprio perché siamo vivi.
Che i vivi, formati in prevalenza da vecchi, consumino le risorse dei giovani, è una tesi opinabile: Scruton pensa, evidentemente, alle società industrializzate, e non tiene conto che, nei Paesi emergenti del Sud del mondo, la popolazione è sempre più giovane: effetto combinato di un alto tasso d’incremento demografico e di un drastico abbattimento della mortalità infantile. Ma, di nuovo: chi siamo noi per stabilire chi abbia più diritti, o più ragioni, di vivere e di sopravvivere, fra i giovani e gli anziani? Di nuovo, a quanto pare, si cade nel più vieto utilitarismo, dal quale, in teoria, il pensatore inglese aveva preso le distanze.
Tuttavia, il punto veramente centrale della nostra critica è un altro: Scruton parla della vita e della morte come se ci appartenessero. Non parla come chi abbia il timor di Dio; riduce questi problemi, che sono i massimi problemi etici, a questioni puramente umane, terrene, immanenti, come se gli esseri umani fossero gli artefici e i padroni della vita. Questo è l’errore di prospettiva. Essi ne sono solamente i custodi: l’hanno ricevuta e hanno il compito di trasmetterla a loro volta. E la vita è vita, sempre: che sia umana, animale, vegetale o… extraterrestre. Forse non esistono esseri non senzienti; forse perfino le cose che noi crediamo inanimate sono depositarie di una qualche forma di vita, troppo sottile per essere colta dai nostri imperfetti strumenti materiali e concettuali e dalla nostra orgogliosa razionalità scientifica.
Ora, se la vita non ce la siamo data da soli, e ne siamo unicamente i custodi (e i beneficiari), ne consegue che non sta a noi decidere chi ne sia degno e chi no. Tutto qui. Certo, vi sono dei casi nei quali la vita p costretta a scegliere, proprio per potersi perpetuare: «mors tua, vita mea»; in natura, questa è addirittura la regola. Ma l’uomo non è solamente un prodotto della natura — a meno di cadere in una visione puramente materialistica dell’uomo, e non ci sembra sia questo il caso di un pensatore come Scruton; egli è anche spirito, dover essere, destino. Viene dall’Essere e all’Essere è chiamato a ritornare. In questo grande, immenso, sconvolgente mistero, è il senso della sua esistenza terrena. Non sta a lui giudicare la vita, né dei suoi simili, né delle altre creature, se non per immediata e indispensabile difesa; né dei nati, né dei nascituri; né dei giovani, né dei vecchi. Non è questo che gli viene chiesto, non per questo è stato chiamato. È stato chiamati per amare. E una scienza priva di amore per le creature non è vera scienza, ma scienza diabolica: espressione di quella perversione del senso morale che scaturisce dall’oblio dell’Essere e dalla rivolta luciferina delle creature contro il loro Creatore, caratteristica della civiltà moderna.
Fonte dell'immagine in evidenza: iLexx